Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
La letteratura e le lingue
Seconda parte
di Marco Calzoli - Ottobre 2023
La tradizione ebraica conosce anche il targum, scritto in aramaico, che costituisce una sorta di traduzione-commento alla Bibbia ebraica. Si fa risalire il fenomeno dei targum all’episodio di Neemia 7, 72 b-8, 18 dove lo scriba Esdra fa una solenne lettura della Torah davanti al popolo di Israele e la spiega: “Essi leggevano il libro della Torah, in maniera chiara, con intelligenza del testo, e così facevano comprendere la lettura”. Il Talmud di Babilonia (Meghillah 3 A) propone una interpretazione di questo passo:
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“essi leggevano il libro della Torah” sarebbe la lettura (miqrà);
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“in maniera chiara” sarebbe la traduzione (targum);
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“con intelligenza del testo” si tratterebbe dei versetti, rashi, cioè il modo in cui si divideva il testo;
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“e così facevano comprendere la lettura” sarebbero le scansioni degli accenti, e probabilmente la vocalizzazione.
Oggi alcuni studiosi non accettano questa genesi dei targum. Essi sostengono, infatti, che i targum non nascano spontaneamente per spiegare la Bibbia (quindi la loro origine non sarebbe orale in sinagoga) bensì sorgano da una consolidata tradizione letteraria. Ma non tutti accettano queste teorie innovative. Chi le accetta, però, sostiene che i targum nascano dal Bet Sefer (accademia, con lo scopo di insegnare la Bibbia) oppure dal Bet Midrash (per lo studio individuale). Facciamo un esempio. Nel passo di Genesi 22 quando Abramo sta per sacrificare Isacco, il Targum Neofiti inserisce un sintagma che non c’è nella Bibbia ebraica. Abramo informa Isacco che sarà il figlio l’agnello da sacrificare e il testo aramaico del Targum mette un inciso “con il cuore perfetto” (blbh shlmh). Morrison analizza questa espressione e la considera di una grande qualità letteraria per la finezza dell’immagine per cui Abramo e Isacco camminano “con un cuore perfetto/in pace”, cioè con la stessa intenzione, e nonostante questo Abramo dice al figlio che ha intenzione di sacrificarlo.
Il posto dei targum è accanto al testo ebraico. Mentre la traduzione greca della Settanta e la Peshitta siriaca nascono per sostituire la Bibbia ebraica nelle rispettive comunità, invece i targum nascono per spiegare questa Bibbia. Tale differenza è fondamentale per risolvere problemi di critica testuale. Ciò spiega anche perché i targum sono scritti in aramaico e non in ebraico mishnico: l’uditorio di una sinagoga non era più in grado di capire l’ebraico, quindi si pensa che i targum nascano per spiegare alla comunità il testo ebraico. Tuttavia oggi questo argomento si prende con le molle, perché recenti studi, supportati dalle evidenze della letteratura di Qumran e dall’emergere della letteratura rabbinica, fa aggiustare il tiro: la lingua usata nel quotidiano dalla maggior parte degli ebrei palestinesi era certamente l’aramaico, ma l’ebraico continuava ad essere capito, almeno parzialmente.
Il genere dei targum si inscrive all’interno di uno sforzo che fu quello della tradizione farisaica: rendere l’intera comunità responsabile della Torah. I targum forse nascono in seno alla tradizione orale, quindi era proibito metterli per iscritto, anche se alcuni ci sono giunti così. Esistono targum per tutti i libri della Bibbia tranne Esdra e Daniele. I targum sono sorti probabilmente nel periodo rabbinico.
Shepherd sostiene che quello di Qumran (a Giobbe, con sigla 11QTgJob) non sia un realtà un vero targum, bensì una semplice traduzione letterale del testo ebraico di Giobbe. Per l’esattezza la parola ebraica targum significa “traduzione”, indicava in passato tutte le traduzioni aramaiche della Bibbia ebraica, oggi è usata per indicare solo le traduzioni aramaiche del periodo rabbinico. In base allo studio di Stec il testo aramaico di Giobbe ritrovato a Qumran si distingue dal cosiddetto Targum di Giobbe, che è difficile datare perché riflette una raccolta di materiali diversi di epoche diverse (forse tra il III e il VII secolo), la cui editio princeps si trova nella prima Bibbia rabbinica, Venezia 1517.
I targum maggiori (Onkelos e Ben Uzziel) sono scritti originariamente in aramaico maccabeo, la lingua ufficiale della Giudea Maccabea, un tipo di aramaico post-imperiale che influenza anche l’aramaico degli scritti di Qumran. Invece i targum palestinesi sono scritti in una via di mezzo tra aramaico maccabeo e aramaico galileiano. Onkelos e Ben Uzziel sono scritti in un aramaico con influssi babilonesi ma che è fondamentalmente un aramaico palestinese. Per esempio Onkelos traduce l’ebraico “vedere” (r’h) con l’aramaico babilonese tw’ e non con l’aramaico palestinese chm’.
Secondo recenti studi, i targum maggiori sono scritti in aramaico medio giudaico, invece i targum palestinesi in aramaico tardo giudaico. Lo studio più recente sulla grammatica dei targum maggiori è quello di Kuty. Molti studiosi considerano artificiale l’aramaico dei targum Onkelos e di Jonathan. In ogni modo c’è chi sostiene che l’aramaico dei targum non rifletta di solito una lingua parlata ma sia una lingua di traduzione. Edward Cook propone questa cronologia:
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Aramaico biblico (II secolo a.C.);
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Targum di Giobbe ritrovato a Qumran (I secolo a.C.);
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1QGenApo (I a.C.);
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Targum Onkelos (70-135 d.C.);
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Lettere di Bar Kokhba (ca. 135 d.C.);
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Targum palestinesi (II/III d.C.).
