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Scrittura e vita, simbiosi perfetta

Scrittura e vita, simbiosi perfetta di Matilde Perriera

di Matilde Perriera

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Madame Bovary e gli echi esplosivi.

Recensione del romanzo Madame Bovary di Gustave Flaubert

Settembre 2015

 

MADAME BOVARY(1) è un affresco di notevole spessore socio-antropologico–culturale, dipinto con una microsequenza tormentata(2) che ha destato lo scalpore degli “occhiuti censori del Secondo Impero”(3) e subìto azioni repressive, anche se, dopo l’assoluzione dell’autore, ha travalicato ambiti e confini diventando un bestseller di portata mondiale tradotto in varie lingue. GUSTAVE FLAUBERT costruisce la sua fabula su una solida base documentaria, trasfigurando le vicende realmente accadute a un allievo del padre, il chirurgo Eugène Delamare, la cui moglie, Delphine Couturier, si era suicidata nel 1848. La matrice del nucleo portante di MADAME BOVARY è imperniata sulla figura di Emma Rouault, la moglie di un ufficiale sanitario “attratta dai vagheggiamenti maturati nel suo animo dalla lettura di romanzi di cui si era nutrita sin da bambina in collegio. La ragazza di campagna si è costruita il suo mondo fittizio nel silenzio del dormitorio”, sfogliando con avidità le pagine che “una vecchia zitella” le prestava di nascosto; quei racconti, intessuti dalla magica fantasmagoria “di amori e di amanti, di lacrime e baci su barche al chiaro di luna, di dame perseguitate in foreste tenebrose, di cavalieri biancopiumati pronti a salvare la loro eroina”, ne continuano a sollecitare l’animo. La giovane, stordita dal grigiore dell’esistenza quotidiana e frastornata da vaniloqui che non sanno trovare la via per giungere al suo cuore smarrito, vorrebbe immergersi insieme al marito nelle abissali profondità dell’amore ma Charles Bovary, pur amandola profondamente, “non si lascia stuzzicare dalle divine scintille che la sposina “cerca di far sprizzare”, né si rende di quanto “le carezze e le manifestazioni esteriori, così come le foglie per la vita di un albero, siano necessarie alla vita affettiva e, se interamente trattenute, faranno morire l'amore alle radici”(4). L’irreprensibile “officier de santé” dalla “conversazione piatta come un marciapiede” e “dall’intelligenza lenta”, pensando che la moglie sia asfissiata dalla snervante monotonia di Tostes, si limita a proporre il trasferimento al deprimente villaggio di Yonville. Madame Bovary vorrebbe, invece, sedare l’urlo silenzioso della sua anima con altri svaghi, agogna inviti al castello La Vaubyessard, si convince che un bambino, un maschio, potrebbe darle ossigeno, per cui, alla nascita di Berthe, ogni suo anelito svanisce perché "una donna è sempre impedita". Invidia le contesse parigine e, desiderando imitarle, s’impelaga in cambiali insolvibili, convinta del fatto che “l’abito, codificandosi nel rapporto semiotico classico di languee parole, sia in grado di svelare una delle innumerevoli sfaccettature del suo essere”(5); il gusto per le “cose più belle della vita”, a questo punto, prende il sopravvento e tutto il suo percorso esistenziale scorre in un’anticlimax che la conduce alla distruzione totale. Per sfuggire, infatti, alla noia che, “simile a un ragno silenzioso, fila le tele nell'ombra in tutti gli angoli del suo cuore”, vedendo nell’adulterio il solo mezzo per esercitare un qualche potere sul proprio destino, apre un nuovo capitolo della sua vita e sceglie liberamente di essere infedele; come “un grande uccello dalle piume rosa librato nello splendore dei cieli poetici”, si smarrisce in meravigliose passioni e, per non far scoprire le sue trasgressioni a Charles che, malgrado ogni chiaro illecito e i subdorati inganni, l’adora e la trova innocente, dà il via a “un fitto tessuto di bugie” nel quale, ricamando storie dopo storie, “avviluppa le sue tresche”. Tra sublimazioni e depressioni, velati sensi di colpa e precarie condizioni di salute, intimidazioni degli usurai e pignoramento, “caso Hippolyte” e definitiva disistima verso il marito, spasmodiche ricerche di denaro e conseguente disperazione per i debiti che nemmeno i suoi amanti sono disposti ad accollarsi, l’intramontabile Madame Bovary si schiaccia nella spirale ormai incontrollabile da lei costruita. Per lei nessuna catarsi, la crisalide non riesce a trasformarsi in farfalla e chiede a Justin le chiavi del magazzino in cui è custodito l'arsenico …

