Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
La letteratura e le lingue
Prima parte
di Marco Calzoli - Settembre 2023
Si parla di letteratura nei modi più diversi. La prima domanda da porre per capire lo studio letterario riguarda la definizione che esso dà del proprio oggetto di studio: il testo letterario. Che cosa rende questo studio letterario?
Usiamo l'aggettivo letterario e il sostantivo letteratura senza problemi, cioè senza chiederci cosa è letterario e cosa non lo è. Ma già Aristotele osservava che non esiste un termine generico per indicare contemporaneamente i dialoghi socratici, i testi in prosa e la composizione in versi. Il termine “letteratura” è nuovo (risale al xix secolo; prima la letteratura erano le iscrizioni, la scrittura, l'erudizione o la conoscenza delle lettere) ma non ha risolto il problema. Barthes aveva rinunciato a una definizione per accontentarsi di: "La letteratura è ciò che si insegna, punto e basta.". Si tratta di una tautologia. Ma "la letteratura è solo letteratura?" ossia "La letteratura è ciò che si definisce qui e ora letteratura?" Goodman ha proposto di sostituire la domanda "Che cosa è l'arte" con la domanda "Quando è arte?" Non si potrebbe procedere allo stesso modo con la letteratura?
Per definire lo studio letterario, bisogna definire la letteratura, ma qualunque definizione non equivale all'enunciazione di una norma extratestuale? L'aporia deriva dalla contraddizione tra due punti di vista: uno contestuale (storico, psicologico, sociologico, istituzionale) e un punto di vista testuale (linguistico). La letteratura è sempre in mezzo a un approccio storico e a uno linguistico, che sono tra loro irriducibili. Negli anni Sessanta si è sviluppata una lotta tra i fautori di una definizione esterna e fautori di una definizione interna di letteratura. Genette, giudicando sciocca la domanda "che cos'è la letteratura?", suggerisce di distinguere due regimi letterari: un regime costitutivo, garantito da convenzioni, quindi chiuso; e un regime condizionale, aperto, che dipende da un giudizio revocabile.
Nel senso più ampio è letteratura tutto ciò che è stampato o anche scritto. Questa accezione corrisponde alla nozione classica delle belle lettere, che comprendeva tutto ciò che la retorica e la poetica potevano produrre. Ma così intesa, come equivalente della cultura, la letteratura perde la sua specificità: le viene negata la qualità propriamente letteraria. All'interno dell'insieme la letteratura troneggiava al centro e lo studio della letteratura era la via maestra per comprendere la nazione.
Il significato moderno di letteratura è inseparabile dal Romanticismo, ovvero dall'affermazione della relatività storica e geografica del gusto, in contrapposizione alla dottrina classica dell'eternità e dell'universalità del canone estetico. La letteratura viene concepita con la storia della nazione. Ancora secondo il Romanticismo la letteratura sono i grandi scrittori. Il canone classico era formato da opere modello destinate ad essere imitate. Si passa da una letteratura del punto di vista degli scrittori (le opere da imitare) a una del punto di vista dei professori (gli uomini degni di ammirazione). Tutto ciò che è stato scritto da grandi scrittori appartiene alla letteratura. Si genera una nuova tautologia: la letteratura è tutto ciò che gli scrittori scrivono.
Identificare la letteratura con il valore letterario vuol dire negare il valore degli altri romanzi e degli altri generi del verso e della prosa. Il giudizio di valore si fonda su un’esclusione. Il restringimento istituzionale della letteratura del xix secolo non tiene conto che ciò che si legge è sempre letteratura, e trascura la complessità dei livelli di letteratura. Sarebbe letteratura solo quella colta, non quella popolare. Inoltre il canone dei grandi scrittori non è stabile. La tradizione letteraria è il sistema sincronico dei testi letterari, sistema sempre in movimento. Dopo essersi limitata nel xix secolo, ha riconquistato nel xx secolo una parte di territori perduti. Il termine letteratura ha dunque un'estensione più o meno vasta a seconda degli autori e la sua estensione odierna è difficile da giustificare. Il criterio di valore che vi include un dato testo, ovvero che ne esclude un altro, non è in sé letterario e neanche teorico, ma etico, in ogni caso extraletterario.
Procediamo con la dicotomia funzione e forma, e ci chiediamo Che cosa fa la letteratura? Le definizioni di letteratura in base alla sua funzione sono stabili. Aristotele parlava di katharsis, di purificazione. Poneva anche il piacere di imparare all'origine dell'arte poetica: istruire o dilettare ripreso poi anche da Orazio che dirà che la poesia è dulce et utile.
Secondo tutta la tradizione classica la letteratura è una conoscenza speciale che ha come oggetto ciò che è generale, probabile o verosimile, la doxa, le sentenze che permettono di regolare il comportamento umano. Invece secondo il Romanticismo è una conoscenza che verte su ciò che è individuale. Per l'umanesimo esiste una conoscenza del mondo che ci deriva dall'esperienza letteraria.
