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Riflessioni sul Senso della Vita

Prefazione di Cinzia Baldazzi.
Le domande di Ivo Nardi, le risposte della cultura e del pensiero

Dal libro RIFLESSIONI SUL SENSO DELLA VITA di Ivo Nardi


Ogni teoria critica, culturale e concreta, trova origine nel superamento dialettico della convenzionale opposizione tra materialismo e idealismo. Essendone sempre stata convinta, in una simile atmosfera di idee sono perfettamente d’accordo con la posizione di Ivo Nardi, fondamento della sua interessante raccolta di interviste Riflessioni sul senso della vita basata su un nodo logico imprescindibile: virtuale e reale, per inserirsi - e noi con loro - nello sviluppo quotidiano del pensiero capace di animarlo e contestarlo, è indispensabile si incontrino e confrontino, in misura il più possibile ampia, esenti da pregiudizi o da a-priori remoti dal complesso considerato.
Almeno dal Novecento, è apparso chiaro quanto qualsiasi società possieda una propria specifica struttura libidica, vale a dire una particolare combinazione di bisogni umani fondamentali e impulsi sociali, in grado di dare spazio a una vasta gamma di intenzioni, desideri, aspirazioni, a metà strada, appunto, tra il realizzato e il divenire.
Del resto, nella situazione attuale di informazione e comunicazione mass-mediale, la “dottrina delle giuste soluzioni”, da molti filosofi del passato indicata come cultura ingenua - identificata con la sapienza e ragionevolezza degli anziani, l’oracolo dei poeti, la cultualità dei sacerdoti - necessita di essere ridimensionata: essa infatti convergeva nell’attribuire supremazia ai valori ereditati dalla tradizione, mentre oggi essi vanno arricchiti (essendo prima stata allontanata dal giudizio la sua veste arcaica religiosa di stampo dogmatico) mediante una riflessione critico-soggettiva, collettiva, allargata. L’etica, in altri termini, non dovrebbe persistere nel cercare di ottenere una saggezza immediata, ma rinascere in qualità di criterio e attenzione psicologici, esistenziali, politici, economici, etc.: avviata naturalmente in un profilo di partenza di esperienza interiore, nel proprio Io conscio.
La verità in merito ai quesiti sul modo di essere o di voler essere di ciascuno deve insomma spezzare l’isolamento individuale e inoltrarsi nello scambio di opinioni mediale. Pertanto Nardi chiede ai suoi interlocutori, diversi per età, disciplina, professione: «Qual è il senso della vita?». Operazione condotta avendo alle spalle, e tuttora disponibile, il consistente materiale accumulato nei lunghi anni di gestione e direzione del portale www.riflessioni.it (creato con lo slogan «Dove il Web Riflette!»). Ancora adesso, in fondo alle pagine del sito, campeggia il sottotitolo riassuntivo della mission: «Per Comprendere quell’Universo che avvolge ogni Essere che contiene un Universo». In altre parole, l’inconscio collettivo diviene fattore di paragone indispensabile della dimensione privata, dell’ambito personale: per intendere, per intendersi.
Lo studioso Maciej Bielawski suggerisce: «Il senso della vita è stare dentro tale domanda». E in effetti la risposta, per risultare adeguata - interessando, a rigore, la sfera intera dell’idea cosciente - implicherebbe innanzitutto la delimitazione del punto di passaggio tra la fissazione inconscia (analizzata da Charles Mauron), legata a traumi originari (nel nostro caso, di condizionamento del pensiero, di pregiudizi ancestrali), e la tensione (sempre inconscia) a svincolarsi da essa: soluzione davvero improbabile da trovarsi in campo psicanalitico, e soggetta a diversi ed equivalenti esiti.
In una prospettiva analoga, Carlo Sini richiama Chauncey Wright, filosofo statunitense dell’800, quando ammoniva «La vita basta a sé stessa»: a me ricorda di nuovo Mauron, nelle righe dedicate alla descrizione della fonte interiore coniugata con il concreto nella poetica del romantico francese Gérard de Nerval: «La immagino simile a una nebulosa, a una molecola organica assai complessa». Prosegue Sini: «Non c’è bisogno di aggiungere sensi posticci alla vita: è più che sufficiente ciò che accade ogni giorno».
Ed ora la questione centrale nella libido di ognuno, in cima all’indice di Ivo Nardi: in cosa consiste la felicita? Ha ragione Theodor Adorno alla metà degli anni ’40: la metodologia strumentale per rivelare l’identità dell’essere felici non è diversa dall’itinerario ipoteticamente opportuno a scoprire “cosa siamo” (per lui, la “verità”): «Non la si ha, ma ci si è. Ecco perché nessuno che sia felice può sapere di esserlo. Fedele alla felicità è solo chi dice di essere stato felice. Il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine: ed è ciò che costituisce la sua dignità incomparabile».