 

Nel variegato sistema attanziale sostanzialmente statico che pullula in MADAME BOVARY, nessuno ha il rilievo psicologico della creatura scalpitante, ma parecchi sono gli antagonisti spesso comprimari che ne ostacolano i labili tentativi di oltrepassare il filo spinato dell’indifferenza e interagiscono, più o meno consapevolmente, nel processo di annientamento. Le figure scorrono attraverso dettagliate descrizioni fisiche, psicologiche e comportamentali, o incisivi ritratti psicologici scaturiti dal comportamento, dalle azioni e dalle reazioni emotive o la caratterizzazione sociale … C’è Papà Rouault, “l’agiato agricoltore piccolo e grassoccio” che freme all’idea di affidare la figlia al Dottore e identifica l’arrivo della primavera con le prospettive di un matrimonio felice; incurante dei diversi caratteri degli sposi e delle incompatibilità future nel loro rapporto, non si rende conto di quanto Charles, pur protettivo, tenero, disponibile, sia lontano da tutte quelle premure che potrebbero appagare un’idealista e di come le limitate ambizioni del genero cozzeranno con le chimere della “graziosa, adorata donna” sempre desiderosa di “scorgere una vela bianca fra le brume dell'orizzonte” ... C’è Bournisien, che s’inorgoglisce nel definirsi “medico delle anime” ma crede soltanto nelle sofferenze fisiche, che, nel silente “dis-inter-esse”(6), declina inconsciamente il compito di entrare in relazione con Emma, non l’asseconda nel sanare il pungente contrasto fra gli ideali romantici e la prosaicità del reale e, anziché sorreggerla spiritualmente, la disgusta con le ipocrite pratiche religiose, per lui l’ascolto empatico è pura teoria … C’è Homais, l’egocentrico farmacista che, basandosi su astratte teorie dettate dal razionalismo illuministico, interviene con i suoi discorsi prolissi e saccenti a sentenziare, prendendo di mira soprattutto i preti sempre pronti a “sbevazzare ma senza farsi vedere” e a credere in chi, “contrariamente a tutte le leggi della fisica, muore mandando un grido e resuscita dopo tre giorni”. Orgoglioso del suo Dio identificabile in quello “di Socrate, di Franklin, di Voltaire, non demorde mai, è cieco di fronte ai propri difetti e non si dà per vinto neanche all’evidenza, ma si dispone, quando lo ritiene necessario, a “sacrificare la dignità agli interessi della sua bottega” … C’è Adolphe Lheureux, lo scaltro e avido mercante che, con la voce melliflua, “il lampo dei suoi occhietti neri” e i suoi inchini falsamente cortesi, lusinga “la rondine ferita”, la raggira, la convince a comprare beni a credito, a contrarre mutuo presso di lui, la minaccia di rendere pubblica la relazione tra lei e Léon e la spinge nel baratro … E Rodolphe Boulanger, il focoso amante dal “temperamento brutale e l’intelligenza fine”, che intravede all'istante la possibilità di pescare “la carpa boccheggiante”, si esalta narcisisticamente per il trasporto divorante di lei, la spinge a rispondere al “dovere morale di non accettare le ignominie imposte dagli stereotipi”, a raggiungere la totale anestesia della coscienza, a coltivare entusiastici propositi di fuga per poi, “come l’acqua di un fiume assorbito dal proprio letto”, congedarla miseramente con una lettera inviata “in un cesto di albicocche” e gettarla in una condizione di prolungata prostrazione psichica … E l’utopistico Léon Dupuis, che, nella prima fase del loro incontro, “spoglia di tutte le attrattive carnali” la “prigioniera ansiosa di trovare una via di fuga dalle grate di noia del matrimonio”(7), la colloca “in un’apoteosi tesa sempre più in alto” e la ama autenticamente; dopo la “Lucia di Lammermoor”, invece, ne potenzia il bisogno di rinnegare “un futuro costruito come un corridoio oscuro dalla porta sbarrata”, di lasciarsi corteggiare, di pianificarsi le immaginarie “lezioni di pianoforte del giovedì”, anche se, alla fine, l’abbandona perché incapace di assumersi un impegno relazionale vincolante” … E Lestiboudois, che, da sagrestano della Chiesa, “suona la campana spandendo nell’aria una pacifica lamentazione e, da becchino, “campa sui morti”  … E altri spregevoli profittatori, Vinçart, Hareng, Guillaumin, Binet … E, ancora, tanti “manichini”(8) privi di vibrazioni spirituali che lo scrittore, “lastra sensibilissima e impietoso magnetofono della chiacchiera”(9), riprende magnificamente nelle movenze sostanziali con la “cocciuta e implacabile pazienza di un uomo intento a suonare il pianoforte con palle di piombo su ogni falange”(10)

