Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
Alcune considerazioni sulla matematica
di Clericus - Settembre 2018
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Certezza dell'aritmetica e conseguenze immediate
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Carattere originario dell'aritmetica
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Matematica e universo fisico
Certezza dell'aritmetica e conseguenze immediate
Uno dei primi problemi che discuteremo è cosa si intenda per "matematica", perché non è affatto detto che questo termine denoti un concetto unitario. Con il termine "matematica" propongo di intendere: l'aritmetica dei naturali e tutti gli ampliamenti fino ai numeri reali e complessi compresi (si potrebbero aggiungere varie parti della logica formale e la teoria della computazione).
Questo va bene per quanto riguarda l’estensione apparente del concetto, ma ritengo sia del tutto insufficiente per quanto concerne il significato del termine. Limitiamoci all’aritmetica. Il far di conto e il calcolo elementare ne fanno parte, ma cosa si intende? Calcolo può essere: le operazioni che facciamo quando operiamo sui numeri (non concesso che siano proprio le stesse per tutti, essendovi differenze soggettive nel modo di procedere), quelle che facciamo quando manipoliamo le cifre (non è la stessa cosa), gli algoritmi che applicati ad un set di dati di input generano un output in un tempo finito, le regole singole di associazione di coppie di naturali a un naturale mediante le operazioni elementari (es. 7 + 3 = 10). Questi esempi non coincidono perfettamente, pur realizzando lo stesso concetto di calcolo. Lo stesso vale per il numero: p.es. gli assiomi di Peano – o altri sistemi assiomatici – non riescono a identificarne pienamente il significato, pur esprimendone completamente le proprietà essenziali. Tutti sanno cosa sono i numeri, ma non saprebbero spiegare bene cosa siano.
Ma – a parte l’operatività elementare – in un senso più esteso l’aritmetica “contiene” le regole di calcolo e, procedendo oltre, i teoremi sui naturali. Ma già dicendo che tutto questo “fa parte” dell’aritmetica, assumiamo come (provvisoriamente) vera un’ipotesi pesantissima: che l’Aritmetica sia un insieme di combinazioni di proposizioni, formule, segni con le quali si “parla” di numeri o di collezioni di numeri. Per “essere” qualcosa bisogna però “esserci”, bisogna cioè che l’aritmetica esista, che abbia un carattere oggettivo, che sia indipendente da chi la applica, che sia la stessa per tutti, il che vuol dire: che abbia le stesse proprietà di un oggetto fisico.
In alternativa, possiamo presumere che questa affermazione di esistenza indipendente sia una forma di linguaggio allusivo, che si adotta per brevità, in modo da evitare l’uso di una grande quantità di perifrasi che spiegherebbero assai meglio il concetto. Solo che, a voler esser precisi, tutto questo sarebbe lungo da esprimere e forse, per non incorrere in errori, bisognerebbe che il linguaggio adottato fosse ben aderente all’oggetto. Il quale…semplicemente non è definibile con strumenti di linguaggio e concettuali, a meno che questi non siano costruiti presupponendolo come un dato, un sistema prestabilito. Infatti possiamo benissimo parlare di aritmetica nel linguaggio ordinario, ma adattandolo alla struttura dell’aritmetica stessa. In pratica, la trattiamo come se fosse un oggetto reale.
Bene, se proprio non vogliamo invischiarci nella metafisica (ovvero in un linguaggio illusorio) ammettendo l’esistenza dell’aritmetica (nel senso che tutto l’insieme infinito delle regole e dei teoremi sia prefissato e noi ci limitiamo ad esplorarlo), ebbene, se vogliamo limitarci al “fattuale” ammesso e non concesso che proprio questa intenzione possa essere sempre soddisfacibile, e in questo caso in particolare, possiamo solo constatare che il sistema dell’aritmetica sia predefinito. Per “sistema dell’aritmetica” intendo tutto l’insieme delle proprietà dei naturali, quelle già scoperte, quelle non ancora scoperte, e quelle che non saranno mai scoperte. Non vuol dire che tale sistema vi sia da qualche parte, vuol dire semplicemente che i risultati ottenuti non possono essere diversi da quello che sono (le prime cifre di p sono 3 1 4 1 5 9… con virgola dopo il 4; sono quelle e non possono essere altre).
