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Riflessioni sulla Tecnosophia di Walter J. Mendizza

Riflessioni sulla Tecnosophia

di Walter J. Mendizza - indice articoli

 

Il sentimento antimoderno

Aprile 2014


In Italia serpeggia in maniera preoccupante un sentimento antimoderno e anti industriale secondo il quale qualsiasi intervento sul territorio, costruzione di grattacielo o strada, rigassificatore o infrastruttura digitale, nasconde esclusivamente interessi che con la comunità non hanno nulla a che vedere, come se il benessere fosse uno stato di natura. In questa rubrica abbiamo tante volte cercato di mostrare come la cultura dominante sia rimasta grottescamente inadeguata rispetto alle sfide della modernità. In un momento storico così importante dove la vera scelta che ha l’umanità è se sposare o no il postumanismo, cioè sulla trasformazione autodiretta dell’uomo, noi invece ci troviamo ancora a dibattere sulla TAV, sul nucleare, ecc. E come se non bastasse lo facciamo compiaciuti di remare contro queste opere, dato che qualsiasi iniziativa viene letta attraverso la lente del sospetto e della diffidenza.

 

Il nostro recente passato fatto di scarsa rettitudine morale, di corruzione e sperperi è diventato l’alibi perfetto delle caste burocratiche per opporre in modo palese o subdolo dei «no» a qualsiasi scelta, accrescendo a dismisura il loro potere di veto a scapito di coloro che dall’attività economica ne possono trarre beneficio. Si punta a bloccare l’agire economico alimentando sentimenti che con le opere in sé non hanno nulla a che vedere. Non c’è da sorprendersi se nei prossimi mesi dovesse nascere un movimento NO Expo, riferito all’Expo 2015 di Milano. Anzi, caso mai stupisce che tale movimento non sia ancora emerso; ma è solo questione di pochi mesi.

 

La nostra cultura dominante è rimasta al palo perché i nostri politici non hanno coraggio di fare alcunché per non attirarsi gli strali degli ambientalisti e rischiare di perdere voti. In questo contesto, vengono fuori leggi assurde di matrice fortemente ideologica nonché suggerimenti di acquisti a “filiera corta”. Negli ultimi anni ha cominciato a diffondersi l’uso di contare i chilometri percorsi dal cibo come indice per misurare l’impatto ambientale, considerando che più un alimento ha viaggiato, più energia ha consumato quindi più combustibili fossili ha bruciato e più gas serra ha emesso. Conclusione: più alto è l’impatto ambientale meno il cibo è ecologicamente sostenibile. Si tratta di un’idea buonista che attecchisce subito ma che però non è suffragata dalla realtà, a cominciare dal fatto che quasi la metà del chilometraggio percorso è coperto dal compratore. Un singolo trasporto su camion di mille casse di arance implica che poi vi saranno centinaia di automobilisti consumatori che si sposteranno per andare a comprare la propria cassa d’arance. Da questo punto di vista è molto meglio acquistare i prodotti in un supermercato centralizzato che non fare tanti viaggi in negozietti più piccoli, con buona pace degli ambientalisti che preconizzano un ritorno ai piccoli alimentari di una volta. La grande distribuzione è molto più efficiente dato che le merci viaggiano su pochi autoveicoli pesanti piuttosto che su un grande numero di veicoli più piccoli e meno efficienti.

 

Dicevamo prima di normative assurde e dal sapore ideologico: ad esempio, se qualcuno a Grosseto volesse produrre energia elettrica a biogas, esiste l’obbligo di usare combustibili di origine agricola (mais prevalentemente)  a “filiera corta”, cioè che provengano da non più di 70 km di distanza. Una sciocchezza sesquipedale a metà fra l’ambientalismo fiabesco ed il vecchio protezionismo. Viviamo in un mondo globalizzato dove i cibi per bestiame che mangiano gli animali di Grosseto, checché ne dica la Coldiretti, sono fatti con soia OGM che viene dall’America. D’altra parte con questo pseudo ambientalismo immaginario non siamo neppure capaci di fare le cose indispensabili come i termovalorizzatori: così gli scarti alimentari di Roma e di Napoli vengono smaltiti in Veneto, con camion (quindi su ruota e non su rotaie) che viaggiano 800 Km di andata e 800 di ritorno per trasportare bucce di patate e lische di pesce. Per non parlare dei rifiuti della Calabria che vanno a farsi smaltire in Germania.
Il sentimento anti moderno e anti industriale tocca il suo massimo quando andiamo a vedere quel poco di petrolio e di gas che abbiamo a casa nostra, in Basilicata e lungo le coste dell’Adriatico. In qualsiasi altro paese, se venisse scoperto il petrolio ci sarebbe una festa nazionale. Non qui da noi. Noi no. Noi siamo un po’ NO-GLOBAL, un po’ NO-TAV, tanto NO NUKES e, evidentemente, anche NO-OIL. Il petrolio è meglio importarlo da qualche altro Paese a qualche migliaio di Km di distanza. Viene da chiedersi come mai i nostri ambientalisti che tanto si danno da fare con la storia della filiera corta, insistono affinché i combustibili per gli impianti a biogas siano a Km zero mentre quelli per le auto non gliene importa niente a nessuno e possono essere anche a Km 10.000. La verità è  che i problemi italiani sono tutti a filiera corta, anzi cortissima, ma nel senso che ce li pensiamo da soli e ce li fabbrichiamo in casa. Sono tutti problemi originati da noi, dai nostri cervelli disavvezzi a ragionare “normalmente”.
Quando il «no» è così totale, così assoluto, diventa rifiuto, e con il rifiuto ci si trincera dietro le barricate incancreniti e cementificati nelle proprie convinzioni. Il “no” consente inoltre di superare la logica del controllo dei soldi pubblici per verificare se questi vengono utilizzati per il bene della comunità. Il “no” non permette alcuna mediazione ma dà solo un taglio netto finalizzato a eliminare gli aspetti dannosi che in qualsiasi iniziativa possono sempre emergere. Il “no” permette di non fare niente e se non si fa niente non si può sbagliare. Con questa logica assurda il nostro Belpaese sta pagando la deleteria combinazione di caste burocratiche che usano il loro potere di veto per ottenere facili consensi politici. I numeri parlano da sé: gli investimenti diretti esteri in Italia erano nel 2012 lo 0,6% del Prodotto interno lordo contro il 2,8% del Regno Unito e l’1,4% della Francia.
Non ci resta che approfittare di questa rubrica per denunciare ora, in tempi non sospetti e con largo anticipo, quei falsi profeti pseudo ambientalisti cantori dell’immobilismo che si mascherano da sentinelle dell’interesse dei cittadini e che con ogni probabilità si metteranno di traverso contro l’Expo. Anzi, ci auguriamo che sia l’Expo stessa a diventare l’occasione per abbandonare una volta per tutte l’atteggiamento di Paese addormentato perennemente in mezzo al guado tra l’essere compiaciuto di stare tra i grandi del mondo e il sognare la decrescita attraverso un ritorno al creato fatto di buoni selvaggi pacifici, dolci pecorelle brucanti e arcadici pastori in armonia con gli elementi di una natura immancabilmente materna e benigna.  È una vergogna che nessun rappresentante della nostra classe politica possegga quel briciolo di autonomia intellettuale sufficiente a svincolarsi dal conformismo del ritorno a un consolante passato a chilometro zero che non è mai esistito se non negli encefali arrugginiti di questi ambientalisti della domenica, ignari della manipolazione di cui sono vittime.

 

   Walter J. Mendizza

 

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