 

GUSTAVE FLAUBERT, “dopo cinque anni di continuate ed estenuanti riscritture”(11), ha lasciato, con MADAME BOVARY, una prova stilistica trascinante caratterizzata da “una ricercatezza formale che sa nascondere, nell’apparente semplicità, l’immensa e spossante fatica della creazione”(12). Il brillante conversatore, con encomiabile competenza, produce un cortocircuito con il lettore e lo fa riflettere “suaviter in modo fortiter in re”(13), in maniera semplice, immediata, piacevole, ma incisiva nelle osservazioni. La fortissima incidenza si deve anche alla stesura rinvigorita da un “accostamento eretico”(14) tra il registro colto di chi narra e le espressioni tipiche che, in ipotiposi, esprimono il mondo interiore degli attanti. Le strutture sintattiche sono, di volta in volta, adeguate allo status sociale dei parlanti, in un rimando ininterrotto tra terminologie rigorosamente formali, artifici retorici raffinati, aggettivazioni perfettamente calibrate, diagnosi cliniche misurate, delucidazioni rigorose e dialoghi che si intercalano a esclamazioni di parlate locali, intrusioni dialettali, scritture fonetiche in corsivo, similitudini ardite, metafore, circonlocuzioni, metonimie, da cui è possibile cogliere aspetti connotativi di grande rilievo artistico evidenti anche nei particolari più minuti. Formidabile l’icasticità nel catturare i suoi personaggi e le loro lotte in tutte le sfaccettature, quando, per esempio, dipinge la protagonista in modo ambivalente, la fa apparire capricciosa, sempre in preda a “un malessere vago”, ne stigmatizza, condannandole implicitamente, le tendenze languide della fervida passionalità e le immaginazioni che, trascendendo la vita, per tautologica(15) definizione, non potranno mai realizzarsi, ma, al contempo, è lapidario nel suo “contraccolpo violento”(16) verso la  piccola borghesia di provincia di cui amplifica la banalità. Il perfezionista alla perenne ricerca de “le mot juste”, la parola giusta capace di penetrare nei meandri del cuore umano, nel ruolo di narratore omodiegetico, mette il lettore di fronte alla molteplicità dei punti di vista e delle interpretazioni del reale. Molto incisiva la vertiginosa ellissi nella scena in cui il fiacre “va e viene senza posa sul porto, in mezzo ai carri e alle botti, nelle strade, alle cantonate, chiuso come una bara e ciò che accade all’interno tra Léon ed Emma è lasciato all’immaginazione del lettore intento a sbirciare inutilmente oltre le tendine abbassate”. Il celarsi del narratore, se ha attirato sullo scrittore francese “le accuse di latitanza morale e di connivenza con la protagonista per il silenzio-assenso, ha anche giocato a favore della sua assoluzione, sulla base del principio, ugualmente valido, della distinzione tra l’intenzione dell’autore e i caratteri o le vicende dei personaggi”(17). Il prosatore, però, sebbene, da cronista imparziale, lasci