Come ogni traduzione, il targum a volte sembra sciogliere il linguaggio metaforico del testo ebraico. Nel Salmo 13, 3 è scritto: “Signore, mia roccia”. Il targum rende con “mia forza”. Non si tratta di una variante rispetto al testo ebraico, ma della manifestazione della tecnica di traduzione del targum, condivisa anche dalla Settanta e dalla Peshitta.
Un’altra tecnica targumica è la “traduzione rovesciata” (converse translation, come dice Klein): per esempio in Genesi 4, 14 è scritto tu mi scacci oggi dalla faccia del suolo e “dovrò nascondermi da te”, che il targum Onkelos traduce “non è possibile nascondersi davanti a Te”. Ebbene, questa traduzione rovesciata vuole evitare l’idea che una persona possa essere nascosta davanti a Dio.
Ci sono alcune idee preconcette sul targum. Una di esse è che si tratti di una traduzione libera. Non è affatto vero, libera semmai è la traduzione greca della Settanta. Bisogna sottolineare anche che, a livello della critica testuale, i targum sono le versioni meno capite assieme alla Vulgata latina. Forse la cosa più complicata è l’aggettivo “targumico”, che è spesso frainteso. Philip Alexander descrive il targum come “fida interpretatio” e “expositio”, vale a dire fedele traduzione con commento. E questa visione è condivisa dalla maggior parte degli studiosi. I targum presentano una traduzione letterale della Vorlage (testo a fondamento della traduzione), che è il testo premasoretico. Anche nei passaggi con più espansioni il testo originale ebraico è chiaro agli uditori, come nel Cantico di Anna (1Samuele 2, 1-10).
Gli studiosi hanno ravvisato collegamenti tra i targum e la predicazione di Cristo. Nel Nuovo Testamento, infatti, si avverte qualche volta la interpretazione dei targum. Per esempio, quando in Giovanni 6, 32 Gesù dice “Non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero”, si rifà al targum. Per l’appunto in ebraico e aramaico la parola “manna” è femminile, invece il targum dice “il manno” (con articolo e pronome maschili), attribuendolo in questa maniera a Dio Padre. Non solo, ma in Giovanni 1, 51 Gesù dice: “Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e discendere sul Figlio dell’uomo”. Cristo si rifà a Genesi 28, 12: “Gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa”, cioè sulla scala di Giacobbe. Invece il targum dice che gli angeli salgono e scendono su Giacobbe stesso, perché era perfetto e quindi gli angeli volevano vederlo, quindi Cristo si rifà alla interpretazione del targum e la applica non a Giacobbe ma a sé stesso, il nuovo uomo perfetto.
Gli studiosi ravvisano nel Nuovo Testamento anche l’influenza del Talmud. Cristo si collega spesso, più o meno creativamente, all’insegnamento rabbinico di Hillel, che era molto libero nell’interpretazione della Torah. Gesù si rifà anche agli schemi della controversia giudaica (la mahloqet), che si era sviluppata da secoli e trova espressione anche nel Talmud (pensiamo solo alle controversie tra Hillel e Shammai): la mahloqet non è mai chiusa a una singola interpretazione valevole per sempre ma rimane sempre aperta nella ricerca continua della verità.
Non solo, ma la preghiera del Padre nostro (detta da Cristo nel Vangelo di Matteo e poi in una forma breve in quello di Luca) risente del sostrato ebraico, sia del Qaddish (una delle più antiche preghiere ebraiche, redatta in aramaico: “Sia innalzato e santificato il nome del Signore, nel mondo da lui creato secondo la sua volontà. Faccia regnare il suo regno nella vostra vita e nei vostri giorni, e nella vita di tutta la stirpe d'Israele, ora e sempre …”), ma anche del Talmud. Infatti, “dacci oggi il nostro pane quotidiano” richiama la benedizione del pane fatto dal capofamiglia ebreo all’inizio del pasto, ma anche il Talmud (Sotah 48 B). Pure il Discorso della Montagna, che è l’insegnamento fondamentale di Cristo: per esempio “beati quelli che sono perseguitati per la giustizia” richiama Talmud (E. Kamma 93 A) oppure “beati voi quando vi oltraggeranno e vi perseguiteranno” richiama Talmud (Shabbath 118 B). Bonsirven nel 1955 raccolse molti testi rabbinici che gettano una nuova luce sul Nuovo Testamento, a quest’opera rimandiamo per approfondire. Anche se il Talmud venne messo per iscritto dopo la morte di Cristo, tuttavia quegli insegnamenti, per tradizione orale, circolavano già molto tempo prima presso gli ebrei.
Inoltre, la legislazione presente nel Talmud confermerebbe anche vari episodi evangelici, che quindi risulterebbero attendibili storicamente. In Giovanni 18 Cristo viene prima condannato davanti al Sinedrio, ma poi questo organo giudaico si rifiuta di eseguire la condanna a morte del Cristo e rimette la esecuzione a Pilato, il governatore del potere romano, gerarchicamente superiore. Perché gli ebrei, nonostante abbiano condannato Cristo, si rifiutano di eseguire la condanna? Alcuni hanno sostenuto l’impossibilità per via della festa di Pasqua (che avrebbe recato agli ebrei impurità). Altri sostengono che il Sinedrio non poteva condannare a morte nessuno. Però il Talmud gerosolomitano (J. Sanhedrin 7, 2, 24 B) e quello babilonese (B. Sanhedrin 52 B) confermano che il Sinedrio poteva effettivamente infliggere condanne a morte: il rogo della figlia di un rabbino la quale si prostituiva. Quindi per alcuni studiosi il Sinedrio era stato privato della possibilità di condannare a morte soltanto durante la occupazione romana. Questa ricostruzione è confermata dal Talmud gerosolomitano (J. Sanhedrin I, 18 A 43), il quale nota come, durante la occupazione romana, l’organo giudaico non poteva infliggere condanne a morte: il passo in questione ricorda che quaranta anni prima della distruzione del Tempio gli ebrei furono privati della possibilità di eseguire sentenze capitali; quindi il Talmud, collegando l’episodio antico con il presente, osserva che il Sinedrio ai tempi di Rabbi Simeon ben Yohai non poteva emettere sentenze di morte (siamo nel II secolo d.C.), esattamente come avvenne quaranta anni prima della distruzione del Tempio. Questa notazione è presente anche nel Talmud babilonese. Ma Stefano, qualche tempo dopo la morte di Cristo, fu lapidato proprio dagli ebrei. Stefano fu condannato a morte perché riconosciuto colpevole di bestemmia (in conformità a Deuteronomio 17, 7)? Gli storici spiegano l’incongruenza interpretando la morte di Stefano non come esecuzione ordinaria di una condanna bensì come un atto di vendetta della folla, a ben leggere il testo degli Atti (capitolo 7) che lo riporta.
