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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 01-06-2012, 12.26.40   #111
Giorgiosan
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?

Se una filosofia, una ideologia, una dottrina perviene come esito esplicito o implicito all’insignificanza etica
dubito molto di quell’impianto filosofico.
Un identico destino di Gioia di tutti gli esseri umani ed una eternità preconfezionata di tutti gli enti e persino di qualsiasi passato rende banale l’etica o la morale.
L’ eclisse della categoria giustizia, se non si vogliono considerare quelle di bene e male, è, per fare ricadere su Severino la sua diagnosi filosofica, nichilismo etico. Elencare le conseguenze teoretiche di questo nichilismo severiniano sulle categorie morali è fin troppo facile, lo subiscono: bioetica, ecologia, rispetto della vita, dignità della persona.
E Severino giunge a questo esito sostituendo il divenire, l’esistenza umana semplicemente assimilando il mondo e l’universo ad un Tutto Immobile congelato atarassico Eterno senza molteplicità dal quale magicamente si emana il divenire, come lucine di un fuoco fatuo che non arriva al cielo assoluto di Severino.
Altroché rimedio all’angoscia, è una anestesia totale anzi è una overdose di anestetico.

In questo modo elimininando gli esseri umani elimina tutti i mali, ogni sofferenza ... bel rimedio!

Ultima modifica di Giorgiosan : 01-06-2012 alle ore 17.11.28.
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Vecchio 01-06-2012, 14.16.18   #112
Giorgiosan
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?

E’ un brano di Tautótes , esattamente l’intero § 4, del primo capitolo, pag.16.
(Tautótes, in greco significa identità e compare nella Metafisica di Aristotele)

Per il pensiero occidentale, il diveniente è il permanente. Quando il cielo diventa nuvoloso, il cielo è il permanente sotteso al sereno e alle nubi.
Ma proprio perché il diveniente è il permanente, il permanente è il diveniente, ossia il suo divenire altro da sé, anche se in un modo tale da permanere nell’altro da sé. Il cielo luminoso è pur sempre altro dal cielo sereno anche se questo altro da sé ha qualcosa di identico ( l’essere cielo) a ciò da cui è altro.
Diventando nuvoloso, il cielo sereno diventa cielo nuvoloso – ossia diventa altro da sé – e, diventandolo è cielo nuvoloso.
Nel risultato del divenire, la legna è (ormai) cenere, e il cielo sereno è (ormai) cielo nuvoloso. Il permanente appartiene al risultato del divenire.

Chi vuole esercitarsi in una “analisi logica” e contenutistica di questo brano si renderà conto da quali premesse si sviluppa il pensiero di questo abile e simpatico affabulatore.

Ultima modifica di Giorgiosan : 01-06-2012 alle ore 15.02.45.
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Vecchio 02-06-2012, 15.17.31   #113
il Seve
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?

Citazione:
Originalmente inviato da Giorgiosan
E’ un brano di Tautótes , esattamente l’intero § 4, del primo capitolo, pag.16.
(Tautótes, in greco significa identità e compare nella Metafisica di Aristotele)

Per il pensiero occidentale, il diveniente è il permanente. Quando il cielo diventa nuvoloso, il cielo è il permanente sotteso al sereno e alle nubi.
Ma proprio perché il diveniente è il permanente, il permanente è il diveniente, ossia il suo divenire altro da sé, anche se in un modo tale da permanere nell’altro da sé. Il cielo luminoso è pur sempre altro dal cielo sereno anche se questo altro da sé ha qualcosa di identico ( l’essere cielo) a ciò da cui è altro.
Diventando nuvoloso, il cielo sereno diventa cielo nuvoloso – ossia diventa altro da sé – e, diventandolo è cielo nuvoloso.
Nel risultato del divenire, la legna è (ormai) cenere, e il cielo sereno è (ormai) cielo nuvoloso. Il permanente appartiene al risultato del divenire.

Chi vuole esercitarsi in una “analisi logica” e contenutistica di questo brano si renderà conto da quali premesse si sviluppa il pensiero di questo abile e simpatico affabulatore.


Anche se non si è d’accordo con quello che professa Severino, se si sono letti i suoi libri (non serve che te li legga tutti, mi basta anche solo “La struttura originaria” che sta alla base della sua ontologia e della sua epistemologia), non si può non rilevare la sua caratura di studioso che è all’origine di fama e riconoscimenti tra i più alti che possa concedere la Repubblica, ancorché di sicuro fama e riconoscimenti appartengano alla vanitas. Una caratura che certamente non traspare dal tuo discorso, se è vero che la filosofia di Severino, per quanto possa essere fuorviante, si lascia così banalmente confutare dalle ovvietà che tutti conoscono. Già questo basterebbe a creare un clima di sospetto attorno ad ogni critica che pretenda di liquidare questa filosofia richiamando le nozioni che tutti sanno (o credono) di avere a facile portata di mano. Non solo, ma un altro errore è quello di contestare Severino, mostrando appunto che non sa nemmeno (ciò che si presume sia) l’ovvio, ma senza prendere in esame le sue ragioni. Ora, le affermazioni di Severino come ad esempio l’eternità di tutte le cose e di tutti gli istanti, sono abbastanza forti e richiedono quindi prove forti. Può quell’ovvio che già Severino dovrebbe sapere, annientare queste prove? E se sì, è possibile che Severino abbia infinocchiato tante persone autorevoli e competenti con una semplice ancorché abile affabulazione che mostri, come nella più classica delle caricature della filosofia, qualcosa di simile al fatto che anche gli asini volano? Qui non si tratta solo di infinocchiamento riguardo alla validità delle sue ragioni, perché nel momento in cui certe ragioni arrivano al punto estremo di contestare l’ovvio, allora è coinvolta anche la reputazione del filosofo. Reputazione invece che, per quanto non si possa essere d’accordo sul merito delle ragioni di una certa filosofia, nel caso di Severino è specchiata, al pari di quella di tanti autorevoli suoi colleghi che professano ragioni diametralmente opposte. Ma, a proposito del merito, entriamo subito in medias res.