Qui interviene un elemento interessante, anzi l’elemento fondamentale: il risultato di un’operazione correttamente eseguita è definito prima che lo si trovi, e indipendentemente dal fatto che qualcuno lo trovi;il che vuol dire:
1. Ci possono essere “calcoli corretti” e “calcoli sbagliati” (sembra banale, ma è un modo per esprimere quanto detto prima);
2. Se il risultato ottenuto in una singola esecuzione di un algoritmo non è quello che ci aspettavamo, è perché c’è stato un errore di calcolo, e non perché ogni tanto lo stesso algoritmo, più volte applicato, possa fornire risultati diversi.
Tutti diamo per scontato che il calcolo sia “stabile” salvo gli errori di calcolo: i quali, se fosse altrimenti, non sarebbero tali, ma “esiti casualmente variabili sia pure improbabili”. E’ così scontato che non può esserci dimostrazione: né empirica (sarebbe solo per induzione, e in presenza di risultati inattesi questi come sarebbero interpretati? Come errori?) né “matematica” nel senso proprio del termine (non solo come argomentazione “convincente” essendo ahimè convinzione ed evidenza termini che alludono comunque alla soggettività – l’evidenza da parte di una schiacciante maggioranza o anche di tutti non fornisce altro se non l’unanimità di giudizio e di percezione, non certo la “certezza intrinseca” che generalmente il senso comune attribuisce all’aritmetica). Ma – senza scomodarci troppo – vediamo subito che una dimostrazione in linea di principio è impensabile: sarebbe essa stessa un calcolo, una procedura, un procedimento stabile nel fornire un risultato solo se il calcolo è stabile. Insomma il calcolo aritmetico non può essere verificato a partire da qualcosa d’altro, è primitivo sul piano operativo, originario di ogni procedura applicata nel corpo dell’aritmetica.
Si può tentare di contrastare la tesi per cui l’aritmetica sia un sistema predefinito (vale a dire, nel quale la verità di una asserzione può solo essere scoperta ma precede scoperta e formulazione) osservando che una proposizione possa essere vera solo se è stata formulata, e che debbano quindi essere prese in considerazione solo le proprietà già enunciate. Questo punto di vista, di tipo “costruttivistico”, benché condivisibile se si pensa che un enunciato è veramente tale solo è stato formulato e che un calcolo è tale solo se viene eseguito non soddisfa: riduce l’aritmetica a ciò che è già noto rinunciando al concetto di una totalità attualmente infinita. O, retoricamente, è come se una legge di natura sia tale solo nella misura in cui è stata formulata. Ma i corpi situati nello stesso luogo cadono sempre allo stesso modo, indipendentemente dal fatto che si sappia come. Allo stesso modo, l’insieme dei numeri primi è infinito anche se lo ignoriamo. Le proprietà matematiche andrebbero trattate come i fenomeni fisici. Si devono includere anche le proprietà che non sono state enunciate, ma che lo saranno, e inoltre quelle enunciabili secondo le regole di formazione delle proposizioni aritmetiche, perché tali proprietà non dipendono dal tempo: la loro scoperta o meno non interferisce col loro valore di verità. “Predefinito” significa solo che se un enunciato è conforme a determinate regole di formazione il suo valore di verità è funzione solo dell’enunciato, non dipendendo dalla particolare procedura adottata per stabilirlo. Questo non significa che si possa determinare il valore di verità di qualsiasi enunciato, né significa in senso stretto che preceda nel tempo la sua eventuale determinazione, ma stabilisce che l’idea di una “preesistenza” della verità rispetto alla sua verifica non è in contrasto con quanto la stessa aritmetica ci rivela. Anche gli enunciati correttamente formulabili sono un insieme predefinito, nel senso che noi possiamo sempre stabilire almeno in linea di principio se un enunciato sia o no correttamente formulato. L’aritmetica non consiste solo di enunciati nel senso proprio del termine (cioè di asserzioni scritte dette pensate ecc…), perché in questi termini potremmo concludere che sia solo un insieme di nozioni variabile e quindi, in ultima analisi, persino soggettivo e direi personale, se ci limitiamo alle proposizioni matematiche che ognuno di noi è in grado di formulare.