una scrittura intenzionalmente impersonale e distaccata, in punti chiave, fa capolino tra le righe nelle vesti di narratore eterodiegetico, onnisciente, palese e personale, con espliciti interventi giudicanti dissimulati dall'uso di un aggettivo, di un sostantivo, di un verbo, di espressioni non neutre attraverso cui introduce situazioni e idee proprie, veicola il giudizio del lettore e orienta le reazioni verso precisi parametri di valutazione a livello morale, politico, religioso. Ed ecco che fluiscono dalla pagina parenesi rapide di grande spessore gnomico … “il sacrificio che credeva di fare … l’amore deve seguire tutti i cliché letterari … i preti sono corvi attratti dall’odore dei morti … una richiesta pecuniaria, fra tutte le burrasche che colpiscono l’amore, è la più fredda e la più sconvolgente” … Scorrendo le macrosequenze centrali, inoltre, si nota che, se il Flaubert-Uomo testimonia una presa di distanza dalla materia rappresentata e punta l’indice sulle colpe morali di cui la sua eroina si è macchiata nel tracciare un inesistente percorso al di fuori della sua prigione a cielo aperto, l’Uomo-Flaubert, da narratore autodiegetico, intimamente coinvolto dalla natura passionale del ”grande uccello dalle piume rosa librato nello splendore dei cieli poetici” e cresciuto con l’odio per le convenzioni della borghesia provinciale, dice con consapevolezza “Madame Bovary c’est moi”(18), estendendo, forse, il perenne oscillare tra fastidio del quotidiano e nostalgia dell’impossibile non solo a sé stesso, ma, a raggio costantemente ampliato, a tutta la società francese del suo tempo o, proletticamente, anche ai giorni pieni di vento, di lacrime, di sofferenze degli uomini del XXI secolo.  “Madame Bovary c’est moi” … Il pregnante sintagma sancisce, in fin dei conti, la presenza di ogni autore nelle proprie opere e questo è un fatto naturale perché, in qualsiasi novella, romanzo, fiaba, favola o racconto, chi scrive, lascia una qualche inconfondibile traccia del suo privato, immettendovi il suo stato d'animo, le sue aspirazioni, le sue ansie, i suoi problemi, provenienti non solo dalla sua sfera cosciente, ma, soprattutto, dal suo inconscio. GUSTAVE FLAUBERT, allora, si deve ascrivere alla corrente del Romanticismo o del Realismo? O, più semplicemente, MADAME BOVARY si inserisce in un filone al bivio tra la crisi degli ideali romantici del tempo, ai quali, ancora, non si riusciva a sostituire valori alternativi, e l’incipiente Naturalismo? Domande oziose perché, se non si vuole perdere di vista l’asse portante di tutta la microstoria, è indispensabile evitare scelte troppo drastiche; solo astenendosi dal ricercare l’alternativa continuità/rottura, si potrà rimarcare una più concreta radiografia del testo e apprezzare quel sapiente sperimentalismo in grado di mantenere, nell'arco della produzione flaubertiana, una sua cruciale funzione.