Oggi gli studiosi ravvisano collegamenti anche tra i manoscritti del Mar Morto (che sono scritti in aramaico, ebraico e greco) e il Nuovo Testamento. Per esempio, quando si parla dei “figli della luce” (1Tessalonicesi 5, 5) o quando si dice che la luce splende nel mondo ma le tenebre non la hanno accolta (Giovanni 1), il Nuovo Testamento fa riferimento a espressioni contenute in un noto testo di Qumran, la Regola della guerra tra i figli delle tenebre e i figli della luce. La comunità di Qumran sarebbe stata essena, ma non è provato. Era guidata da un misterioso personaggio definito Maestro di Giustizia, che sulla base di ipotesi fantasiosa sarebbe stato Gesù Cristo oppure Giovanni Battista.
I qumraniani vivevano appartati nel deserto ed era obbligo lo studio della Torah. In 1QS VIII.13-14 è scritto: “Quando in Israele si realizzeranno queste cose per la comunità, in base a queste norme saranno separati dagli uomini dell’ingiustizia e andranno nel deserto per preparare la via a lui, come sta scritto: Nel deserto preparate la via … appianate nella steppa una strada per il nostro Dio (Isaia 13, 13)”. Questa citazione somiglia a Matteo 13: “In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!. Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”.
Nella Palestina dei tempi di Gesù vi era una situazione di plurilinguismo. Il latino era la lingua amministrativa (quella dei dominatori romani), il greco quella della cultura (infatti in greco antico è scritto il Nuovo Testamento); la lingua della liturgia era l’ebraico biblico, mentre gli ebrei colti parlavano nelle occasioni solenni l’ebraico mishnico. Nella quotidianità la popolazione si esprimeva in aramaico. Gli ebrei cambiarono lingua adottando l’aramaico con l’esilio a Babilonia perché al tempo tale idioma era di diffusione internazionale. Proprio per essere capita il più possibile, l’iscrizione sulla croce di Cristo (titulus crucis), che riportava il motivo della sua condanna (“Gesù il Nazareno il re dei Giudei”, Giovanni 19, 20), venne scritta in tre lingue: ebraico, latino, greco. Da considerare che quando i vangeli parlano di ebraico non si riferiscono alla lingua ebraica ma alla lingua parlata dagli ebrei, cioè l’aramaico.
Per l’attendibilità storica del titulus crucis basti considerare le iscrizioni trovate in Palestina, che sono scritte spesso in più lingue. Pensiamo a una iscrizione su di un ossario rinvenuto nel 1902 a Gerusalemme, in una grotta funeraria monumentale appartenente a ricca famiglia giudaica, sul versante nord del monte Scopos, il manufatto non va datato oltre il 70 d.C. Questa iscrizione è in greco e in lingua ebraica:
osta tōn tou Neika-
noros Alexandreiōs
poiēsantos tas thuras (greco)
nqnr ‘lks’ (ebraico).
“Ossa dei (figli) di Nicanore Alessandrino, che ha fatto le porte: Nicanore (e) Alexas”. Si credeva che il defunto esistesse nella tomba finché vi fossero state le ossa, quindi era costume fare una seconda sepoltura spostando le ossa dalla prima sepoltura in un ossario. La seconda sepoltura in ossario era un tipico costume del giudaismo palestinese tra il II secolo a.C. e II secolo d.C. Attestata dal IV millennio a.C. risulta ininterrotta fino all’epoca ellenistico-romana.
Il tipo di aramaico parlato frequentemente in Palestina era quello palestinese (un tipo di aramaico occidentale), quindi era anche la lingua di Gesù Cristo, nello specifico la variante costituita dal dialetto della Galilea. I vari dialetti dell’aramaico palestinese erano tra loro comprensibili anche se doveva esserci qualche differenza. Infatti, in Matteo 26, 69-73, Pietro viene capito ma si fa riconoscere come galileo: “Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una serva gli si avvicinò e disse: Anche tu eri con Gesù, il Galileo! Ed egli negò davanti a tutti: Non so che cosa tu dica. Uscito verso l'atrio, lo vide un'altra serva e disse ai presenti: Costui era con Gesù, il Nazareno. Ma egli negò di nuovo giurando: Non conosco l'uomo. Dopo un poco, i presenti gli si accostarono e dissero a Pietro: Certo anche tu sei di loro; la tua parlata ti tradisce!”.
Probabilmente il dialetto aramaico della Galilea doveva presentare affievolimento delle laringali, tanto che non erano ben pronunciate, quindi non venivano facilmente capite da chi non fosse galileo. È nota la barzelletta, narrata nel Talmud (‘Erubin 53 B), del galileo che vuole comprare ‘emar da un giudeo e si sente rispondere: “Stupido galileo, cosa vuoi, un asino (ḥamor) da cavalcare, o vino (ḥamar) da bere, o lana (‘amar) da indossare, o un agnello (‘immar) da sacrificare?”.
Nel Nuovo Testamento compaiono alcune espressioni direttamente aramaiche, alcune delle quali sono quelle pronunciate da Gesù (ipsissima verba Jesu). Per esempio in Marco 7, 34 Cristo dice “Apriti!”, in aramaico ‘effathà, che è un imperativo della forma Hitpa del verbo “aprire”. Del resto quando nel Targum di Isaia 42, 7 si tratta di aprire gli occhi ai ciechi, il profeta usa la forma Pa’el il cui riflessivo e passivo è appunto Hitpa’al. Tecnicamente quando si parla di “aramaico biblico” si fa riferimento a quello dei libri dell’Antico Testamento e non alle parole aramaiche nel Nuovo Testamento.
Generalmente i libri della Bibbia sono una tradizione che cresce, si formano nel tempo grazie al contributo di autori umani che si succedono. Questo avviene anche nel libro di Daniele, che ci è giunto in tre lingue (aramaico, ebraico, greco). Gli studiosi ipotizzano questa storia testuale per giustificare la redazione in tre lingue:
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Verso la fine del III secolo a. C. si produsse una collezione di racconti che si trovano nei capitoli 4-6 sulla base delle storie in aramaico che circolavano su Daniele già verso la fine dell’esilio;
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All’inizio del II secolo a.C. la raccolta viene ampliata con altri racconti in aramaico: capitolo 3 (la preghiera dei tre giovani che si affidano a Dio), capitolo 2 (la fine dei poteri terrestri), la visione del capitolo 7 (la sovranità della nuova umanità);
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Poco dopo i primi decenni del II secolo a.C. viene aggiunto in ebraico il racconto della visione, che tematizza la fine imminente del male (capitolo 8) e la nuova identità del popolo di Israele (capitolo 1);
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All’inizio dell’era maccabaica (164-163 a.C.) fu aggiunta in ebraico una rilettura teologica della storia contemporanea (capitoli 9-12). Si è formato così il testo premasoretico di Daniele 1-12 conosciuto dai frammenti di Daniele a Qumran;
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Già all’inizio del I secolo a.C. si ha una versione greca del libro di Daniele che riproduce il testo aramaico-ebraico in un modo letterario. Furono integrati qui la preghiera di Azaria (3, 24-45) assieme all’inno di lode dei tre compagni (3, 46-90). Questa versione greca è conosciuta come G. Infine, una versione della storia di Susanna (capitolo 13) e la storia di bel (capitolo 14, 1-22) con l’episodio di Daniele che uccide il drago (14, 23-42) sono integrate nella versione greca. Esisteva un’altra versione di Daniele 13-14 che fu dopo integrata nella versione Th.
Esistono due versioni greche che hanno una importanza speciale per Daniele. La prima è la G (Old Greek) del I secolo a. C. probabilmente redatta ad Alessandria. La seconda versione è quella di Teodozione (sigla Th), che è una rivisitazione di G sulla base del testo premasoretico già nei primi secoli d.C.
Tra le versioni diverse si riscontrano differenze e varianti. Facciamo due esempi. In Daniele 1, 20 si dice nel testo ebraico: “e ogni argomento di saggezza di comprensione”. Questa catena costrutta è formata da due stati costrutti: il primo è “ogni argomento di saggezza” e il secondo è “di saggezza di comprensione”. Come si vede la sintassi è dura, quindi i filologi intendono la lezione come difficile, quindi originaria. Le versioni parallele cercano di sciogliere la sintassi, infatti per esempio la versione G presenta “e in ogni argomento, riguardante sia saggezza sia comprensione”, ma andamento analogo lo hanno anche Th, la versione siriaca e la Vulgata. Quindi per il testo originario di Daniele, quello in cui compare in ebraico la catena costrutta, la saggezza è più importante della comprensione (chokmat binah: saggezza di comprensione), mentre le altre versioni cercano di porre saggezza e comprensione sullo stesso piano. Certamente per il mondo ebraico la saggezza aveva a che fare con la Sapienza di Israele, mentre la comprensione è una qualità che specifica la Sapienza, che quindi ha il primato.
Tra i frammenti di Qumran sono stati rinvenuti 8 testi di Daniele aramaico-ebraico (datati tra I a.C. e I d.C.):
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2 con un testo molto vicino a quello masoretico (1QDanB e 4QDanD);
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3 con letture differenti dai testi altrimenti conosciuti (4QDanA, 4QDanB, 4QDanC);
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3 non allineabili per le loro condizioni materiali (1QDanA, 4QDanC, 6QpapDan).
In Daniele 8, 3 il testo ebraico ha “un ariete” (echad, “uno”), tradotto così da Th, dalla Vulgata e dalla versione siriaca, mentre 4QDanA e 4QDanB assieme a G hanno “grande” (gadol). Si tratta di un ampliamento? Di un errore di lettura di echad?
Ricordiamo che il libro di Daniele non è accettato dagli ebrei, forse perché scritto anche in greco. Nel mondo giudaico esistevano le traduzioni, come abbiamo visto, ma per gli ebrei più conservatori non era buona cosa, specie in una lingua non giudaica come il greco. Talmud (Qiddushin 49 A): Rabbi Giuda diceva che “colui che traduce letteralmente un versetto è bugiardo. Colui che vi aggiunge è un bestemmiatore”.
Gli ebrei, tra gli altri libri, non accettano nemmeno il Siracide. Questo libro ci è pervenuto intero solo in greco, in seguito sono stati scoperti manoscritti ebraici che ci rendono il testo originale per due terzi. Gli studiosi non smettono di analizzare la versione ebraica e i rapporti con quella greca. Il libro del Siracide è diventato un pascolo per studiosi. Nei manoscritti ebraici ci sono tra loro molte varianti, cosa che fa pensare a ben due forme testuali del libro: una prima breve (composta da Ben Sira attorno al 180 a.C.) e una lunga (I a.C.-I d.C.). Di questi problemi se ne è occupato anche Asensio. La forma lunga (Ms. A) si caratterizza per molti doppioni e molte aggiunte. Per esempio il Ms. A possiede questo testo (4, 19): “Se si allontana, lo rifiuterò e lo castigherò con catene. Se si allontana da me, lo caccerò via e lo consegnerò ai devastatori”. Ora questo testo ebraico ha due stichi, invece il testo greco, quello latino e quello siriaco hanno un solo stico: “Se si smarrisce, essa lo abbandonerà e lo consegnerà nelle mani della rovina”. Quindi il Ms. A ha un doppione e si differenzia molto dalla resa delle altre versioni, che probabilmente sono più antiche e più fedeli all’originale ebraico (quello della forma breve).
Anche il testo greco ci è pervenuto da manoscritti che hanno due forme, una breve (traduzione del nipote di Ben Sira fatta tra il 132 e il 117 a.C.) e una lunga (aggiunte successive fatte dalla scuola di Aristobulo, I-II d.C.). Del testo greco del Siracide se ne è occupato anche Bussino. Per quanto riguarda il siriaco del Siracide, abbiamo la traduzione siriaca Siroesaplare del VI secolo (basata sul testo greco di Origene: la forma lunga) e poi la traduzione siriaca della Peshitta del III-IV secolo (di origine discussa).
All’inizio Gesù Cristo predicava spesso nel tempio e nelle sinagoghe degli ebrei, e non ha lasciato nulla di scritto. Sono i suoi discepoli ad avere raccolto gli insegnamenti e redatto in greco la sua vita nei vangeli. Tuttavia le chiese orientali sostengono che i vangeli sono stati scritti dapprima in aramaico e solo dopo tradotti in greco. Una testimonianza storica dice che Matteo scrisse il suo vangelo in aramaico. Lo testimonia Papia, vescovo di Hierapolis di Frigia che produsse attorno al 130. La sua testimonianza è riportata da Eusebio di Cesarea: “A proposito di Matteo, (Papia) dice queste parole: Matteo dunque mise per iscritto in lingua ebraica i discorsi di Gesù …”. I filologi osservano che Ebraidi dialektōi al tempo di Papia, ma anche prima, non significava “in lingua ebraica” ma “nella lingua degli ebrei”, quella parlata da loro, quindi l’aramaico.
Comunque sia gli studiosi rintracciano nei vangeli in greco possibili calchi dall’aramaico, siano essi presenti solamente perché l’aramaico era la lingua di Cristo, oppure perché i vangeli vennero scritti originariamente in aramaico, oppure perché gli agiografi pensavano secondo le categorie semitiche e quindi riflettevano nel dettato greco la mentalità originaria. Per via di questa ultima possibile spiegazione, nel Nuovo Testamento compaiono anche calchi dall’ebraico. Non dimentichiamo poi che il greco del Nuovo Testamento è modellato su quello delle traduzioni greche della Bibbia ebraica, quindi gli ebraismi possono spesso così giustificarsi. Secondo Carmignac, i calchi dall’ebraico sono così importanti e frequenti da far pensare all’ebraico come alla lingua originale dei vangeli.
Per alcuni esempi assai notevoli di aramaismi rimandiamo al saggio illuminante di Black. Noi qui facciamo questo esempio. Nelle lingue semitiche abbiamo lo stato costrutto, una costruzione genitivale per cui mentre in italiano diciamo “la casa di Pietro”, in aramaico giustapponevano senza preposizione due sostantivi, quindi dicevano “casa Pietro”. Chi scriveva (o semplicemente parlava) in aramaico non sentiva la necessità di inserire un articolo in uno stato costrutto, cosa invece che avveniva in greco. Quindi in Matteo 12, 42 abbiamo in greco basilissa Notou, “regina del Sud”, senza articolo, mentre la forma più corretta in greco sarebbe stata con articolo: “basilissa tou Notou”.
Per approfondire la questione dei semitismi nel Nuovo Testamento rimandiamo anche allo studio di Garbini (2017). Attingiamo da Garbini questo esempio. In Luca 3, 8 è scritto: “Non cominciate a dire fra voi stessi: Abbiamo Abramo per padre; vi dico infatti che Dio può generare figli ad Abramo da queste pietre”. Garbini osserva questo:
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Vi è un gioco di parole possibile solo in aramaico (o ebraico), tra “figli” (banin) e “pietre” (‘abnin);
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Che Luca abbia attinto a un testo aramaico è confermato anche dalla chiusa del racconto (4, 13) dove si dice che il diavolo “si allontanò da lui (cioè da Gesù) fino al tempo fissato” (in greco achri kairou: letteralmente “fino al tempo”, fissato o opportuno). I teologi hanno speso tante parole per definire questo tempo particolare, soprattutto per il fatto che in greco l’espressione non ha molto significato. Ma si spiega in aramaico. Si tratta, infatti, del calco della espressione aramaica ‘ad zeban, che con il nome allo stato assoluto è un avverbio che significa “momentaneamente”.
Dal canto loro Blass e Debrunner ricordano che, mentre Matteo 24, 51 presenta la lezione “e lo farà a pezzi e disporrà la sorte di lui con gli ipocriti, metà tōn upokritōn” (cioè gli farà fare la stessa sorte degli ipocriti), invece Luca ha 12, 46 ha “lo farà a pezzi e disporrà la sorte di lui con gli infedeli, metà tōn apistōn”. Probabilmente Matteo e Luca citavano una stessa frase di Cristo pronunciata in aramaico, infatti solo in questa lingua la parola ḥnpjn significa sia “ipocriti” sia “infedeli”, solo che Matteo gli diede in greco un significato, Luca un altro.
Moulton, Howard e Tourner ricordano tra gli aramaismi dei vangeli: la costruzione perifrastica con il verbo essere (Luca 24, 32: quando i discepoli a Emmaus sentivano spiegare da Cristo risorto il vangelo, “il cuore nostro era ardente”, ē kardia ēmōn kaiomenē ēn), l’uso del verbo “iniziare” (Luca 15, 14), il frequente uso del verbo “togliere” (Luca 6, 42), il plurale attivo impersonale (Luca 8, 12: “poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché non credano e si salvino”, dove i plurali esprimono una chiara azione impersonale). La particella de dell’aramaico, che è pure relativa, veniva tradotta in greco anche con oti. Quindi in Luca 8, 25 abbiamo: “Chi (tis) è costui (outos) che (oti) comanda ai venti …”. La particella greca oti è relativa, questa funzione si spiega come traduzione della particella aramaica de.