Carattere originario dell’aritmetica
Questa questione richiama il problema della stabilità di un edificio. Anche ammesso ma non concesso che tutta l’aritmetica sia una costruzione (vale a dire: numeri, relazioni e operazioni tra numeri, proprietà generali e particolari dei numeri sono solo prodotti delle nostre capacità mentali), cioè non esisterebbe di per sé ma produrrebbe risultati coerenti perché siamo stati così abili, da poter preventivamente evitare contraddizioni, ebbene potremmo chiederci come fa a stare in piedi. Nella costruzione di un edificio, l’architetto impiega uno strumento formale-concettuale della fisica, la statica, e le proprietà dei materiali. La statica dell’edificio è predefinita rispetto alla costruzione. E la statica dell’aritmetica, che significa assenza di contraddizioni e di errori salvo quelli fatti dal calcolatore, macchina o uomo, dove sta? Bene, Gödel ci dice che – se la intendiamo come coerenza – non è dimostrabile nell’aritmetica, dato che non può essere provata con i suoi soli mezzi; ma Gödel stesso ci dice pure che se non sta lì non sta da nessun’altra parte: perché l’impossibilità di dimostrare la coerenza di un sistema formale complesso almeno quanto la stessa aritmetica vale a maggior ragione per tutti i sistemi formali di ricchezza ad essa equivalenti o superiori (puoi dimostrare la coerenza dell’aritmetica in un altro sistema formale più potente, ma come dimostri la coerenza di quest’ultimo? Il problema si ripropone all’infinito). Quindi, se l’aritmetica è coerente, lo è per sé e in sé (direbbe Hegel) ma non ne abbiamo una dimostrazione. L’aritmetica è la propria “statica”.
Se ci fossero regole di costruzione del sistema formale dell’aritmetica precedenti l’elaborazione del sistema, si potrebbe procedere scientificamente alla stesura del medesimo, come fosse un disegno, con la stessa libertà creativa. In realtà delle regole vincolanti ci sono, come il calcolo proposizionale, ma precedono l’aritmetica solo nella sistemazione che i logici matematici hanno assegnato a questa materia. Se vogliamo, ne costituiscono la grammatica. Si tratta di regole di composizione dei simboli, che delimitano il perimetro dell’insieme delle formule ben formate, vale a dire la forma in cui le proposizioni dell’aritmetica vanno espresse per ottenere dimostrazioni sintatticamente corrette. Ma tale insieme va estratto dall’aritmetica: ci dice come dobbiamo esprimerne le proposizioni, non che cosa si esprime, in presenza di aritmetica già sviluppata in alto grado, e non ne garantisce affatto la consistenza, né permette di separare i teoremi dalle proposizioni false ma correttamente formulate. Storicamente, il calcolo elementare e molte proprietà dei numeri naturali sono stati sviluppati senza aver esplicitato alcun vincolo esterno all’aritmetica; lo stesso problema della coerenza e della completezza sono stati posti chiaramente solo verso la fine del XIX secolo. Su un piano diverso, gli assiomi che possono essere proposti alla base dell’aritmetica, o definizioni del numero come quella proposta dal Russell, devono essere ricavati dal sistema dei numeri così come è inteso nel senso comune, e comunque per il teorema di incompletezza, sempre di Gödel, nessun sistema di assiomi è sufficiente per dimostrare tutti i teoremi dell’aritmetica, anche se sul piano deduttivo alcuni teoremi (ma non tutti) sono deducibili dagli assiomi stessi.