 

1856-2015 … Più di un secolo e mezzo è trascorso dalla pubblicazione del romanzo, apparso per la prima volta a puntate sul Revue de Paris, fiumi d’inchiostro ne hanno analizzato le coordinate di base e lo spirito animatore, eppure, ancora oggi, la fama di MADAME BOVARY non si spegne; la filmografia annovera, di questa moglie fedifraga, ben tredici reinterpretazioni che, dalla rilettura di Albert Ray del 1932, passano, ricordando le più note, attraverso quelle di Jean Renoir del 1933, di Vincente Minnelli  del 1949, di Hans Schott-Schöbinger del 1969, di Daniele D’Anza del 1978, di Alexander Sokurov del 1989, di Sophie Barthes del 2014 e persino un manga(19) del 1997. Tra tutte le proiezioni, spicca, malgrado chiarissime ellissi, quella di Claude Chabrol, che, con la messinscena del 1991(20), pur eliminando il prologo del romanzo, sembra camminare a braccetto con Gustave Flaubert e si avvicina allo spirito della protagonista con tutta la freschezza dell’originale. Particolare riscontro si cataloga sia nelle scaltrite tecniche narrative, con i disinvolti passaggi dal discorso diretto, all’indiretto, all’indiretto libero, al monologo interiore, al flusso di coscienza, sia nella velocità della narrazione, articolata su sequenze singolative(21) e iterative(22), sia nei dialoghi ricalcati ad unguem(23). Le differenze che si colgono tra il tessuto narrativo del regista francese e il romanzo vengono egregiamente compensate dalla voce fuori campoin terzapersona, che anticipa, chiarisce, commenta quanto, pur non trovando spazio nell’economia complessiva del film, è ritenuto vantaggioso perrispettare i vari gangli portanti della storiae restare coerente al mondo così bene specificato dallo scrittore. La pellicola, d’altra parte, non avrebbe potuto, in 143 minuti, sintetizzare i sussurri di un’anima “avvilita dal fastidio del quotidiano e dalla nostalgia dell’impossibile”(24) che, nell’edizione di riferimento(25), si estendono per ben 222 pagine. Una nota a favore di Claude Chabrol si sottolinea nella conclusione. I fatti narrati da GUSTAVE FLAUBERT si avviano nell'ottobre 1827, e si concludono nell'agosto 1846, ma nell’epilogo il tempo della storia è maggiore del tempo del discorso con indicazioni che sfumano nell'indeterminato e disincantano con un pietismo che scade nell’inutile patetismo verso figure mute di cui, peraltro, non vengono rappresentati nè stati d'animo nè sensazioni; il film, invece, chiude il sipario sulla morte di Emma, lasciando un retrogusto probabilmente più energico del romanzo. “E’ colpa della fatalità” - dice Charles – permettendo a ciascuno, con la brachilogia di fatti intermedi e successivi o di satelliti meno rappresentativi, la possibilità di liberare l’immaginazione … Il vedovo riuscirà a risolvere i terribili problemi insoluti? E scoprirà le lettere di Rodolphe e di Leòn? E verrà informato degli adulteri della moglie? E, in tal caso, ne distruggerà l’immagine ideale o l’amerà ancora di più oltre la tomba?E quali saranno le reazioni del cinico proprietario terriero o del giovane avvocato? E che succederà a Berthe? E Homais riuscirà a imporsi socialmente e a ottenere l’ambita “croce d’onore”?