Torno a ripetere: dov’è l’albero quando c’è ancora il seme? E dov’è quando viene tagliato per ricavarne legna? Non sto chiedendo dov’è quella parte dell’albero che viene interpretata come la sua materia, o il suo sostrato, o ciò che di esso permane nel mutamento, ma dov’è l’albero in quanto tale. Naturalmente, risponde l’Occidente, l’albero in quanto tale non c’è più in nessun luogo, nessuna dimensione parallela, nessun passato o futuro che non sia la semplice immaginazione umana e che come realtà non esiste. (E’ interessantissimo rilevare che quando l’albero è ancora o è ormai solo oggetto dell’immaginazione, è necessariamente un oggetto ipotetico, in quanto manca della realtà che dovrebbe provarlo. Anche per questo è necessario che tutto sia eterno.)

In Tautotes Severino affronta il senso dell’identità che è proprio dell’Occidente e che trova nella filosofia greca la sua definizione e nella teoria hegeliana del divenire uno dei suoi massimi approfondimenti. Non a caso, a dare il titolo al libro, è la parola greca sta appunto per “identità”. E’ noto come per Aristotele il divenire sia spiegato mediante la coppia potenza-atto, e quindi come la preesistenza del contenuto dell’atto nella potenza, e il continuare ad esistere del contenuto della potenza nell’atto. Hegel, dicendo qualcosa in più, afferma che il cominciamento del divenire (che non è solo ciò che è in potenza, ma tutto il contenuto di ciò che è già in atto) si conserva nel risultato del divenire. Ma affinché si mantenga la diversità tra cominciamento e risultato, è necessario che il cominciamento si conservi nel risultato secondo una modalità diversa e non in quanto tale. Infatti Hegel dice che si conserva solo idealmente, cioè ancora esiste, è ancora reale, ma astrattamente, parzialmente. In quanto tale, invece, è nulla. Ed è necessario che sia nulla, perché se non lasciasse spazio al risultato, questi verrebbe a coincidere col cominciamento e non potrebbe accadere come risultato (e quindi non potrebbe accadere nessun divenire). Nell’esempio di Severino, per l’ontologia occidentale non è semplicemente il cielo ad essere ancora nulla, ma il cielo nuvoloso. E non è semplicemente il cielo a diventare poi nulla, ma il cielo sereno. Quando il cielo sereno diventa (per l’Occidente) cielo nuvoloso, è necessario (questa volta non solo per l’Occidente) che per divenirlo non sia più cielo sereno. Cioè è necessario che non sia più, che sia nulla. Mentre ad essere ancora (secondo l’Occidente) non è solo il cielo comune, ma anche il cielo sereno considerato astrattamente come ciò da cui proviene il cielo nuvoloso se questi deve essere considerato il risultato di un divenire.

Citazione:
Un identico destino di Gioia di tutti gli esseri umani ed una eternità preconfezionata di tutti gli enti e persino di qualsiasi passato rende banale l’etica o la morale.
L’ eclisse della categoria giustizia, se non si vogliono considerare quelle di bene e male, è, per fare ricadere su Severino la sua diagnosi filosofica, nichilismo etico.

Ma se l’etica e la giustizia non vogliono essere realtà dogmatiche, come mi sembra che tu le stia considerando, devono essere intese sul fondamento della verità. E se (e poiché in Severino) la verità sancisce che sono proprio realtà dogmatiche, allora il loro contenuto non esiste, è nulla, e chi lo propugna è un sostenitore del nulla, un nichilista. (Ora, mi sembra veramente il colmo che sia proprio il Severino che dice che non è nulla nemmeno l’errore, ad essere chiamato nichilista.) In questo thread ho cercato di spiegare abbastanza le conseguenze di ciò sul piano (della credenza) della pratica, nella seconda parte del post 15, nel post 20, e nel post 25 in risposta a paul11.
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Vecchio 02-06-2012, 15.41.32   #114
il Seve
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Riferimento: Non Puo' Esistere Un Rimedio?

Citazione:
Originalmente inviato da Giorgiosan
La radice dello svolgimento del pensiero di Severino si coglie solo se si parte dalla sua interpretazione di Parmenide, e lo dovresti fare anche tu per potere assumere un atteggiamento intellettuale critico e non “ripetere” semplicemente quello che afferma Severino. Di dico questo non per spirito polemico ma perché la filosofia si fa così. Ovviamente potresti rimanere della stessa opinione, ci mancherebbe altro, ma sarebbe una opinione fondata e meno condizionata dall’affabulazione severiniana.

Non sono qui per difendere né me stesso né Severino, perchè gli argomenti di cui discutiamo sono altri. Se esprimo le mie ragioni in coincidenza con quelle di Severino è perché sono spinto dalla loro validità che cerco anch’io di mostrare, e non da altro o altri e la loro presunta affabulazione, quasi insinuando che io sia un ingenuo plagiato o un fanatico. Prova a chiedere ad un professore di teoria della relatività perché ripropone pedantemente gli argomenti di Einstein sul rallentamento del tempo all’aumentare della velocità.

Severino parte dall’interpretazione platonico-aristotelica di Parmenide che la storia ci consegna e da cui partiamo quasi tutti, al netto dei risultati sempre nuovi della filologia odierna (ma chiaramente nel caso del Nostro non si tratta di questioni filologiche). Sul piano teoretico contesta Parmenide, quindi il suo non è un neo-parmenidismo come talvolta si dice. E lo contesta, negando che il divenire in quanto tale non esista, e negando che l’essere sia finito.

Per Aristotele l’essere non ha un significato equivoco come dici, cioè non significa più cose che hanno semplicemente in comune lo stesso nome. Ma mi sembra di capire che è un refuso, e che intendessi dire più correttamente che per Aristotele ha molteplici accezioni. Però Aristotele non dice, come scrivi, che l’essere non ha un significato univoco, proprio perché, se le molteplici accezioni non hanno in comune semplicemente il nome “essere”, allora hanno in comune il significato “essere”, che dunque è una meta-accezione univoca. Infatti, nel celebre passo (Metafisica, IV, 2), dice: “ L’essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad una unità e ad una realtà determinati. ” (trad. it. Giovanni Reale). La realtà in questione è come si sa la sostanza o essenza (Metafisica, VII, 1). Da un punto di vista teologico si è posto maggiormente l’accento sulla molteplicità delle accezioni per sfruttarla in favore della distinzione tra l’essere di Dio e l’essere delle creature, ma è un’altra storia.