Dunque, la “certezza” aritmetica, sia come non-contraddizione sul piano formale, sia come stabilità su quello temporale (il secondo aspetto sarebbe logicamente riconducibile al primo, ma mi sembra molto più immediato e intuitivo, mentre il problema della coerenza ci obbligherebbe a considerare l’aritmetica come un tutto) sembra essere un fatto. E’ qualcosa di empirico, anche se l’aritmetica non è costituita di oggetti empirici – tutt’altro.
Perché questa discussione? Perché spinge a considerare l’aritmetica come un tutto prestabilito. La coerenza non è una proprietà di una parte del calcolo dei naturali, è una proprietà globale del sistema. Certamente, si può evitare di riferirsi esplicitamente a una totalità infinita – si può dire che due qualsiasi proposizioni dell’aritmetica non saranno mai in contraddizione tra di loro – ma il principio vale anche per quelle non ancora enunciate. Non interessa che due proposizioni qualsiasi potrebbero non essere state enunciate fino ad ora, interessa che, se mai un giorno lo saranno, sicuramente non saranno in contraddizione tra di loro e con nessuna altra proposizione già enunciata o che sarà enunciata. Possiamo evitare di parlare dell’aritmetica come di un’infinità attuale di termini, proprietà ecc. ecc., ma non possiamo evitare che tutta la costruzione storicamente prodotta e tuttora in evoluzione debba soddisfare un insieme di regole ecc. che ne fanno parte, pena la sua stessa inconsistenza. Quindi, è indifferente considerare un ipotetico sistema simbolico-formale infinito attualmente, come se esistesse “di per sé” ma non-so-dove, o un insieme in accrescimento finito e storicamente prodotto, ma che soddisfa le stesse regole impositive dell’immaginario sistema infinito preesistente o se si vuole predefinito.
A questo punto, si potrebbe proporre una soluzione dialettica vale a dire legittimamente formulabile sul piano concettuale, ma incapace di fornire una risposta esauriente sulla natura dell’aritmetica. Si potrebbe cioè stabilire che l’aritmetica consista di un insieme di “operazioni” su “entità” o “termini” o “simboli” o “segni” ecc. che obbediscono a regole ben precise, operazioni eseguibili su oggetti astratti che “funzionano” perché “raffigurano” manipolazioni materiali che noi possiamo eseguire. Le regole ci direbbero come vengono eseguite queste manipolazioni. Su questa base relativamente ristretta di carattere esperienziale e operativo si innesterebbe un complesso sistema concettuale del quale fan parte i numeri primi, la computazione, gli ampliamenti successivi, tutti i teoremi dimostrati e così via.
Ora, che numeri regole ecc. corrispondano a operazioni mentali, manipolazioni, “presa di coscienza” che le cose stanno in un certo modo ecc. può ben essere una affermazione condivisibile in quanto piuttosto banale (la matematica dovrà pure servire a qualcosa) ed è ragionevolissimo affermare che l’apprendimento dei primi fondamenti del calcolo aritmetico avvenga esplorando e manipolando collezioni di oggetti materiali. Ma qui non si tratta dello sviluppo individuale delle abilità matematiche. Il fatto è che, per poter formulare chiaramente questa speciale corrispondenza tra oggetti concreti e simboli, dobbiamo già possedere uno e un solo sistema dell’aritmetica. Non ci sono tante aritmetiche quante ne potremmo inventare, ma una sola, e possiamo affermare con certezza solo che noi impariamo a manipolare simboli e schemi esprimibili verbalmente e graficamente, che ci permettono di operare attivamente nel mondo dell’esperienza quotidiana, e che l’interazione con questo stesso mondo è necessaria per giungere a conseguire questa abilità. Ma una cosa è l’uso di un congegno, altro è il costruirlo. Per costruire un congegno bisogna averne un progetto prima. Al contrario, nell’aritmetica si procede dopo un insieme di nozioni e abilità, che comunque nascono anche dall’interazione col mondo dell’esperienza sensibile. Il mondo stesso ci fornisce sia pure in forma implicita gli elementi costitutivi dell’aritmetica. Nel mondo dell’esperienza sensibile noi riconosciamo relazioni di ordinamento, di quantità, e rapporti. Tutto ciò confluisce nel sistema della Matematica; ma
1. Non è possibile “costruire” l’aritmetica, ovvero non siamo in possesso di una procedura che permetta di generare numeri e le proprietà dei numeri; anche ammesso che si pervenga a “costruire” il concetto del numero e le operazioni elementari interagendo con oggetti e insiemi di oggetti sensibili, tale “costruzione” non è arbitraria, e non è possibile provare che tale unicità derivi dalle nostre capacità o dalla nostra “struttura mentale”, anzi si prova che sostituendo alle regole dell’aritmetica altre regole si ottiene un sistema inapplicabile in quanto incoerente;
2. Lo sviluppo delle nostre abilità e conoscenze in merito segue un certo percorso, o proprio non si procede; in particolare, le scoperte fatte storicamente nell’ambito dell’aritmetica procedono in base a dimostrazioni eseguite secondo ben determinate regole prefissate, dalle quali non ci si può scostare;
3. Benché si apprenda l’aritmetica anche interagendo con gli oggetti concreti e con insiemi di oggetti, non è possibile provare che le relazioni aritmetiche derivino dall’esperienza sensibile, perché potrebbe benissimo essere il contrario: l’esperienza contiene seppure implicitamente le strutture matematiche, che noi siamo in grado di a) riconoscere; b) elaborare; c) utilizzare, perché “funzionano”.
Matematica e universo fisico
Ma cosa vuol dire che l’aritmetica e più in generale la matematica funziona(no)? Vuol dire almeno tre cose:
1. Come già discusso, muovendoci all’interno dello spazio formale dell’aritmetica e in generale della matematica non si incontrano contraddizioni purché si rispettino certe regole;
2. L’utilizzo dei segni e delle loro regole di combinazione permette di ottenere risultati pratici. Ciò avviene su due livelli: uno descrittivo (operazioni di misura, nelle quali si lavora su ciò che c’è già; oppure: riconosciamo forme come le orbite dei pianeti), l’altro interpretativo (usando strumenti matematici possiamo mettere in relazione fenomeni apparentemente diversi); infine
3. La matematica ci consente di fare previsioni in alcuni campi (si pensi alla fisica e al calcolo delle probabilità) e di progettare congegni utili.
Quest’ultimo aspetto è a prima vista il più sconcertante. Se i primi due ci dicono che la matematica è un sistema di segni per raffigurare aspetti particolari dell’esperienza, il terzo ci dice che essa ha a che vedere con la forma stessa di una parte del mondo, a iniziare dalle relazioni di ordine, quantità e rapporti tra grandezze per arrivare alle moderne teorie della fisica.
Quando dico “forma di una parte del mondo” non intendo un concetto che richiami propriamente un disegno di qualcosa, un ritratto, o sul piano verbale l’esposizione il più possibile precisa di un avvenimento. Tutti questi esempi presuppongono un originale noto. In un certo senso sono un riassunto, l’esposizione di qualche fatto, la raffigurazione di ciò che c’è già. Queste sono “forme riassuntive” formulate caso per caso, sono una riduzione di un originale al piano della raffigurazione e della comunicazione, anche se possono essere dotate di un importante contenuto autonomo; possono avere valenza letteraria, artistica, ma in quanto alla corrispondenza all’originale, sono duplicati di quello con perdita e alterazione di informazione.
Ma una equazione può rappresentare una legge fisica (tutte le leggi fisiche sono formulabili come equazioni). Ora, una legge o una teoria fisica di solito si basa anche su osservazioni sperimentali, ma nasce in base a qualche nuova idea e riesce a descrivere e a prevedere una grande quantità di fenomeni che non sono all’origine della sua formulazione, anzi talora sono del tutto inattesi. Una legge fisica è ottima se, quando è stata proposta, ha previsto qualcosa che non ci si attendeva. Essa permette di vedere il mondo sotto una nuova luce, non è il ritratto di qualcosa, è l’originale ad essere trasfigurato. L’immagine dell’universo fisico all’inizio del XXI secolo è assai differente da quella che poteva averne un contemporaneo di Copernico.
Una legge fisica unisce in sistemi matematici finiti una indefinita quantità di fenomeni e può prevederli prima della stessa prova sperimentale. In questo senso deve intendersi la “forma” che si esprime matematicamente. Senza leggi fisiche, l’universo fisico apparirebbe un insieme di fenomeni incoerenti. Anzi, non sarebbe neppure esplorabile, perché mancherebbero gli strumenti concettuali, mentre gli strumenti materiali necessari all’indagine devono essere progettati proprio in base alle conoscenze già acquisite. Non solo, ma le leggi fisiche hanno carattere normativo: date certe condizioni iniziali, un sistema fisico evolve in un certo modo. Il comportamento di un sistema fisico è descritto bene da equazioni. Si ha l’impressione che queste non descrivano soltanto la realtà fisica, ma la costringano a seguire una traccia prestabilita (in realtà, il paragone regge molto bene per la meccanica classica e la relatività; nella fisica quantistica la questione è un po’ più complessa).
Peraltro, il rapporto logico tra matematica e fisica sembra essere di subordinazione della seconda alla prima. Si considerino la cosmologia, che pretende di descrivere l’evoluzione completa dell’intero universo mediante la relatività generale e la conoscenza delle particelle elementari, nonché la termodinamica e il secondo principio in particolare. Quest’ultimo, in special modo, per il suo carattere intrinsecamente statistico, prescinde da particolari determinazioni di tempo e di spazio. Non si può assegnargli una collocazione nel tempo e nello spazio; è un principio statistico e non può riassumere un insieme di osservazioni sperimentali, ma al contrario qualsiasi processo fisico dovrebbe svolgersi ad esso conforme. Lo stesso per la relatività generale: essa regola la curvatura dello spazio-tempo in funzione della distribuzione della massa-energia secondo equazioni la cui forma non dipende da condizioni di tempo e luogo. Nella meccanica quantistica, il principio di indeterminazione è altrettanto universale e assoluto.
Certo, si può obiettare che le presenti leggi della fisica vengono prima o poi sostituite da altre, più precise e sempre migliorabili. A parte il fatto che una prova empirica di questa affermazione non può darsi (perché richiederebbe una conoscenza completa della struttura dell’universo fisico, che non può esservi senza leggi fisiche), tale affermazione, ammesso sia vera per sola ipotesi, non contraddice affatto il carattere assoluto di una teoria fisica. La questione non è se una teoria possa essere vera e in che modo ciò debba intendersi. La questione va posta nella forma seguente: una teoria fisica deve essere assoluta (indipendente da tempo e luogo) per essere tale. Se non è invariante come lo sono le leggi fisiche, non può sostenere il suo ruolo, esattamente come il calcolo aritmetico non sarebbe tale se i risultati di una data procedura variassero nel tempo per lo stesso insieme di dati in input.
Ovviamente non è possibile dimostrare con assoluta certezza che le teorie fisiche, compresa una ipotetica “teoria del tutto”, soddisfino effettivamente un criterio così forte di indipendenza rispetto alla stessa realtà fisica, dato che si può facilmente obiettare che le leggi fisiche potrebbero variare nel tempo. Di fatto, stranamente non vi è nessun elemento empirico che supporti una ipotesi apparentemente tutt’altro che irragionevole. L’esplorazione dell’universo remoto non rivela nessuna differenza rispetto a quello più vicino a noi. Ma – a prescindere da considerazioni peraltro molto astratte sulla natura delle leggi fisiche – l’indipendenza rispetto ai parametri fisici stessi, che è indispensabile sul piano logico, insinua che la stessa matematica debba essere considerata indipendente dal mondo fisico. Più esattamente, deve essere scollegata da ogni singolo esperimento o processo fisico e dallo spazio-tempo e da ogni parametro significativo della struttura dell’universo, pur essendone la forma strutturante. Diversamente essa sarebbe un fenomeno fisico, il che implica una logica in funzione di parametri empirici.
Considerazioni di questo genere portano facilmente ad esiti metafisici di cui è meglio diffidare. Tuttavia, problemi del tipo “cosa c’è stato prima del big bang”, o quale teoria di gravità quantistica si debba applicare ai buchi neri, sono senza senso, o almeno sarebbero pure esercitazioni intellettuali utili se non altro per meglio comprendere la potenza di uno schema formale, ma fondamentalmente prive di significato, se non si ammettesse sia pure implicitamente che le leggi fisiche possano essere estese senza limiti a qualsiasi processo fisico, e che la matematica sussista in qualche modo anche senza i matematici. A meno di accettare, più modestamente, che la matematica operi strumentalmente ora in modo efficace esplorando le tracce del passato, a prescindere da qualsiasi ipotesi sulla “realtà” di tale passato. Detto altrimenti: il “passato” dell’universo fisico raffigurato dalle teorie cosmologiche è coerente con i dati sperimentali e con le teorie fisiche, ma la sua “realtà” consiste solo in questa concordanza, non essendovi modo di attribuire ad esso una forma definita se non proprio solo per quella stessa concordanza. Se viceversa manteniamo l’idea che la cosmologia descriva effettivamente ciò che avvenne nella storia dell’universo fisico, per coerenza dobbiamo ammettere che l’universo e la “sua” matematica siano la stessa cosa, e che il sistema formale della matematica sia solo una forma antropica per descriverne la struttura mediante un isomorfismo, che lasci però il fondamento della matematica oltre l’orizzonte della nostra esperienza, in una sorta di spazio trascendente la nostra esistenza eppure intelligibile.
Se la matematica (meglio, una parte di essa) è la forma generale delle leggi fisiche (e di alcune leggi in economia, statistica ecc.), resterebbe da comprendere in che modo tale stretta relazione possa essere giustificata. La risposta più semplice – se si rinuncia a interpretazioni teologiche – è che lo stesso mondo fisico incorpori una struttura matematicamente analizzabile. Vale a dire, è equivalente a un sistema progettato matematicamente, anche se non è detto che vi sia stato un progettista; semplicemente, non è solo materia, è organizzazione della materia fino a un certo punto intelligibile. Questa teoria è un po’ ingenua, dato che attribuire all’universo fisico una struttura implica che “strutture” e “relazioni” e “leggi fisiche” siano in qualche modo “reali” e facenti parte dell’universo stesso e non siano solo strumenti concettuali. E’ una posizione molto semplice. Tuttavia, una spiegazione di questo tipo non contraddice nessuna prova sperimentale, anzi può almeno provvisoriamente chiarire come mai gli esperimenti riescano conformi alle previsioni teoriche.
Il fatto è che spiegazioni alternative potrebbero essere anche meno chiare e più contorte. Per esempio: la “forma” dell’universo è “posta” dal fisico stesso, che opera attraverso gli strumenti concettuali e operativi di cui dispone. Solo che:
1. Come fanno i suoi “strumenti concettuali” a essere tanto efficaci da concepire lo spazio-tempo einsteiniano in modo che tale creazione intellettuale operi in modo così soddisfacente? Perché certamente dobbiamo ammettere che i fisici sono bravi, e possono inventare una infinità di teorie matematiche che potrebbero avere significato fisico. Ma perché alcune parti della matematica sarebbero efficaci allo scopo e altre no? Se lo decidesse il fisico, non vi sarebbe questione; pare però che l’universo fisico non si conformi affatto a qualsiasi legge fisica, ma piuttosto che questa debba conformarsi a quello. E a cosa si dovrebbe conformare, alla materia informe?
2. Ammettiamo pure che non tanto il “fisico” ma la nostra “struttura mentale” determini o dia forma all’universo fisico. La nostra struttura mentale sarebbe così potente da indurre nella materia informe un ordinamento assimilabile alle strutture matematiche, dato che anche queste sono un prodotto della potenza dell’umano intelletto. Qui, il problema sta nel fatto che non è chiaro quale sia il rapporto tra i singoli termini del discorso. Che la forma dell’universo fisico sia intelligibile non significa nulla né per quanto riguarda la forma in quanto tale, né per quanto riguarda la sua origine, né per quanto riguarda il suo rapporto con la matematica. Quest’ultimo non lo possiamo porre noi: o la matematica corrisponde alla forma dell’universo fisico, o non corrisponde. Scienziati, osservatori, matematici non possono farci niente. La matematica o funziona o non funziona.
Esplorare l’origine e il ruolo della forma dell’universo fisico in relazione alle strutture mentali o intelletto o mente o che dir si voglia è perfettamente legittimo, ma è impossibile stabilire alcunché di definitivo a questo proposito. E’ evidente che noi esploriamo l’universo con gli strumenti formali che sappiamo manipolare, e ciò che troviamo dipende altrettanto evidentemente dalla nostra abilità di trattare i suddetti strumenti, ma da dove ricaviamo che i suddetti strumenti siano solo umani? Molto della matematica è costruibile ma a partire dall’aritmetica, e l’aritmetica viene appresa formulando operazioni e manipolazioni che applichiamo al mondo fisico, ricavandone regole e metodi. E poi, “intelletto” “mente” “ragione” sono parole di uso comune, appunto sono…parole. Potrebbe benissimo essere che riusciamo a trattare così bene la matematica perché…per esempio, banalmente, la nostra rete neurale e le connessioni tra neuroni costituiscono un sistema estremamente complesso, capace di simulare la matematica.
Questa ci sarebbe già, implicitamente, potenzialmente, nella struttura mentale – ammesso che quest’ultimo termine significhi qualcosa di ben definito – o, meglio, in quella fisica sottostante. Non la matematica “deriva” dalla mente, ma il contrario: “noi” siamo matematici, almeno potenzialmente, perché la nostra rete neurale può simulare la rete logica della matematica. O, per essere più precisi, perché essendo essa stessa un insieme di connessioni, ci permette di rappresentare e dare un significato alle connessioni interne di un sistema simbolico-formale e alle sue relazioni con il mondo dell’esperienza.
In realtà il problema del rapporto tra matematica, “mente” e universo fisico non è sondabile sperimentalmente. L’unica conclusione certa è che vi è una fortissima interconnessione tra sistemi simbolico-formali che sappiamo manipolare e sistemi individuabili nell’universo fisico. L’idea più semplice e meglio rispondente ai fatti è che quest’ultimo contenga essenzialmente informazione strutturata adeguatamente in modo da essere a noi intelligibile, stabile e coerente come le strutture matematiche, e potrebbe anche essere che l’universo fisico sia solo quello (non vi è evidenza sperimentale che sia costituito da una materia o sostanza indefinita universale). Non si può dire nulla sulla relazione tra “noi” e l’universo fisico, essendo mediata da strumenti formali: qui non si possono fare esperimenti, l’universo senza di noi non esiste, nel senso che l’immagine che ne abbiamo è “nostra” e l’universo “in sé” è un’astrazione, un oggetto insondabile. Questo sembra significare che la presenza dell’osservatore cosciente sia imprescindibile. In un certo senso è vero, perché è l’osservatore che osserva, giudica, stabilisce. Però può giudicare solo in base a regole che deve riconoscere, saper utilizzare e che non può cambiare. Inoltre, solo una parte della matematica è utile all’indagine del mondo fisico. Stabilire che queste regole siano “antropiche” è azzardato in quanto sembra contraddire l’impossibilità di costruire l’aritmetica, ma non si può neppure provare che non possa esistere una “matematica” diversa altrettanto funzionale.
Clericus
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