 

La concentrazione in sala si cattura sin dall’analisi della locandina in cui, come prolessi di tutta l’epopea, l’attrice, con la magistrale esperienza di “chi sa entrare nelle vesti della protagonista” intrappolata dalle ipoteche, dal pignoramento e da quanto l’aspetta, corre disperata, brancola tra “i mucchi di foglie dispersi dal vento”, ansima, mentre speranze, illusioni, utopie svaniscono “come i mille frammenti di un fuoco artificiale”, cerca la luce ma è ormai salita su un treno senza fermate e sente echeggiare il toc toc della morte, in un evolversi inesorabile scandito dalla lancetta altisonante che, neutralizzando gli ultimi esili segni di una forza interiore ormai assente, già le contrae le labbra e la spinge verso la farmacia …

 

Prima il libro o il film? Prima il libro certamente perché conoscerne la trama e respirare virtualmente gli avvenimenti focali di “una creatura chiusa nel ristretto ambito della vita matrimoniale, senza alcuna compensazione esistenziale e culturale a livello di ambiente esterno”(26), predispone l’animus del lettore-spettatore a introiettare i messaggi. Prevale, in ambedue i casi, la fabula diacronicamente organizzata, con frequenti entrelecement grazie ai quali chi legge o chi vede divora libro e pellicola senza stancarsi; il lungometraggio, in particolare, si dimostra funzionale perché le inquadrature non sono semplici illustrazioni ma, piuttosto, interpretazioni di ciò che lo scrittore ha cercato di veicolare. Le scene, in cui a parlare sono semplicemente i volti, le stanze, i paesaggi, non solo si attengono rigorosamente alle indicazioni presenti nel libro, ma, addirittura, integrano quelle connotazioni che potrebbero sfuggire anche alla lettura più attenta. Mai, infatti, senza il film, si sarebbero colte delle sfumature tanto sottili come, per esempio, quelle che fanno godere della gran serata alla Vaubyessard, in cui tutto si segue essenzialmente secondo la prospettiva della Signora Bovary; non vi sono grandi inquadrature d’insieme se non per  rispecchiare i sentimenti di lei a cui non interessa  il ballo in sé, ma, piuttosto, i discorsi degli altri invitati “che hanno la carnagione della ricchezza”. Isabelle Huppert, nelle vesti della pallida “freccia di fuoco sempre pronta a scoccare”, stregata da questo universo che l’affascina e la rattrista, è felice e triste, reazioni ossimoriche frequenti per chi sa che non ne farà mai parte e, per la prima volta, le si manifesteranno i capogiri … L’invito improvviso a danzare la rapisce, “il Visconte la trascina con sé in un volteggiare sempre più rapido” e, al sorriso che le sfugge, lo sfondo si allarga centrando la nobiltà, la ricchezza, i vestiti delle dame e indugiando sui particolari dei volti … “E’ il più bel giorno della sua vita” – dice Emma – ma, tornata a casa, PUFF, l’estasi svanisce e il senso di frustrazione diviene insostenibile, ogni pretesto sarà occasione di litigio con un mortificatissimo e dolente Jean-François Balmer del tutto allineato a Charles … “Che pover’uomo !!! … Che  pover’uomo” !!!” … E le manovre dello straordinario Christophe Malavoy che impersona l’attraente Rodolphe nel capitolo in cui, durante i comizi, prende in disparte “la sua Madonna sul piedistallo” e, fingendo sincerità, la incanta per indurla in tentazione e farle “assaporare, senza rimorso, senza inquietudine, senza turbamento, l’amore che, per tanto tempo costretto, sgorga libero e ribollisce gioiosamente”? E l’ennesima delusione provocata da Lucas Belvaux, che, entrando in sintonia con il filosofeggiare di Leòn, ben ne rappresenta il bisogno di tendere a grandi orizzonti? … Stimabilissima la sinergia nel perfetto lavoro d’équipe che, con i costumi di Corinne Jorry e Christine Guégan, i delicati e suggestivi intermezzi musicali di Matthieu Chabrol, Jean-Michel Bernard, Maurice Coignard, la dettagliata scintigrafia degli scenari di Michele Abbe-Vannier, ci si addentra con consapevole attenzione al tempo della storia che fluisce durante la “Monarchia di Luglio”(27). A conclusione della lettura e al The end della proiezione mille interrogativi bombardano i fruitori mentre, amareggiati e impotenti, assistono, con scene dense, alla morte lenta e penosa di Emma, oppure partecipano allo sbigottito dolore del Dr. Bovary che, caduta la lente smitizzante di Emma, si rivela personaggio veramente positivo, bonario, delicato, disposto ad affrontare quanto graverà sul suo capo, o presagiscono la più drammatica sorte della bambina abbandonata alla solitudine e alla povertà …