"Ogni uomo porta tutta quanta la forma della condizione umana" scrive Montaigne nel Libro III dei Saggi. La soggettività moderna si è sviluppata grazie all'esperienza letteraria, e il lettore è l'esempio dell'uomo libero. Passando attraverso l'altro, raggiunge l'universale: nell'esperienza del lettore "la barriera dell'io individuale in cui era un uomo come gli altri è caduta" (Proust), "io è un altro" (Rimbaud).
Tuttavia questa concezione umanista della conoscenza letteraria è stata denunciata, per il suo idealismo, come visione del mondo di una classe particolare: la borghesia. Infatti il marxismo collega letteratura e ideologia. In un mondo sempre più materialista la letteratura sembrava l'ultimo baluardo contro le barbarie.
Se la letteratura può essere vista come propaganda, si può anche insistere sulla sua funzione sovversiva, vedi figura del poeta maledetto. La letteratura produce consenso, ma anche dissenso, novità. La letteratura anticiperebbe gli altri modi di conoscenza teorici e pratici: gli scrittori hanno visto prima degli altri (veggenti) dove andava il mondo. Il veggente è stato rivalutato nel xx secolo in senso politico, con l'attribuzione alla letteratura di una perspicacia politica e sociale di cui le altre pratiche sarebbero prive.
Dal punto di vista della funzione emerge un'aporia: la letteratura può essere in accordo con la società, ma anche in disaccordo, può seguire il progresso, ma anche precederlo.
Dall'antichità alla metà del xviii secolo la letteratura è stata definita come imitazione o rappresentazione (mimesis) di azioni umane tramite il linguaggio. Come tale che costituisce una favola o un racconto (muthos). Questi due termini compaiono fin dalla prima pagina della Poetica di Aristotele e fanno della letteratura una finzione, o una menzogna, né vera né falsa, ma verisimile: un "mentir-vero".
Poesia come finzione, Aristotele escludeva dalla poetica non soltanto la poesia didattica o satirica, ma anche la poesia lirica, che mette in scena l'io del poeta, e conservava solo i generi epico (narrativo) e tragico (drammatico). Genette parla di una "poetica essenzialista" o ancora costitutivista, "nella sua versione tematica". Per la poesia il modo più sicuro per sfuggire al rischio di dissoluzione nell'uso ordinario del linguaggio è la finzione narrativa o drammatica. Ciò che Aristotele e Genette hanno in mente è lo status ontologico, costitutivo dei contenuti letterari; è quindi la finzione come concetto, non come tema e Genette la chiama del resto fictionalitè e non fiction. Facendo riferimento alle distinzioni del linguista Louis Hjelmslev tra sostanza del contenuto (le idee), forma del contenuto (l'organizzazione dei significati), sostanza dell'espressione (i suoni) e forma dell'espressione (organizzazione dei significati) si afferma che, per la poetica classica, la letteratura è caratterizzata dalla finzione come forma del contenuto, ovvero come concetto o modello. Tuttavia nel xix secolo la poesia lirica prese a occupare il centro della poesia e questa definizione viene meno. La finzione, come concetto vuoto, non era più una condizione necessaria e sufficiente della letteratura, anche se l'opinione corrente vede globalmente la letteratura come finzione.
A partire dalla metà del xviii secolo un'altra definizione si è contrapposta alla finzione, mettendo l'accento sul bello, concepito come avente fine in sé stesso. L'arte e la letteratura rinviano solo a sé; la letteratura trova il proprio fine in sé stessa.
Per molto tempo il versante romantico è stato il più valorizzato: separava la letteratura dalla vita, considerava la letteratura una redenzione dalla vita. La visione della letteratura come riscatto è presente in Proust e in Sartre.
Questa idea ha anche un versante formalista, che distingue il linguaggio letterario da quello comune, o che individualizza l'uso letterario del linguaggio comune. Il linguaggio comune è più denotativo, quello letterario è più connotativo (ambiguo, espressivo). Il linguaggio comune è più trascurato, referenziale e pragmatico il linguaggio letterario è più sistematico, immaginativo ed estetico. La letteratura sfrutta le proprietà del mezzo linguistico senza scopo pratico. Si declina così la definizione formalista della letteratura.
Bisogna anche dire che la letteratura non è un monolite, ma un insieme di influenze reciproche. È ciò che viene detto intertestualità. La letteratura comparata studia le influenze tra le lingue o in ogni modo i modelli simili tra produzioni letterarie molto diverse tra di loro.
Le letterature comparate come ambito di studio sono nate in Francia, l’espressione “littérature comparée” compare per la prima volta in uno studio francese della prima metà dell’Ottocento, mentre alla fine dell’Ottocento in Francia abbiamo l’istituzionalizzazione della prima cattedra di letteratura comparata.
Cosa si fa in questo tipo di studi che nascono in Francia? Essi si producono come studi relativi alle influenze dirette tra autori o tra opere, quelle che la scuola francese di letteratura comparata chiamava ