Riflessioni sull'Alchimia
di Elena Frasca Odorizzi indice articoli
Il trattato sul Picatrix e i suoi rapporti con la magia
di Roberto Taioli - Maggio 2009
Capitolo 1) Le origini del Picatrix e la struttura formale dell’opera
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Roberto Taioli, nato a Milano nel 1949 ha studiato filosofia con Enzo Paci.
Membro della SIE- Società Italiana di Estetica, è cultore di Estetica presso l'Università Cattolica di Milano.
Il suo campo di ricerca si situa all'interno dell'orizzonte fenomenologico.
Ha pubblicato saggi su Merleau-Ponty, Husserl, Kant, Paci e altri autori significativi del '900.
Negli ultimi tempi ha orientato la sua ricerca verso la fenomenologia del sacro e del religioso e dell'estetica. Risalgono a questo versante i saggi su Raimon Panikkar e Cristina Campo.
Il trattato sul Picatrix e i suoi rapporti con la magia
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Le origini del Picatrix e la struttura formale dell’opera
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La corrispondenza tra l’ordine cosmologico-planetario e il mondo geologico, vegetale ed animale
1) Le origini del Picatrix e la struttura formale dell’opera
La ricerca delle origini del Picatrix non risulta particolarmente agevole, anche se ormai si è giunti sulla questione a conclusioni largamente condivise dagli studiosi. Siamo quindi per fortuna lontani dall’auspicio di J. Wood Brown(1), che nel 1897 si augurava che il trattato non venisse tradotto in lingua moderna. Il Picatrix non solo è stato tradotto e divulgato, ma è diventato nel corso del tempo un caposaldo per chi volesse accostarsi allo studio della magia araba e alla sua diffusione nel mondo occidentale, fino al Rinascimento.
La storia delle edizioni del trattato, che qui brevemente rievocheremo, segnala la presenza di un percorso tormentato e accidentato, non solo per quanto concerne le date ma anche per l’attribuzione del titolo e dell’autore dell’opera.
Nel 1933 vide la luce per la prima volta, a cura di Hellmut Ritter (Studien der Bibliothek Warburg 12 Leipzig- Berlin), la versione critica dalla lingua araba del Ghayat al-hakim (Il fine del saggio), che evidentemente è il titolo assegnato all’opera. Con il 1962 abbiamo la traduzione tedesca dell’opera a cura di H. Ritter and M. Plessner (Studies of the Warburg Institute 27, London). Nel 1975 una studiosa italiana, alla quale va ascritta la primogenitura di aver cominciato l’iter delle traduzioni italiane, Vittoria Perrone Compagni, pubblicò alcuni capitoli del Picatrix Latinus (“Medioevo”, I, pp. 237-337) - peraltro va detto che la versione latina del Picatrix risulta notevolmente più breve dell’originale arabo -, mentre la trasposizione il lingua francese, ma solo di alcune parti, fu fatta da S. Matton (La magie arabe traditionelle, Paris 1977) e quella spagnola da M. Villegas (Madrid 1982). Nel 1986 David Pingree completò la edizione critica della versione latina del Ghayat al- hakim, conosciuta con il nome di Picatrix.
La storia dell’edizione italiana, sulla quale è radicato questolavoro, si deve invece agli stessi traduttori e curatori del trattato, ed ha inizio quasi per caso, senza un piano prestabilito. Bisogna risalire ai convegni tenuti a Brisighella, in Romagna, negli anni Ottanta, ove professori universitari e studiosi si ritrovavano sotto la guida di Paolo Aldo Rossi, direttore di quelle che vennero chiamate le Feste Medievali, una rassegna che aveva come sottofondo l’ideale ermetico, astrologico e alchemico, visitato con diversi approcci culturali. Nel 1989 fu scoperto che uno dei manoscritti del Picatrix era stato copiato il 21 maggio 1536 “a Brisighella nella casa con due ingressi e vicina al palazzo comunale”(2).
I curatori dell’iniziativa culturale decisero di tradurre l’opera (diversamente dall’antico monito del Brown nel 1897), preparando negli anni vari capitoli (nel 1993 fu pronto il Libro secondo). Nel corso delle animate discussioni che si svilupparono in quella sede si ricavò che l’autore del trattato fosse il famoso Abu al-Qaim Maslama ibn Ahmad al- Majriti.
Nel 1995 l’editore di “Mimesis”, Pierre Dalla Vigna, anch’egli studioso, si dichiarò disponibile ad una pubblicazione completa del trattato che con alterne vicende, non ultima la malattia di Paolo Aldo Rossi, giunse a compimento nel 1999. Così oggi il lettore italiano, non necessariamente specializzato in lingue antiche, ha la possibilità di conoscere un’opera che fu determinante per circa nove secoli nel campo dell’esoterismo e della magia, e che non può essere liquidata frettolosamente, in nome di precostituite etichettature, senza un rigoroso scandaglio interno.
Cercando la genesi di questo trattato, si deve dire che la versione originale è araba, stesa in Egitto tra il 1047 e il 1051, e poi probabilmente confluita in Spagna; l’autore, Abu Maslama Muhammad ibn Ibrahim ibn Abd al-da‘im al- Marjti, non deve essere confuso con il simile Abu al Qaim Maslama ibn Ahmad al- Marjti, conosciuto anche come “il madrileno”, cosa che non ci stupisce a causa della ben nota espansione araba in Spagna. L’opera sarebbe poi stata tradotta de arabico in hispanicum per volontà del re Alfonso X di Castiglia, appassionato di arti magiche e di astrologia, insieme – probabilmente – ad altre operette consimili al tempo circolanti a corte.
Non ci è pervenuta la traduzione spagnola, ma su di essa si è radicata quella latina, della quale abbiamo invece una documentazione attendibile, distribuita in manoscritti reperiti dalla fine del XV sec. agli inizi del XVII, in varie sedi europee, tra le quali Oxford, Praga, Vienna, Darmastadt, Parigi, Amburgo e Firenze.
La traduzione italiana della quale oggi disponiamo ha preso il largo proprio da un testo fiorentino custodito presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e che fu ricopiato a Brisighella il 21 maggio 1536, ove si legge: “die vigesimo primo mensis mai hora vigesima prima Brasichellae in domo que est in platea a duobus faciebus et iuxta pallacium comunis [comitis?], currentibus annis a Salutifera Nativitate millesimo quingentesimo trigesimo sexto, indicatione nona, anno 2° pontificato Paulo tertii. Ad Dei laudem et gloriam in infinita specula. Qui servare libris preciosum nescit honorem illis a manibus sit procul iste liber. Telos”.(3)
L’équipe di studiosi coordinata dal prof. Paolo A. Rossi ha poi lavorato su una serie di testi certi e di consolidata attendibilità filologica quali: Picatrix, in Concordances and Texts of the Royal Scriporium of Alfonso X, el Sabio, Ed. by Lloyd Kasten and John Nitti, “The Hispanic Seminary of Medieval Studies”, Madison (Wisconsin), 1978, edizione in microfiches. Quindi David Pingree, Between the ‘Ghayat’ and Piacatrix. I: The Spanisch Version, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, London, 1981, 44, pp. 27-56; e la versione latina del Ghayat ad-hakim di D. Pingree (Studies of the Warburg Institute, University of London, 1986).
Sul titolo di questo singolare trattato non mancarono le controversie: il già citato Ritter, curatore dell’edizione critica del testo arabo, avanzò l’ipotesi che il nome latino Picatrix altro non fosse che la trasformazione o corruzione del nome greco di Ippocrate (Hippocrates o Harpocration), pensando quindi ad una lontana origine greca o da un autore greco. Ma lo stesso Ritter abbandonò in seguito tale supposizione, evidentemente per mancanza di adeguati riscontri, mentre essa è accettata da Henri Corbin, noto studioso di filosofia araba.
Un’influenza greca può comunque esserci stata, per vie larghe, sulla sensibilità dell’autore del trattato, stante la diffusione della sapienza ellenica nel bacino del Mediterraneo ed anche, più internamente al libro, per una certa affinità di contenuto con il corpus di Ippocrate. Entrambi infatti si proponevano di intervenire curando sull’uomo, percepito come destinatario di influssi e movimenti che noi chiamiamo malattie. Si potrebbe in tal senso, pur con le dovute cautele, disegnare una linea evolutiva del titolo Picatrix in tal modo: greco (Hippocrates o Harpocration), arabo (Buqratis), latino (Picatrix).
Sulla definizione esatta dell’autore o compilatore, va ripresa la testimonianza di Ibn Khaldun, filosofo di grande autorevolezza, morto nel 1406 e vissuto tra l’Africa del Nord e l’Egitto, il quale riconosceva nel trattato “il trattato di magia più completo e meglio fatto”(4), e lo attribuiva ad un certo Maslama al-Magriti.
Per quanto riguarda la struttura formale dell’opera, essa si presenta indubbiamente come un trattato, una esposizione ordinata di una teoria e di un complesso di teorie, in una articolazione per libri e capitoli. I libri disegnano la cornice generale di un dato argomento e i capitoli, come membra interne, ne attuano lo svolgimento. I Libri, nella loro stessa titolazione, contengono e prefigurano l’argomentazione che dovrà essere, provata, testimoniata, discussa nei capitoli. Abbiamo quindi davanti una struttura per cosi dire - ci sia consentito - a scatole cinesi, poiché ogni capitolo rimpicciolisce e rende più visibile, come per l’effetto di una lente focalizzante, l’argomento generale.
L’articolazione è la seguente, attenendoci alle stesse parole dell’autore:
«Questo trattato è dunque diviso in quattro libri e alcuni di essi sono, a loro volta, divisi in parti. Ora, nel primo libro si tratta del cielo e della sua azione [sulla terra] attraverso le configurazioni che vi si trovano. Nel secondo si parla in generale delle configurazioni del cielo, del moto dell’ottava sfera e dei loro effetti su questo mondo. Nel terzo delle proprietà dei pianeti, dei segni e delle loro configurazioni e immagini. Si parla, poi, esplicitamente delle figure e delle forme nella loro varietà e di come si possa comunicare con gli spiriti dei pianeti, nonché di molte altre negromanzie. Nel quarto, infine, [si discute] delle proprietà degli spiriti e di quanto altro è da tener presente in quest’arte e che in che modo ci si possa avvalere di talismani, fumigazioni e altro».(5)
Un trattato di astrologia quindi, ma fino ad un certo punto, poiché la stessa presentazione dei capitoli contiene altre indicazioni: si parla infatti non solo di astri ma anche di “come comunicare con gli spiriti dei pianeti, nonché di molte altre negromanzie” e poi della scienza e della tecnica dei talismani, presupponendo la loro funzione di intermediari tra cielo e terra. Quest’ultimo aspetto fa pensare a qualcosa di più che un trattato ”tecnico” o meramente operativo, quanto piuttosto ad una enciclopedia, una sintesi cosmologica e cosmogonica che, quando intercetta l’uomo, assume anche aspetti di un’antropologia. Cioè – detto in termini più chiari - un manuale che presuppone una visione del mondo, una teoria e una pratica che non paiono disgiungibili. Ma anche un trattato sacrale, che contiene preghiere, invocazioni, implorazioni rivolte ad un Dio assoluto dispensatore di conoscenza e di sapienza.
Il Prologo, che esamineremo a parte, funge da anticamera alla trattazione o, come nei poemi antichi, da sottomissione alla volontà divina, nonché da dichiarazione dell’intenzione dell’autore, dello scopo dell’opera, secondo uno schema riverberatosi fino ai poemi rinascimentali occidentali. Per questo il trattato è prossimo alla religione, alla filosofia, alla scienza, alla medicina del tempo, tutte convergenti in un ideale simpatetico e soteriologico, di ascesi e purificazione dell’imperfezione e impurità umane.
Il Picatrix non mancherà di stupire perché la struttura formale dell’opera, nella sua intelaiatura, non dice tutta la ricchezza del testo, che è straripante e debordante dagli argini entro i quali pare scritta; cosicché si troveranno capitoli deputati a trattare un certo argomento e comprendenti immagini e riflessioni svianti rispetto al tema annunciato. Per esempio la teoria dei talismani compare già nel libro primo, ma lì non si esaurisce, riaffiorando anche nel libro secondo, che pare deputato a parlare delle configurazioni del cielo, ed infiltrandosi anche nel capitolo terzo. Con ciò si vuole dire che il trattato solo in parte ha un andamento sistematico, ma in realtà è come un ventaglio che apre e chiude il proprio spettro, svelando sorprese e inserimenti inusitati.
Infatti, scorrendo l’indice del libro quarto, non c’è traccia né segnalazione alcuna della creazione in Egitto della città ideale di Adocentyn ad opera di Ermete Trismegisto, nella quale, come nella Repubblica di Platone e nella Città del Sole di Campanella, il governo sarebbe nelle mani di un saggio-filosofo, cosa di cui si parla invece nella pagine del libro e non in maniera insignificante, in quanto tale tematica travaserebbe nel Picatrix dalla tradizione platonica precedente e ne fuoriuscirebbe verso le più tarde interpretazioni rinascimentali.
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NOTE
1) Il giudizio di Brown viene riportato nella Introduzione al Picatrix, a cura di P.A. Rossi, D. Arecco, I. Li Vigni, S. Zuffi, in P., cit., p. 9.
2) Circostanza riferita nell’Introduzione, in P, cit. , p. 10.
3) citato in Introduzione, P., cit., p. 11.
4) Il giudizio è riportato in Introduzione, P., cit., p. 12.
5) P., cit., pp. 27-28.
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