 

Chi, nella sostanza, i carnefici che muovono il filo conduttore di questa pietra miliare del Secondo Ottocento francese? SONO, innanzitutto, le forme di inadeguatezza nella comunicazione verbale che “mettono in discussione la natura dialogica dell’essere umano”(28) e trasformano “il linguaggio umano in una caldaia incrinata su cui si battono melodie per far ballare gli orsi, mentre ciò che si desidera è una musica capace di commuovere le stelle”(29). Gli emblemi delle inattendibili relazioni interpersonali, in un mondo in cui nessuno si adegua alla legge del “Che ne pensi? Chi sei? Cosa hai dentro? In cosa credi?”, sono resi chiaramente sin dall’incipit, in cui l'insegnante di Charles ritiene che il “ragazzotto ridiculus dall’aria giudiziosa e molto imbarazzata” si chiami “Charbovari”, ma fluiscono per tutta l’opera estendendosi a quanti non sanno percepire il malessere della donna “nata per inseguire le nuvole volubili e mutevoli”(30), o ridicolizzano Charles convinto di intravedere semplici messaggi di affetto platonico nella lettera del ricco avventuriero senza scrupoli … SONO, certamente, i meccanismi duri e spietati della lotta per la vita che, inaspriti dalle trappole dell’arida mediocrità della classe medio-borghese francese in netta ascesa nell’era di Luigi Filippo, investono l'intera cultura dell'epoca; la protagonista, espressione della fragilità dell’animo umano”(31), infatti, si specchia in un “un sistema storicamente declinato al maschile”(32), regolato da soffocanti e potenzialmente malefiche fredde figure autoreferenziali che, attratte da vistoso materialismo o dalla fede nel potere di quella tecnologia in progressivo avanzamento e senza alcuna propensione verso il discernimento critico dell’hinc et nunc, calpestano la delicata sensibilità della signora Rouault; su tutti si erge il sordo Jacques Dynam, che si cala perfettamente nell’abate Bournisien e la bolla persino al momento dell’estrema  unzione ricordandone “gli occhi tanto vogliosi di ogni pompa terrena, la bocca aperta alla menzogna all’orgoglio e alla lussuria, i piedi rapidi verso l’appagamento dei suoi desideri”. SONO … SONO … SONO … ED EMMA PUÒ RITENERSI COLPEVOLE? … SI’... perché, al di là del relativismo orizzontante e verticale che la inchioda a “una vita fredda come un granaio con la finestra esposta a nord”, non può essere giustificata per i discutibilissimi atteggiamenti comportamentali di cui si è resa interprete ... SI’… perché, nella dicotomia tra le impellenze affettive di Berthe e il bisogno del tutto egoistico di “accarezzare quelle parole, felicità, passione, ebbrezza apparse tanto belle nei libri, si mostra incapace di rispettare i valori sacri della maternità, vanifica il “meraviglioso potere attivo sprigionato da un arcobaleno”(33), strozza i mormorii interiori del proprio subconscio, scade nel “Bovarismo”(34) più corrosivo e affonda negli stereotipi ­del “Kitsch”(35) ... SI’... perché, travolta dalla vana ricerca di un muro di ferro capace di bloccare i mostri implacabili delle “debolezze della carne”, si lascia sospingere inesorabilmente nell’impari lotta tra “un desiderio che trascina e una convenienza che trattiene” ...  