In sintonia con il lascito adorniano, rivissuto e arricchito da oltre mezzo secolo di ricambio storico, si presenta l’osservazione di Dacia Maraini: «La felicità non la si riconosce mai quando la si sta vivendo, ma sempre dopo. È una consapevolezza postuma. Salta fuori come rimpianto, e fa dubitare della sua reale esistenza». Il poeta Valerio Magrelli rievoca Manzoni, il quale vedeva la felicità indissolubile dall’impatto della sua scomparsa. «Nella felicità», afferma Magrelli, «si compie il nostro proprio anelito all’esaudimento». E propone l’esempio dell’estate, «il periodo più dolce dell’anno, che paradossalmente nasce morendo, diminuendo, perdendo luce. L’estate nasce dissanguandosi poiché, proprio dal momento in cui inizia, la durata della luce comincia a diminuire. L’estate è la propria fine. È la coincidenza di perdita e ottenimento».
Riflessioni sul senso della vita scaturisce da un lungo e paziente lavoro di scavo compiuto da Ivo Nardi tra il 2009 e il 2014, esponendo dieci problematiche esistenziali a oltre cento personaggi della cultura, di cui alcuni noti al pubblico: da Umberto Galimberti a Corrado Augias, dal cardinale Ersilio Tonini a Massimo Cacciari, da Giorgio Faletti a Margherita Hack fino a Gabriele La Porta e Giorgio Odifreddi.  Le risposte selezionate nel libro provengono comunque in massima parte da personalità poco conosciute, tuttavia meritevoli di approfondimento: docenti di storia delle religioni, maestri di meditazione, traduttori, esoteristi, scrittori, guide spirituali, cineasti, psicologi.
Luis Sepúlveda, coinvolto sulla naturalità o necessità di coltivare un progetto esistenziale, stabilisce: «Il mio è avere una vita da uomo giusto, decente, solidale, e questo è già un progetto assai grande». Personalmente, non sarei in grado di andare avanti in assenza di un progetto, poiché nei progetti ritengo vivano la loro attività ludica di maggior importanza le mie fantasie da adulta. Ricorro ancora a Mauron: «Nell’immaginazione l’anima che sta costruendosi fa e rifà la propria storia, mescolando ricordo e progetto, interiore ed esteriore. D’altronde l’anima comincia prestissimo, non soltanto a costruire, ma a riparare sé stessa, poiché i contatti alterano e guastano gli oggetti interni, le separazioni vi scavano vuoti, l’odio saccheggia, la paura pietrifica parti più o meno estese dell’universo interiore e quindi della personalità».
Nell’infanzia, dunque, l’immaginazione esercita quella funzione restauratrice in noi stessi per acquistare il “diritto al divenire” di quelle fantasie senza difese per affermarsi che non siano la loro potenza. In seguito, quando le possibilità realistiche di affermazione crescono, le fantasie, i desideri, non debbono però smarrire l’aspetto ludico, costruttivo, posseduto nell’età evolutiva, diventando un gioco nel tempo. Erri De Luca soggiunge: «Non credo nei progetti, nei programmi, sono giochi da adulti. Preferisco quelli con la sabbia, che un’onda più robusta cancellava, fatti d’estate a riva». Da noi bambini.
La proposizione degli interrogativi stimola gli intervistati a misurarsi con temi apparentemente generali, al contrario abbastanza articolati: cos’è l’amore, il perché della sofferenza, gli obiettivi dell’esistenza, i rischi dell’individualismo, il terrore dell’ignoto e l’aiuto di religioni e filosofie. Dentro e fuori il libro, Ivo Nardi sembra avere le idee già chiare («Credo che non porsi domande sul senso della vita significhi rinunciare alla possibilità di comprendere pienamente la nostra esistenza»), al punto - presumo - di doverlo avvicinare a quanto ha confessato l’ontologo Leonardo Caffo: «Per i filosofi le domande sono sempre meglio delle risposte», in linea con il lavoro quotidiano di certa psicanalisi.
Non in chiusura, bensì a metà del sommario, l’autore ha piazzato la carta migliore. Nardi incita a superare i confini precostituiti (e, se possibile, io accetto la sfida) con l’istanza assoluta, indiscutibile e imprescindibile. All’enigma «Cos’è, per lei, la morte?», l’attore e drammaturgo Moni Ovadia ribatte: «La morte è la destinazione della vita. Muore solo chi ha vissuto». E ricorda il memento mori dei frati: bussando alle porte e rammentando l’ineluttabilità del morire, invitavano a una vita sensata.
Ma l’estrema conclusione, nella sua assolutezza, non può riguardare solo una parte del creato, ovvero gli uomini. Si determina infatti ovunque nel contesto dell’esistente. Da scienziato, Roberto Vacca la designa «fenomeno noto di ogni entità biologica. Per gli esseri umani, la morte del corpo è inevitabile e prevista».
Sigmund Freud, nel saggio Al di là del principio del piacere, scrive: «Se noi accettiamo come verità, non passibile d’eccezioni, che ogni cosa che vive muore per cause interne - tornando allo stato inorganico - allora dovremmo anche dire che “la mèta di ogni vita è la morte, e, guardando ancora più indietro, che “le cose inanimate preesistevano a quelle vive”».
Chi potrebbe negarlo? Infine, secondo il mio grande Ludwig Wittgenstein, sapientemente citato da Alberto Viotto, «La morte non è un evento della vita. La morte non si vive».

Cinzia Baldazzi

Giornalista, saggista e critico letterario


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