Zolli fa una proposta assai interessante. Gesù Cristo il Nazareno viene oggi comunemente inteso come Gesù Cristo proveniente da Nazaret. Per Zolli indicherebbe invece la predicazione di Cristo, il suo particolare comunicare un lieto annuncio. Spieghiamo l’argomentazione di Zolli partendo però da una premessa.
La parola “vangelo” deriva dal greco euanghelion, nel senso di “buona notizia”, “buon annuncio”, dove il prefisso greco eu- può significare anche “bello”, “piacevole”.
Cosa era la bellezza per gli ebrei e i primi cristiani? In Genesi 1, 31 alla fine della creazione si dice che quanto fatto da Dio era “molto buono”, tob me’od, una forma superlativa in cui me’od, “assai”, rafforza l’aggettivo tob, “buono”, quindi “buonissimo, assai buono”. La parola ebraica tob significa sia “bello” sia “buono”. Per l’antico ebreo il campo estetico e quello etico si sovrappongono, e qualcosa del genere avviene anche con il greco kalòs, allo stesso modo “bello” e “buono”. Ciò che è bello, esteticamente ordinato, simmetrico, preciso, corrisponde a ciò che è eticamente giusto e interiormente perfetto. Ricordiamo altresì la kalokagathia (essere belli e buoni) dell’aristocratico greco, per cui la perfezione esteriore è simmetrica alla perfezione interiore. Ma per gli ebrei abbiamo a che fare anche con un concetto squisitamente religioso. I primi tre capitoli della Genesi vengono messi per iscritto ad Alessandria d’Egitto quando gli ebrei passarono dalla monolatria (YHWH, il dio biblico, è il più importante degli dei) al monoteismo (YHWH è l’unico Dio). Pertanto il bello e il buono rimandano entrambi, in ultima istanzia, a Dio come alla vera garanzia dell’intero sistema dei valori. Il mondo armonioso e ordinato poggia sulla esistenza del Dio personale. La traduzione greca della Settanta rende l’aggettivo ebraico tob con kalòs proprio perché anche l’aggettivo greco ha la duplice valenza che abbiamo visto, mentre l’aggettivo greco agathòs è sbilanciato verso il significato della perfezione interiore, quindi significa “buono”, “perfetto”.
Nel capitolo 3 Qoelet enumera 14 contrapposizioni: c’è un tempo per nascere e uno per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare, e così via. Queste contrapposizioni vogliono racchiudere l’intera vita umana (dicendo i due opposti l’antico ebreo voleva dire tutto quanto). Si tratta di una somma di eventi espressi dalla parola ebraica chet, che indica un tempo delimitato, un evento per l’appunto. La vita è una somma di fatti, di occasioni, i quali sono stati dati da Dio all’uomo per affannarlo, dice il sapiente biblico. Ma “tutte le sue (di Dio) opere sono belle (yafeh) nel loro tempo (chet)”, versetto 11. Qui il Qoelet si annoda alle opere della creazione della Genesi chiamandole “belle”, affascinanti” (pur cambiando aggettivo ebraico), ma è una illusione perché sono hebel, “vuoto”, “vanità”, come tutte le cose, quindi servono solo per affannare l’uomo. Tuttavia Dio ha posto nel cuore umano “anche il senso dell’eterno (cholam)”, sempre versetto 11: cholam indica il tempo che non ha né inizio né fine, veicola anche il significato di compiutezza, di perfezione. Quindi Dio ha posto nel cuore dell’uomo una scintilla della perfezione di Dio di modo che l’essere umano possa intuirla ma “senza che riesca ad afferrare l’inizio e la fine della creazione divina”. “Inizio” e “fine” sono una coppia di opposti che indicano totalità, cioè il senso ultimo della creazione divina, che è per l’appunto perfetta, ma impossibile da capire per l’uomo.
Quindi per il Qoelet la creazione di Dio ha un duplice aspetto. È fatta di momenti affascinanti, belli ma che si disperdono con facilità, quindi servono solo ad affaticare l’uomo, sono hebel, “vuoto”, “vanità”, “illusione”, “fumo” che si disperde in fretta. Ma Dio esiste, pertanto il senso della creazione (inizio/fine) esiste, esso è cholam, cioè la perfezione, come lascia intendere la Genesi, tob me’od. Tuttavia l’uomo, con la sua fragile mente, non può afferrare il senso del tutto, il senso più profondo di questa creazione perfetta, nonostante Dio gli abbia concesso qualche intuizione, qualche vago presagio di senso.
Pertanto la creazione è armoniosa e perfetta, ma lo è anche Dio. Nel Salmo 27, 4 si parla del contemplare la “bellezza di Dio”, be-nocham YHWH. Il termine ebraico nocham significa propriamente “soavità”, “dolcezza”, “gentilezza”, “amabilità”. Genesi 49, 15 pone un parallelo con tob: “E vide che il risposo era buono (tob), e che il paese era nchm (“ameno”, “bello”). Forse la radice nchm ha il senso etimologico di “cantare” (in aramaico nechimta significa “melodia”), ma altri non sono d’accordo, assegnando al senso di “cantare” una radice simile. Il verbo ebraico nchm compare anche in Cantico dei Cantici 7, 7: “Quanto sei bella e quanto sei graziosa (nachamet), o amore, piena di delizie!”. Ravasi osserva che questa radice è tipica in ugaritico per indicare il fascino della coppia: al re Keret, all’eroe Aqihat, all’amata del re Keret e contemporaneamente alle dee dell’amore ‘Anat e Astarte. Gli dei “graziosi” (nchm) sono appunto una titolatura cananea collegata al rituale dell’amore sacro.
Parafrasando Tommaso d’Aquino (una prova dell’esistenza di Dio), possiamo dire che se il creato è bello, lo deve essere anche il Creatore. E quindi Gesù Cristo, che per i cattolici è vero Dio e vero Uomo: come si professa nel Credo, Dio da Dio, Luce da Luce. Ed è interessante che la parola YHWH e la parola Yeheshuah (Gesù in ebraico) hanno le stesse consonanti con l’aggiunta della lettera SH. Il Vangelo di Giovanni (al capitolo 10) chiama il “buon pastore” con l’aggettivo greco kalòs, “buono/bello”. Della bellezza anche fisica di Cristo ci informa forse una donna anonima: “In quel tempo, mentre Gesù parlava alle folle, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” (Luca 11, 27). Come sarà stata la predicazione di Gesù? Quanta bellezza, fascino e splendore divino dovevano irradiare le sue parole e le irradiano tuttora nonostante siano passati due millenni!
Ora, torniamo a Zolli. Il verbo greco corrispondente al sostantivo euanghelion è euanghelizein, il quale ha come base più prossima il verbo aramaico baser, “annunciare”, che nella letteratura talmudica significa per l’appunto “dare un annuncio”. Quando Luca 9, 11 una sola volta scriveva che Gesù “parlava (in greco: elalei) a loro del Regno di Dio”, Zolli si chiede quale verbo aramaico aveva in mente Luca. Certamente la predicazione di Cristo, rivolta in genere alle masse poco colte di allora, non doveva essere sul tipo di quella rabbinica teologica (haggadica) né normativa (halakica), vale a dire minuziosa e tendenzialmente elitaria, bensì una esposizione a voce alta, sonora, piacevole, della lieta novella che i tempi sono compiuti, insomma una forma di eloquenza declamatoria, riservata ad un pubblico quanto più esteso possibile. L’unico termine aramaico che indicava questa oratoria diremmo popolare era netzar, da cui sarebbe derivato il titolo di Nazareno. Poi già la chiesa primitiva lo avrebbe confuso con il nome della cittadina di Nazaret.
Connolly osserva che nel Vangelo di Luca ci sono tracce anche dell’aramaico della Siria (siriaco), regione dalla quale proveniva Luca. In Luca 14, 18 è scritto: “Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi”, dove “uno dopo l’altro” è la traduzione del greco apo mias, sintagma considerato unico nella letteratura greca, ma che si spiega benissimo come calco dell’aramaico di Siria men hedha, “da uno”, con il senso di “immediatamente”, “subito”.
Secondo una ipotesi, suffragata dalla letteratura cristiana antica (ma non canonica), Pietro fu eletto da Cristo come il rappresentate nella chiesa essoterica, invece Giacomo molto probabilmente fu il primo rappresentante della chiesa segreta, esoterica, cioè iniziatica, quella chiesa definita giudeo-cristianesimo o esseno-cristianesimo, che secondo alcuni avrebbe detenuto gli insegnamenti più riservati, quelli non aperti a chiunque. Lo stesso Cristo lasciava intendere più volte nei vangeli che esisteva una conoscenza misteriosa, che egli non proclamava a chiunque. “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi” (Matteo 7, 6). Per Guénon ogni religione avrebbe un aspetto essoterico e un aspetto esoterico. In India è conosciuto il detto: “I Veda temono l’uomo di scarsa conoscenza, poiché potrebbero riceverne dei danni”, bibhetyalpashru-tād-Vedo mām-ayam praharishyate.
Per alcuni studiosi il giudeo-cristianesimo, vale a dire il cristianesimo portato avanti dagli ebrei che credevano in Cristo, è stato una gnosi.
Lo gnosticismo è un movimento pagano difficilmente inquadrabile e spiegabile. All’inizio del cristianesimo la gnosi era parte della dottrina ortodossa, come emerge da Clemente Alessandrino (Stromata VI 7m 61,1: la gnosi è la conoscenza perfetta, la più importante, rivelata dal Figlio di Dio) e da Origene. Anche Paolo (2Corinzi 11, 6) si dice “profano nell’eloquenza, non lo sono però nella gnosi”.
Certamente si può discutere a lungo sulla reale esistenza nel cristianesimo dello gnosticismo, molti studiosi ritengono che la Filocalia, testo assai importante per i cristiani ortodossi orientali, sia una derivazione delle dottrine pagane, tramite l’esicasmo, un cristianesimo iniziatico dal sapore gnostico.
Non tutti accettano queste tesi, specie i cattolici, per i quali lo gnosticismo entro il cristianesimo è stato semplicemente una eresia e se i Padri hanno accettato quelle dottrine è per via del contesto storico, non certo per una verità sostanziale, come quando nell’Antico Testamento si credeva che il sole girasse attorno alla terra. Allo stesso modo rigettano la divisione tra Pietro e Giacomo in seno alla prima comunità cristiana, tuttavia confermata dai vangeli apocrifi e oggi riproposta dal qumranologo Eisenman. Altri ancora distinguono all’interno del cristianesimo tra una gnosi ortodossa e una gnosi eretica.
I giudeo-cristiani rispettavano tutte le prescrizioni della Legge mosaica contenute nella Torah (circoncisione, tabù alimentari, Shabbat, preghiera e festività bibliche, e così via). La loro liturgia era in aramaico, la lingua del Maestro, con acclamazioni in ebraico. Oggi si dice che i maroniti parlino ancora la lingua di Cristo, ma è una inesattezza, infatti nella loro liturgia adottano il siriaco, che è un dialetto aramaico orientale, e non l’aramaico palestinese di Galilea, che era un dialetto aramaico occidentale.
I confini tra giudaismo e cristianesimo sono stati costruiti e imposti, non c’erano all’origine. Oggi gli studiosi ritengono che il giudaismo rabbinico e il cristianesimo non sono semplicemente due esiti del giudaismo più antico, come due rami che si dipartono dallo stesso tronco, come si pensava in passato. Il problema è assai più complesso. Invece secondo la patristica, ad un certo punto il cristianesimo ha sostituito Israele diventando il Nuovo Israele. Anche questa lettura non è storicamente esatta, ma è stato uno dei grossi temi della polemica tra giudei e cristiani almeno da Giustino in poi. Si tratta di due schemi genealogici: in entrambi l’ebraismo è il padre e il cristianesimo è il figlio, vale a dire che sarebbe stato prodotto in seno al primo. Altri propongono invece uno schema ondulatorio o delle interferenze, per il quale non che una entità cristianesimo uniforme derivi da una entità giudaismo uniforme differenziandosi da esso in un momento preciso bensì il cristianesimo sarebbe nato dalle differenti scelte identitarie di gruppi assai eterogenei tra loro, una sorta di grande calderone eterogeneo senza confini precisi che si unifica solo in un secondo momento (così come sarebbe successo in qualche modo con il giudaismo rabbinico). Questa realtà complessa senza confini precisi è il giudeo-cristianesimo, che oscilla tra due estremi: da una parte abbiamo Marcione (il quale riteneva che Cristo fosse completamente nuovo, che niente avesse a che fare con l’ebraismo) e dall’atra abbiamo la visione ebraica antica (Gesù era semplicemente un rabbino ebreo), in mezzo abbiamo tante realtà autonome o quasi che la pensavano a modo loro. Queste due visioni estreme si unificano molto tardi, non prima del IV secolo, periodo nel quale l’Impero diventa cristiano e codifica gli apporti delle diverse correnti in una religione autonoma.
Riguardo al siriaco, c’è anche una curiosità filologica. Le versioni siriache della Bibbia sono assai autorevoli, per via dell’antichità e della fedeltà all’originale (anche se a volte presentano problemi di resa in quanto non distinguono tra aoristo e perfetto del greco). Quelle che traducono tutto o in parte il Nuovo Testamento sono cinque: Vetus Syra, Peshitta, Philoxeniana, Harclensis, quella siro-palestinese.
Alcuni manoscritti della versione detta Vetus Syra che traducono i vangeli, presentano un siriaco con molte affinità con l’aramaico palestinese. Questo fatto ha portato alcuni studiosi a ipotizzare che i vangeli siano stati scritti originariamente in aramaico palestinese, e solo dopo tradotti in greco (nel testo con cui ci sono pervenuti): i traduttori siriaci si devono essere basati su questo originale. Però secondo altri è possibile anche che i traduttori siriaci si siano basati non su un ipotetico originale aramaico bensì su traduzioni aramaiche dell’originale greco le quali non ci sono pervenute.
Tra i filologi c’è anche chi sostiene che la traduzione siriaca detta Peshitta sia la più vicina al testo originale del Nuovo Testamento. Si tratta di una versione assai rilevante, nota con oltre 350 manoscritti, parecchi dei quali risalgono al V e al VI secolo. Questi studiosi richiamano svariati fenomeni strani in greco ma che si spiegano benissimo con il siriaco della Peshitta. È noto tra gli studiosi un passo, Romani 5, 6-7: “… al tempo stabilito Cristo morì per gli empi, Ora, a stento uno è disposto a morire per un giusto”, che nel testo greco suona kata kairon uper asebōn apethanen. Molis gar uper dikaiou tis apothaneitai. Paolo instaura una contrapposizione tra “empi” (asebōn) e “giusto” (dikaiou). Ora, la Peshitta presenta per “empio” la parola rashey’a, che è molto simile a quella per “giusto”, reshyana. I filologi sospettano che qualcuno abbia letto male il testo siriaco e, confondendosi, abbia aggiunto la parola “giusto” in greco oppure che il siriaco rispecchi una parola presente nell’originale aramaico ma letta male dal traduttore greco.
Un’altra espressione strana in greco è Luca 12, 49: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e quanto desidero che già fosse acceso”, kai ti thelō ei ēdē anēfthē. Ma la Vetus Syra ha un testo parallelo, dove compare la particella aramaica ma (per ti), che in siriaco ha valore esclamativo, e poi compare ellu (per ei), usata per introdurre una desiderativa. Quindi si traduce: “E come vorrei che fosse già stato appiccato”. La versione siriaca sembra la più scorrevole, mentre il testo greco sembra involuto.
Il problema va affrontato anche relativamente alle Fonti. I vangeli hanno avuto una storia redazionale in quattro tappe:
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Predicazione di Gesù Cristo;
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Si instaura una tradizione orale che tramanda la vita di Cristo e le sue parole;
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Autori anonimi mettono per iscritto parte della tradizione orale, quindi si formano testi scritti (detti Fonti) riguardanti solo alcuni fatti di Cristo;
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Un singolo evangelista raccoglie alcune di queste Fonti e le assembla in un unico vangelo.
Pertanto è possibile che le Fonti siano state scritte in aramaico, quindi il singolo evangelista le abbia tradotte in greco nell’atto di redigere il suo vangelo. Oggi si parla molto della Fonte Q, che sarebbe quella che avrebbero usato i sinottici. Secondo una teoria, il Vangelo di Marco sarebbe il più antico e sarebbe servito da modello per Matteo e Luca, ma il materiale presente in Matteo e Luca ma non in Marco deriverebbe dalla cosiddetta Fonte Q. Numerosi indizi fanno supporre che la Fonte Q sia stata redatta originariamente in aramaico.
La Bibbia è piena di problemi archeologici, storici, linguistici, filologici, letterari, teologici, ed è quindi oggetto continuo dello studio degli esperti. Non si finisce mai di conoscere la Bibbia. Il teologo siriaco Afraate, morto verso il 345, alla fine della sua Decima Dimostrazione scriveva: “Dovresti impegnarti a leggere i libri che sono annunciati nella chiesa di Dio”. Ma l’originale siriaco è più pregnante: “dovresti impegnarti a leggere” è in siriaco wahmayt ‘amel lmeqra’, espressione formata dal verbo ausiliare hwa a cui segue un participio, ove il verbo ausiliare indica un dovere, una necessità, una costrizione, mentre il participio indica iteratività. Una traduzione più fedele potrebbe essere: “Devi per forza sforzarti di continuo di leggere la Bibbia”.
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