Per ciò che riguarda i vari usi della copula, sarebbe ingeneroso verso un Severino della levatura di cui sopra, credere che monti su tutta la complessa impalcatura del suo pensiero e poi si dimentichi di qualcosa che riguarda l’essenza stessa di questa impalcatura. Proprio in proposito, il filosofo ha avuto una polemica a distanza sul Sole 24 Ore con il logico Mugnai (ed altri interlocutori), che è stata presa, a mio avviso a torto, come l’ennesimo esempio dello scontro tra filosofi “analitici” e “continentali”. Rimando con piacere al resoconto completo della polemica presente in rete per chi la volesse approfondire, mentre per quel che mi riguarda penso che riportare alcune chiare ed insolitamente velenose parole di Severino presenti in quella polemica (velenose a causa di alcuni retroscena specifici che vanno oltre la rivalità tra analitici e continentali) possa già dissipare gran parte dei dubbi, ed eviti eventuali problemi di interpretazione da parte mia.

Citazione:
Sembra che per il prof. Mugnai mettere in questione qualcosa significhi ignorarla. Poiché nel mio libro Tautõtés (Adelphi, 1995) si mette in questione la distinzione tradizionale tra i vari significati della copula 'è', e si afferma che alla base di questa varietà di significati c'è sempre, nel linguaggio e nel pensiero, l'identità fra qualcosa e ciò che si dice del qualcosa, egli mi fa la lezioncina, ricordandomi che quando si dice che Mario è buono «non si intende certo affermare che Mario è identico alla bontà». Ne ha parecchio di lavoro da fare il buon Mugnai, perché alla filosofia che mette in questione il senso comune dovrà ora mettersi a spiegare che lo zucchero è dolce, l'acqua bagna, i cani abbaiano, il fuoco scotta, le femmine hanno un sesso differente da quello maschile e così via all'infinito. Buon lavoro.

1. Ovviamente, dire che Mario è buono non significa dire che Mario è la bontà. Ma se in Mario non esistesse in alcun modo un certo esser buono, si potrebbe affermare che Mario è buono? Se Mario si trovasse in questa condizione, allora, dicendo che Mario è buono, si direbbe, di un Mario non buono, che è buono. Questa contraddizione può essere evitata solo se è di Mario-che-è-buono che si dice che èbuono; cioè solo se il soggetto (Mario-che-è-buono) include il predicato (buono); cioè solo se una parte del significato del soggetto è identica al predicato. La copula 'è", allora, non può non esprimere questa identità tra una parte del soggetto e il predicato. Nell'asserto "Mario è Mario" (o "l'uomo è l'uomo" ), il predicato è invece identico alla totalità del significato del soggetto. In questo senso, è necessario che, in un dire non contraddittorio, la copula esprima in ogni caso un'identità - anche quando la logica parla di"inerenza", "appartenenza", "inclusione". Ma da quarant'anni (non solo in Tautõtés), vado mostrando che l'identità presente in queste forme è condizione necessaria ma non sufficiente della non contraddittorietà del dire e del pensare. Vedo però che il mio critico è fermo al suo manuale di logica e non è in grado di seguire questo ulteriore sviluppo del discorso, che lo costringerebbe a prendere in esame altri miei libri come La struttura originaria, Essenza del nichilismo e Destino della necessità.

In Tautõtés si afferma che se l"'è" di "A è B" «fosse un significato che esclude l'identità, "essere" significherebbe "differire", sì che pensando che A è B, si penserebbe che A differisce da B, ossia che A non è B». Mugnai commenta: «Ragionamento, questo, che ha senso unicamente se si presuppone che la copula significhi soltanto l'identità. Se infatti è possibile che la copula significhi ... anche altre relazioni... allora, nel caso che non significhi l'identità, significherà qualcun'altra tra le relazioni ammissibili (per esempio l'appartenenza)». Ma […] in tutte le relazioni ammissibili è presente un'identità. Dunque, negando che nell'asserto "Mario (A) è buono (B)" (che è una relazione di appartenenza) la copula includa nel proprio significato un'identità, si verrebbe a sostenere che l'esser buono conviene a un Mario che non è buono, e dunque si sosterrebbe (proprio mentre si dice che Mario è buono) che Mario non è buono, cioè che A non è B.

(“La Rivista dei libri” de Il Sole 24 Ore, n. 7, luglio 1997, pag.19 del resoconto in rete)

Concludo precisando che Severino qui ha trascurato che la forma corretta per dire che A è B, non è A=B perché appunto si identificherebbero cose diverse, ma A(=B) = B(=A), cioè quell’A-che-è-di-B è quel B-che-è-di-A. Oppure ((A=B) = (B=A)), cioè quell’A-che-è-B è quel B-che-è-A. Se si astrae e si isola (A=B), oppure (B=A), dal contesto globale dell’identità, ecco che si identificano cose diverse. Per questo qualsiasi relazione indicata dalla copula sottintende un’identità. Altrimenti mette in relazione qualcosa con qualcosaltro che non gli conviene (A con un B-che-non-è-di-A).

Citazione:
Ed ora faccio un salto:
la mia opinione è che essere sia una idea, la più universale idea, se si vuole una idea innata ma direi, secondo la mia testa, una idea implicita in tutte le idee e, forse, in questo senso innata.

Se “idea” significa qualcosa che è reale solo come prodotto delle mente umana, allora non mi spiego come l’essere, qualsiasi cosa significhi, possa appartenere alle cose. Ma poi, è mai possibile che quando si pensa qualcosa di logicamente necessario, si pensi che questo non pregiudichi in alcun modo l’ontologia? Che senso avrebbe allora fare affermazioni sulle cose se si sa già che qualsiasi cosa si affermi e con qualunque grado di attendibilità, non ha nulla a che fare con le cose stesse? Ad esempio, l’essere è, e non può non essere. Si è proprio sicuri che non dica ancora nulla sul campo di appartenenza delle cose? E si è proprio sicuri che qualsiasi cosa dica, quest’ultima rimanga pur sempre a sua volta un’affermazione logica che non ha a che fare con l’ontologia, e così via all’infinito? Vedi un po’ tu…

Saluti.
il Seve is offline  
Vecchio 03-06-2012, 11.53.59   #115
Giorgiosan
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Citazione:
Originalmente inviato da il Seve
Anche se non si è d’accordo con quello che professa Severino, se si sono letti i suoi libri (non serve che te li legga tutti, mi basta anche solo “La struttura originaria” che sta alla base della sua ontologia e della sua epistemologia), non si può non rilevare la sua caratura di studioso che è all’origine di fama e riconoscimenti tra i più alti che possa concedere la Repubblica, ancorché di sicuro fama e riconoscimenti appartengano alla vanitas.
Seve, voglio essere chiaro: non credo che tu abbia letto tutti i suoi libri e neppure molti. Ho già detto che neppure io li ho letti tutti. Ho letto a fondo, e con grande fatica Tautótes e Oltrepassare, ho consultato spesso i 3 volumi de La Filosofia dai greci al nostro tempo, ho letto A Cesare e a Dio, ho quasi finito Gloria … che non so se finirò di leggere, dubito fortemente che mai leggerò gli altri che giacciono intonsi... salvo quelli chi che ho comparto usati.

Se hai letto qualche opera di Severino per intero avrai notato, spero, come certi temi siano trattati e riproposti molte volte e nei diversi libri, rendendo ancora più noiosa la lettura. Dopo il primo entusiasmo che è testimoniato anche in questo forum da alcuni post di alcuni anni fa, l’infatuazione è finita, ma non perché è ripetitivo o eccessivamente verboso per i miei gusti, ma per l’esito del suo pensiero.
Non metto in dubbio che sia uno studioso, un filosofo apprezzato, che sia erudito, che abbia ricevuto premi e onorificenze (ti ricordo però che Dario Fo ha ricevuto il nobel per la letteratura il che è tutto dire sui “premi”).
Ti ricordo il giudizio critico che hai dato di filosofi ancor più titolati e celebri, Il giudizio critico e sprezzante di intere correnti filosofiche e per ultimo il giudizio sprezzante che hai dato di Giovanni Reale perché ha osato dire che Severino ha solo la coerenza.
Dunque?

Citazione:
Originalmente inviato da il Seve
Una caratura che certamente non traspare dal tuo discorso, se è vero che la filosofia di Severino, per quanto possa essere fuorviante, si lascia così banalmente confutare dalle ovvietà che tutti conoscono. Già questo basterebbe a creare un clima di sospetto attorno ad ogni critica che pretenda di liquidare questa filosofia richiamando le nozioni che tutti sanno (o credono) di avere a facile portata di mano. Non solo, ma un altro errore è quello di contestare Severino, mostrando appunto che non sa nemmeno (ciò che si presume sia) l’ovvio, ma senza prendere in esame le sue ragioni. Ora, le affermazioni di Severino come ad esempio l’eternità di tutte le cose e di tutti gli istanti, sono abbastanza forti e richiedono quindi prove forti. Può quell’ovvio che già Severino dovrebbe sapere, annientare queste prove? E se sì, è possibile che Severino abbia infinocchiato tante persone autorevoli e competenti con una semplice ancorché abile affabulazione che mostri, come nella più classica delle caricature della filosofia, qualcosa di simile al fatto che anche gli asini volano?

Ti ricordo che ovvio significa “che si impone immediatamente e naturalmente al pensiero: l'interpretazione più ovvia di un fatto” . la mia aspirazione è di essere sempre ovvio, come ho detto ancora nel forum.

Ho dato da subito un giudizio che non ti è parso ovvio, perché ti ha scandalizzato, e cioè che in filigrana il pensiero di Severino mostra di essere una teologia razionale in cui il Tutto o l’Essere sostituisce Dio, una narrazione di genere religioso, in quanto tratta del destino dell’essere umano oltre la morte, della Gioia che lo aspetta, della eternità in cui già vive anche se non è consapevole.
Anche questa valutazione a me sembra una ovvietà.

Infine ti ho invitato ad una discesa nel merito cominciando da Parmenide perché tu confutassi ciò che sostengo e non solo io, e cioè che egli faccia un salto improprio dalla logica all’ontologia, che abbia dell’essere, un concetto mitico o che comunque lo proponga convinto o no. Personalmente credo che si renda perfettamente conto di ciò ma per innamoramento della sua tesi lo sostenga egualmente. Del salto da logico a ontologico aspetto la tua opinione.

Un processo alle intenzione lascia il tempo che trova ed è legato alla mia personale intuizione e non dimostrabile, tuttavia hai svicolato facendo un processo all’intenzione come categoria interpretativa, processo inconsistente sia dal punto di vista culturale che di merito e lo hai fatto citando a casaccio.
Hai addirittura dovuto abbracciare per un momento la tesi della non esistenza della mente per difendere un filosofo che svolge, ironia della sorte, il suo pensiero sul piano metafisico, credendo così di confutare tutti i filosofi che se ne occupano. Una sorta di soluzione finale.
Hai rigettato l’ovvietà che Severino sia un metafisico... sembra che non tu sappia cosa è la metafisica.
Hai rigettato l' ovvietà del rapporto intellettuale di Severino con Heidegger dicendo che sei stanco di sentire quella che evidentemente reputi una accusa. Poi dal tuo sproposito iniziale sei addivenuto a più miti consigli, proteggendo la ritirata con cortine fumogene.

A proposito poi della caratura che non appare dal mio discorso, cioè del mio valore per essere chiaro perché caratura significa valore: il mio curriculum è molto normale, laurea in teologia e laurea, per equipollenza, in storia e filosofia. Il mio palmares è desolatamente vuoto eccetto per un piccolo riconoscimento con cui mi sono auto premiato: quello di cercare di essere intellettualmente onesto, di non fingere di sapere quello che non so, di non darla da bere cioè di non infinocchiare nessuno, ammesso che ne sia in grado.

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Originalmente inviato da il Seve

Qui non si tratta solo di infinocchiamento riguardo alla validità delle sue ragioni, perché nel momento in cui certe ragioni arrivano al punto estremo di contestare l’ovvio, allora è coinvolta anche la reputazione del filosofo. Reputazione invece che, per quanto non si possa essere d’accordo sul merito delle ragioni di una certa filosofia, nel caso di Severino è specchiata, al pari di quella di tanti autorevoli suoi colleghi che professano ragioni diametralmente opposte. Ma, a proposito del merito, entriamo subito in medias res.

Della serie: gli innamorati si rendono ridicoli.

Ho attentato alla reputazione di Severino avendo polemizzato sul sua filosofia … ma allora un forum di filosofia è un associazione a delinquere a danno della reputazione di tutti i filosofi nessuno escluso. Sarà meglio che mi faccia consigliare da un legale … non vorrei incorrere in querele. Gulp!

Alla seconda parte del post, per rispondere alla quale occorre un approccio più serioso e tempo, penso risponderò nel pomeriggio o al massimo domani.

Stammi bene Seve. E non prenderti troppo sul serio, né prendi troppo sul serio Severino. Lui sembra non farlo.

Ultima modifica di Giorgiosan : 03-06-2012 alle ore 22.09.11.
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Vecchio 04-06-2012, 12.24.30   #116
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Stabilire un qualcosa di eterno nell'essere dopo gli sviluppi della scienza contemporanea è un esercizio arduo, significa saltare a piè pari l'indeterminatezza delle entità microscopiche ed il fatto che per la scienza alcune entità sono rappresentate da formule e relazioni matematiche e statistiche piuttosto che da rappresentazioni che si prestino ad un'interpretazione sillogistica.
Se la realtà non può prescindere la statistica, diventa arduo provare principi assoluti come l'eternità degli enti.
Per me il rimedio non è la ricerca dell'eternità nell'essere ma quella di un punto (o di più punti) di riferimento nell'ambito della visione della nostra vita terrena. L'eternità può esserci o non esserci e noi non lo sapremo mai. Ciò che possiamo fare è applicare la scienza per dare un senso alla nostra esistenza, è il senso delle cose che ci rende immortali, basta vedere nella storia l'insieme di coloro che si sono immolati per un ideale. Il senso del loro gesto li ha resi, per lo meno ai loro occhi, immortali nel tempo stesso in cui sono saltati nel nulla.
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Vecchio 04-06-2012, 15.14.43   #117
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Originalmente inviato da il Seve

Torno a ripetere: dov’è l’albero quando c’è ancora il seme? E dov’è quando viene tagliato per ricavarne legna? Non sto chiedendo dov’è quella parte dell’albero che viene interpretata come la sua materia, o il suo sostrato, o ciò che di esso permane nel mutamento, ma dov’è l’albero in quanto tale.
Torna a leggere quello che ho già detto.

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Naturalmente, risponde l’Occidente, l’albero in quanto tale non c’è più in nessun luogo, nessuna dimensione parallela, nessun passato o futuro che non sia la semplice immaginazione umana e che come realtà non esiste. (E’ interessantissimo rilevare che quando l’albero è ancora o è ormai solo oggetto dell’immaginazione, è necessariamente un oggetto ipotetico, in quanto manca della realtà che dovrebbe provarlo. Anche per questo è necessario che tutto sia eterno.)


Non risponde l’Occidente ma Severino. L’Occidente non è solo quello che considera Severino e cioè nichilista, anche questo lo ho già detto.

Aggiungo altre considerazioni.

Il nichilismo di Nietzsche non è il nichilismo di Heidegger e il nichilismo di Heidegger non è quello di Severino. Quello di Jacobi e di Richter non sono quello di Hegel ed anche l’eterogeneo nichilismo russo contribuisce all’improbabilità anzi all’impossibilità di accomunare sotto un unico nome contenuti così diversi. Il nichilismo dal punto di vista storico e concettuale è molteplice e affatto diverso.

Nichilismo in senso generico viene posto in relazione al relativismo culturale, al dissolvimento di una morale universalmente accettata, alla perdita di valori unificanti, al pessimismo verso una società che si vede al declino, alle visioni catastrofistiche del pianeta Terra, ecc. ecc. .
(C’è una frase, pronunciata fra il serio ed il faceto, che riassume popolarmente ma efficacemente: non c’è più religione …. e forse il volgo, non appesantito dalla cultura coglie un elemento significativo e che suggerisce in qualche modo che c’entri la polemica contro la religione in tutti questi nichilismi …)

Severino in sintesi afferma che ogni metafisica che contempli il divenire è nichilistica perché scivola sull’errore di coloro che pensano che l’ente possa divenire niente. Quindi il nichilismo severiniano si può intendere partendo dai concetti basilari della metafisica e dal modo in cui li maneggia e dopo aver fatto questo, o anche prima di tutto, la natura della conoscenza metafisica. A questo obbliga il suo pensiero.

Lascia, infatti, increduli e scettici che gli effetti, le conseguenze di un tale minimo punto equivoco che si dibatte fra piano logico ed ontologico, siano di tale portata e coinvolgano il destino eterno e la gioia dell’ente-essere umano. Non c'è proporzionalita accettabile.

(qui cambio colore perché se usassi il corsivo non si potrebbero individuare gli importanti corsivi nel testo di S.)
XIII SOGGETTO, PREDICATO, DIVENIRE
I
Una volta che sia stato isolato dal predicato - e, così isolato, esso è inevitabilmente altro da sé e da ogni suo predicato -, il soggetto (A) può entrare in relazione col predicato (A, B) solo mediante un divenire, in cui il soggetto diventa altro da sé, diventa il predicato, e, diventatolo, èil predicato, è l'altro da sé: A è B, A è A.

Nel pensiero dell'Occidente l'essente è l'impossibile divenir altro ed esser altro da sé, non solo in quanto esso si trasforma, ma anche in quanto esso è se stesso (A è A) ed è determinato in un certo modo (A è B). L'esser determinato da altro (A è B) e lo stesso esser sé (A è A) sono un diventare altro. La legna è l'impossibile divenire ed esser altro da sé, non solo in quanto diventa cenere, ma anche in quanto è legna, e in quanto è di abete, è nel camino.
Una volta che sia stato isolato dal predicato, e dunque è altro dal predicato anche quando il predicato intende essere il soggetto stesso, il soggetto è unito al predicato da un divenire, che quindi, stante l'alterità di soggetto e predicato, è un divenir altro, identificazione dei non identici E, questa, la tematica sviluppata in La struttura organizzata.
Ma, a sua volta, il divenire si costituisce per se stesso, nel pensiero dei mortali, come un divenir altro, dove il risultato del divenire è una relazione in cui il terminus a qua del divenire è il soggetto, e il terminus ad quem è il predicato - sì che il predicato è altro dal soggetto appunto perché il divenire è per se stesso un divenir altro.
Se il soggetto e il predicato sono originariamente isolati, la loro relazione è il risultato di un divenire, che dunque è un divenir altro, ossia un venir ad essere altro da sé; se la relazione tra il soggetto e il predicato è il risultato di un divenire, che nel pensiero dei mortali si costituisce come divenir altro, il soggetto e il predicato sono originariamente isolati.
(Pag. 125-126, Taut.)

Ho detto che obbliga anche a prendere in esame la natura della conoscenza , cioè l’epistemologia per evidenziare il rapporto fra metafisica e verità.
La critica epistemologica alla metafisica è già stata fatta nel corso degli ultimi secoli e ripercorrerla occuperebbe troppo spazio, tempo e fatica ... una cosa si può dire che la metafisica non è un sapere puro in cui la stessa morfologia del discorso diventa pure essa verità. L'analisi logica non è assimilabile alla verità, come il principio di non contraddizione non lo è.

La metafisica per Severino è rivelativa, fa accedere a contenuti impensabili altrimenti, è rivelativa e non abbisogna di alcuna mediazione interpretativa.

Severino può vincere tutti i premi del mondo, ma A non diviene altro da sé fondamendantalmente, se cresce, si sviluppa o si implementa.
Ed affermare che il destino dell'ente-lapis come quello dell'ente-essere umano sono gli stessi, appiattire e far dileguare la molteplicità nel Tutto significa voler essere ciechi.

E sono convinto che nesssuno lo crede.


Post scriptum

Rileggendo i post.... ma ci sono molti altri elementi a cui risponderò:
Citazione:
Originalmente inviato da il Seve
Per Aristotele l’essere non ha un significato equivoco come dici, cioè non significa più cose che hanno semplicemente in comune lo stesso nome. Ma mi sembra di capire che è un refuso, e che intendessi dire più correttamente che per Aristotele ha molteplici accezioni. Però Aristotele non dice, come scrivi, che l’essere non ha un significato univoco, proprio perché, se le molteplici accezioni non hanno in comune semplicemente il nome “essere”, allora hanno in comune il significato “essere”, che dunque è una meta-accezione univoca. Infatti, nel celebre passo (Metafisica, IV, 2), dice: “ L’essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad una unità e ad una realtà determinati. ” (trad. it. Giovanni Reale).


Per Reale invece e non solo per lui, Aristotele dice:
" Ora Aristotele individua perfettamente la radice dell’errore degli Eleati e, in polemica con essi, formula il suo grande principio della originaria molteplicità dei significati dell’essere, che costituisce la base della sua ontologia. L’essere non ha significato univoco ma polivoco."

Questo lo dice quello stesso Giovanni Reale che ha tradotto la Metafisica.
Reale ha scritto anche un saggio: L’impossibilità di intendere univocamente l’essere e la tavola dei significati di esso secondo Aristotele

e ancora
"... i quattro significati dell'essere sono, in realtà, quattro "gruppi" di significati: infatti ciascuno di essi raggruppa, ulteriormente, significati simili ma non identici, vale a dire non univoci ... "

(Ti anticipoun argomento, così puoi prepararti: le fallacie etimologiche ovvero dell'abuso che fa Severino dell'uso della etimologia )

( Continua...)

Ultima modifica di Giorgiosan : 05-06-2012 alle ore 10.58.30.
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Vecchio 05-06-2012, 08.34.02   #118
Giorgiosan
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Per ciò che riguarda i vari usi della copula, sarebbe ingeneroso verso un Severino della levatura di cui sopra, credere che monti su tutta la complessa impalcatura del suo pensiero e poi si dimentichi di qualcosa che riguarda l’essenza stessa di questa impalcatura. Proprio in proposito, il filosofo ha avuto una polemica a distanza sul Sole 24 Ore con il logico Mugnai (ed altri interlocutori), che è stata presa, a mio avviso a torto, come l’ennesimo esempio dello scontro tra filosofi “analitici” e “continentali”. Rimando con piacere al resoconto completo della polemica presente in rete per chi la volesse approfondire, mentre per quel che mi riguarda penso che riportare alcune chiare ed insolitamente velenose parole di Severino presenti in quella polemica (velenose a causa di alcuni retroscena specifici che vanno oltre la rivalità tra analitici e continentali) possa già dissipare gran parte dei dubbi, ed eviti eventuali problemi di interpretazione da parte mia.
Ma, commenta Mugnai «soltanto un “filosofo”che pensa a Russel e Gödel come al farmacista e al parroco del villaggio nel quale mentalmente è sempre vissuto può presumere di risolvere il paradosso di Russell con quattro pensierucci sul “destino dell'Occidente”, pasticciando con parole come“estensione”, “classe”, “sintesi eterogenea”, ecc”

Non avevo letto questa disputa che nella sostanza del giudizio corrisponde esattamente al mio pensiero.
E’, per me impossibile, dare torto a Mugnai !

Quello riportato (qui sotto) che sembrerebbe una tua elaborazione personale è la precisazione di Severino in Tautótēs, cap.XVI, par. 8, p .151-152., uno dei tanti suoi continui aggiustamenti logici, o come direbbe Mugnai , pasticciando con la logica.
Dico sembrerebbe perché Severino dice: “non è sufficiente che essa sia pensata come ( A=B) = (B=A)
ma tu dici:

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Originalmente inviato da il Seve
Concludo precisando che Severino qui ha trascurato che la forma corretta per dire che A è B, non è A=B perché appunto si identificherebbero cose diverse, ma A(=B) = B(=A), cioè quell’A-che-è-di-B è quel B-che-è-di-A. Oppure ((A=B) = (B=A)), cioè quell’A-che-è-B è quel B-che-è-A. Se si astrae e si isola (A=B), oppure (B=A), dal contesto globale dell’identità, ecco che si identificano cose diverse. Per questo qualsiasi relazione indicata dalla copula sottintende un’identità. Altrimenti mette in relazione qualcosa con qualcosaltro che non gli conviene (A con un B-che-non-è-di-A).


(Sono le 8 e 30 devo andare, ma voglio farti una domanda: tu che ti occupi di carati: hai idea della caratura di Godel? )

Ultima modifica di Giorgiosan : 05-06-2012 alle ore 20.54.00.
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Vecchio 05-06-2012, 19.26.15   #119
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Stabilire un qualcosa di eterno nell'essere dopo gli sviluppi della scienza contemporanea è un esercizio arduo, significa saltare a piè pari l'indeterminatezza delle entità microscopiche ed il fatto che per la scienza alcune entità sono rappresentate da formule e relazioni matematiche e statistiche piuttosto che da rappresentazioni che si prestino ad un'interpretazione sillogistica.
Se la realtà non può prescindere la statistica, diventa arduo provare principi assoluti come l'eternità degli enti.
Per me il rimedio non è la ricerca dell'eternità nell'essere ma quella di un punto (o di più punti) di riferimento nell'ambito della visione della nostra vita terrena. L'eternità può esserci o non esserci e noi non lo sapremo mai. Ciò che possiamo fare è applicare la scienza per dare un senso alla nostra esistenza, è il senso delle cose che ci rende immortali, basta vedere nella storia l'insieme di coloro che si sono immolati per un ideale. Il senso del loro gesto li ha resi, per lo meno ai loro occhi, immortali nel tempo stesso in cui sono saltati nel nulla.


Comprendo le tue preoccupazioni. Sono quelle che ebbero già i sofisti e Socrate quando sembrava che la filosofia dei loro predecessori non si occupasse abbastanza di quell’essere umano che alla fine doveva pur essere la stessa base del filosofare. Ma se occuparsi dell’uomo significa sospendere il giudizio su tutto il resto (comunque si consideri questo resto), allora significa isolare arbitrariamente la dimensione umana. Generalmente accade che anche chi vuole occuparsi dell’uomo lo intenda come una parte della totalità delle cose, e quindi indagare l’uomo senza indagare il resto significa considerare l’uomo una totalità a sé con tutti i paradossi che derivano dal considerare una parte come il tutto. Non è un discorso astratto che non riguarda l’uomo, perché tagliando via la relazione che l’uomo intrattiene col resto, si taglia via anche quella parte dell’uomo che è in relazione al resto e dal resto lo differenzia. Cioè si costruisce volutamente una dimensione ignota e ci si apre all’imprevedibilità di accadimenti anche molto problematici perché provenienti appunto dall’ignoto.

Per quel che riguarda l’immortalità di quelle vite che si presume abbiano avuto senso bisogna innanzitutto ricordare che si parla di una immortalità ideale o metaforica, perché coloro che vissero quelle vite sono tutti polvere. In secondo luogo, penso sia bene porre in rilievo l’esiguità di fatto del numero di quelle vite per chiedersi allora che significato rimanga per la stragrande maggioranza delle altre.

L’indeterminazione in ambito scientifico riguarderebbe solo alcuni fenomeni, ed anzi determinate interpretazioni di alcuni fenomeni, che per quanto maggioritarie hanno contro già in campo scientifico l’opinione di scienziati come Planck, Einstein, Schrodinger, De Broglie, Ehrenfest, ecc. Ce n’è abbastanza per prendere con le pinze l’indeterminismo, anche se oggigiorno non farebbe costruire brillanti carriere. Se tutta la realtà si basa sull’indeterminazione delle sue componenti elementari, allora tutta la realtà è indeterminata e ogni comprensione è un equivoco. Compresa naturalmente quella che afferma l’indeterminazione. La realtà diventerebbe come una fotografia digitale che dà solo l’illusione di mostrare delle linee continue o delle superfici omogenee, perché in realtà è solo fatta a mosaico attraverso le adiacenze di pixel discontinui. Oppure diventerebbe come una umanità di cui si crede di osservare il progresso, quando a livello microscopico è solo un informe conflitto di piccoli e bassi egoismi e una volgare e mondiale guerra tra bande.

Il principio su cui si basa la statistica è il riduzionismo, ovvero la parte, quando possiede determinate caratteristiche, è equivalente al tutto. Oppure il tutto e la parte sono equivalenti se hanno le medesime caratteristiche essenziali. Ora, la confutabilità del riduzionismo si esprime in vari modi, ma tutti hanno alla base lo stesso significato che consiste nell’identificazione tacita tra la parte e il tutto. Ad esempio, per supporre che le stesse caratteristiche della parte sono possedute anche dal tutto o viceversa, bisognerebbe avere conoscenza del tutto. Ma allora la statistica non serve, perché questa interviene proprio in condizioni di ignoranza del tutto. E se il tutto, che è riferimento imprescindibile del senso di ogni statistica, è ignorato, è la parte stessa che tacitamente fa da tutto per poi attribuire le sue caratteristiche ad un tutto che è semplicemente una proiezione fin dall’inizio. Oppure, si consideri che per supporre che il tutto sia riducibile alla parte si deve presupporre che il tutto non è la parte. Ma allora rimarrà sempre uno scarto irriducibile tra il tutto e la parte, e la riduzione non potrà aver luogo se non come finzione, equivoco basato sulla semplice presenza di note comuni. Anche in questo caso, il riduzionismo avrebbe bisogno di identificare la parte e il tutto per poter funzionare. Oppure ancora, ci si chieda se qualcuno ha mai provato a sperimentare la bontà della statistica su base statistica. Ad esempio, si prenda una totalità di cui sono note tutte le caratteristiche e si “interroghino” alcune sue parti per provare se ciò che se ne ricava è un risultato attendibile rispetto al dato della totalità. Poi si ripeta lo stesso esperimento tante volte quante si vuole… Già, ma il problema è proprio qui: quanto si vuole? Cioè qual è la totalità nota i cui dati fanno da riferimento per provare la bontà di quelli ricavati dalle singole prove? Semplice, la totalità nota è quella che dovrebbe essere composta da tutte le possibili prove. Cioè non è affatto nota! My God, la statistica non riesce a provare la sua validità nemmeno su base statistica?! Si dice che le teorie scientifiche non sono verità assolute, cioè valide per tutti i casi possibili, ma posseggono un valore probabilistico, cioè valido perlomeno per la parzialità costituita dai casi sperimentati. Ma ogni parzialità ha senso in riferimento ad una totalità, e la scienza non possiede una nozione della totalità di tutti i casi possibili di una teoria.

Saluti.
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Vecchio 07-06-2012, 09.38.22   #120
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Comprendo le tue preoccupazioni. Sono quelle che ebbero già i sofisti e Socrate quando sembrava che la filosofia dei loro predecessori non si occupasse abbastanza di quell’essere umano che alla fine doveva pur essere la stessa base del filosofare. Ma se occuparsi dell’uomo significa sospendere il giudizio su tutto il resto (comunque si consideri questo resto), allora significa isolare arbitrariamente la dimensione umana. Generalmente accade che anche chi vuole occuparsi dell’uomo lo intenda come una parte della totalità delle cose, e quindi indagare l’uomo senza indagare il resto significa considerare l’uomo una totalità a sé con tutti i paradossi che derivano dal considerare una parte come il tutto. Non è un discorso astratto che non riguarda l’uomo, perché tagliando via la relazione che l’uomo intrattiene col resto, si taglia via anche quella parte dell’uomo che è in relazione al resto e dal resto lo differenzia. Cioè si costruisce volutamente una dimensione ignota e ci si apre all’imprevedibilità di accadimenti anche molto problematici perché provenienti appunto dall’ignoto.