SI’... perché è “un asintoto, una retta che si avvicina indefinitamente alla curva senza mai toccarla”(36), e, a differenza del turbine di magma incandescente di personalità femminili letterarie o filmiche di ieri e di oggi del calibro di Giovanna, “la donna salita sul trono di Pietro”(37), o di Anna Shirley(38), Pollyanna(39), Annie Sullivan(40), Vivian Ward(41), Linda Voss(42), Suor Maria(43), Giada Ferretti(44), Malala(45) o di altre eroine ante litteram, gocce di rugiada che bagnano il cuore e rompono il silenzio nonostante le turbinose esperienze alle spalle, non sa lottare per dimostrare la funzione apotropaica del confronto attivo ... SI’... perché, anche se l’adulterio viene indirettamente punito, “i germi autodistruttivi insiti nei suoi comportamenti o le scene lascive e immorali, fungendo da strumento di mediazione simbolica del desiderio”(46), potrebbero invitare, per effetto-contagio, più all’identificazione che alla repulsione, sollecitare l’eccitazione irriflessa dei sensi e, “con il loro potere destrutturante esercitato su istituzioni, norme morali, valori condivisi, idee convenzionalmente accettate”(47), colpire le menti di donne illuse incapaci di formulare un giudizio critico razionale sulla materia romanzesca”(48) o, peggio, spingere le giovani lettrici a considerare il tradimento del tutto legittimo in un vincolo non del tutto soddisfacente”(49) …  A una lettura più approfondita, però, si ribadisce la domanda … la “borghesuccia adultera e meschina” può ritenersi colpevole? … I neopsichiatri sono più propensi a classificarne il dramma riconducendolo a un disturbo dell'umore bipolare(50), un fastidio caratterizzato da gravi alterazioni dell’umore e, quindi, delle emozioni, dei pensieri e dei comportamenti con il conseguente sentirsi al settimo cielo in un periodo e alla disperazione in un altro senza alcuna ragione apparente, passando dal paradiso della fase maniacale o ipomaniacale all’inferno della fase depressiva ... E altre domande … E’ possibile che nella sua parabola romanzesca se ne siano iperbolizzate le infrazioni “come un eloquente monito circa la sorte dei tentativi di evasione dalla realtà”(51)? O, più semplicemente, la fremente giovane, nell’assecondare i suoi sogni con “le punte ardenti delle pupille”, doveva solo essere amata dall'amore, non certo dagli uomini che ne hanno attraversato l’esistenza? È, in tal senso, piuttosto da compatire perché, nell’impellenza di soddisfare la sua “fame di tenerezza”(52), seppur responsabile di aver tradito la fiducia di Charles, ha incontrato personalità senza spina dorsale? ... E altre domande … Gli errori da lei commessi potranno servire per elaborare ideali e valori più consoni alle esigenze della contemporaneità?

 

Interrogativi di intere generazioni di donne, dunque, si intrecciano in questa trenodia della lussuria, impronta in negativo delle storie d'amore extraconiugale degenerate fino alla distruzione totale, eppure la “tortorella che vuole riprendersi il volo” è ancora viva, anzi, sembra essere sempre esistita “indipendente dall’azione dell’autore, anche se priva di divulgazione e riconoscimento, di quell’ufficialità, cioè, che la scrittura può conferire”(53). Emma Bovary ha, insomma, un valore universale e, mito inossidabile, suscita una miriade di echi esplosivi dando voce all’eterno disagio psichico nel difficile equilibrio tra natura e cultura, contribuendo al risveglio delle coscienze femminili, senza, ovviamente, mettere seriamente in pericolo le norme che regolano il funzionamento del vivere civile.  Il messaggio conclusivo di GUSTAVE FLAUBERT, così, si trasforma in un evviva alla crescita umana e spirituale tanto da ribadire che “se una raffica di vento fa piegare i pioppi e la pioggia crepitante cade sulle foglie verdi, presto il sole riapparirà, i passeri batteranno le ali nei cespugli bagnati e i rivoletti d'acqua piovana trascineranno con sé i fiori rosei dell'acacia”.

 

      Matilde Perriera

 

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