Per quel che riguarda l’immortalità di quelle vite che si presume abbiano avuto senso bisogna innanzitutto ricordare che si parla di una immortalità ideale o metaforica, perché coloro che vissero quelle vite sono tutti polvere. In secondo luogo, penso sia bene porre in rilievo l’esiguità di fatto del numero di quelle vite per chiedersi allora che significato rimanga per la stragrande maggioranza delle altre.

L’indeterminazione in ambito scientifico riguarderebbe solo alcuni fenomeni, ed anzi determinate interpretazioni di alcuni fenomeni, che per quanto maggioritarie hanno contro già in campo scientifico l’opinione di scienziati come Planck, Einstein, Schrodinger, De Broglie, Ehrenfest, ecc. Ce n’è abbastanza per prendere con le pinze l’indeterminismo, anche se oggigiorno non farebbe costruire brillanti carriere. Se tutta la realtà si basa sull’indeterminazione delle sue componenti elementari, allora tutta la realtà è indeterminata e ogni comprensione è un equivoco. Compresa naturalmente quella che afferma l’indeterminazione. La realtà diventerebbe come una fotografia digitale che dà solo l’illusione di mostrare delle linee continue o delle superfici omogenee, perché in realtà è solo fatta a mosaico attraverso le adiacenze di pixel discontinui. Oppure diventerebbe come una umanità di cui si crede di osservare il progresso, quando a livello microscopico è solo un informe conflitto di piccoli e bassi egoismi e una volgare e mondiale guerra tra bande.

Il principio su cui si basa la statistica è il riduzionismo, ovvero la parte, quando possiede determinate caratteristiche, è equivalente al tutto. Oppure il tutto e la parte sono equivalenti se hanno le medesime caratteristiche essenziali. Ora, la confutabilità del riduzionismo si esprime in vari modi, ma tutti hanno alla base lo stesso significato che consiste nell’identificazione tacita tra la parte e il tutto. Ad esempio, per supporre che le stesse caratteristiche della parte sono possedute anche dal tutto o viceversa, bisognerebbe avere conoscenza del tutto. Ma allora la statistica non serve, perché questa interviene proprio in condizioni di ignoranza del tutto. E se il tutto, che è riferimento imprescindibile del senso di ogni statistica, è ignorato, è la parte stessa che tacitamente fa da tutto per poi attribuire le sue caratteristiche ad un tutto che è semplicemente una proiezione fin dall’inizio. Oppure, si consideri che per supporre che il tutto sia riducibile alla parte si deve presupporre che il tutto non è la parte. Ma allora rimarrà sempre uno scarto irriducibile tra il tutto e la parte, e la riduzione non potrà aver luogo se non come finzione, equivoco basato sulla semplice presenza di note comuni. Anche in questo caso, il riduzionismo avrebbe bisogno di identificare la parte e il tutto per poter funzionare. Oppure ancora, ci si chieda se qualcuno ha mai provato a sperimentare la bontà della statistica su base statistica. Ad esempio, si prenda una totalità di cui sono note tutte le caratteristiche e si “interroghino” alcune sue parti per provare se ciò che se ne ricava è un risultato attendibile rispetto al dato della totalità. Poi si ripeta lo stesso esperimento tante volte quante si vuole… Già, ma il problema è proprio qui: quanto si vuole? Cioè qual è la totalità nota i cui dati fanno da riferimento per provare la bontà di quelli ricavati dalle singole prove? Semplice, la totalità nota è quella che dovrebbe essere composta da tutte le possibili prove. Cioè non è affatto nota! My God, la statistica non riesce a provare la sua validità nemmeno su base statistica?! Si dice che le teorie scientifiche non sono verità assolute, cioè valide per tutti i casi possibili, ma posseggono un valore probabilistico, cioè valido perlomeno per la parzialità costituita dai casi sperimentati. Ma ogni parzialità ha senso in riferimento ad una totalità, e la scienza non possiede una nozione della totalità di tutti i casi possibili di una teoria.

Saluti.
Una conoscenza che vuole occuparsi dell'essere nella sua totalità deve pur farlo nei limiti che sono tracciati dall'essere umano in quanto tale.
La filosofia contemporanea come osserva Severino nega ogni verità definitiva e assoluta, la conoscenza è relativa all'uomo ed all'ambiente.
E' giusto che l'uomo indaghi sull'essere nella sua totalità, ma alla fine deve scegliere cosa mettere al centro del proprio conoscere. Mettere al centro della ricerca la vita anzichè l'essere restringe il campo della ricerca e permette di andare più a fondo. Per quanto la scienza indaghi il mondo fisico alla fine tutte le ricerche hanno uno scopo ingegneristico, applicato all'ambito della vita umana.
Per l'ambiente e per l'uomo può essere indifferente, ad un certo livello, che una data cosa si trasformi in qualcos'altro, il seme in albero, l'albero in frutto oppure in tronchi, i frutti in alimenti o i tronchi in tavoli o sedie o legna da ardere. Queste cose diventano però rilevanti quanto i loro effetti influiscono sugli equilibri ambientali e di conseguenza sulla vita dell'uomo.
Un albero può essere un polmone del pianeta oppure essere tagliato e diventare un tavolo o una sedia, con ciò non cambia il fatto che un albero sia sempre un albero. Per noi ha importanza sapere come sono fatte le cose, ma lo è ancor di più l'interpretazione che abbiamo di esse, quindi metteremo a partita doppia l'utilità dell'albero polmone dell'ambiente con l'utilità dell'albero materiale per utensili e tireremo le somme. Per noi è più importante sapere come un albero influirà sulla nostra vita piuttosto che sapere che un albero resterà sempre un albero.

Socrate prima di morire disse che l'anima è anteriore alla vita, quindi l'anima che esiste prima della vita non può essere soggetta a morte. Io credo che se si vuole parlare di eternità, bisogna farlo all'interno del concetto di anima. Per quanto possa cercare nell'essere al di fuori dell'uomo non potrò mai trovarvi cose come morale e virtù: le uniche cose che meriterebbero l'eternità.

Il riduzionismo è una limitazione come lo è l'essenzialismo. Una volta provata l'eternità degli essenti, che fine fa tutto il resto?

Ultima modifica di CVC : 07-06-2012 alle ore 21.29.06.
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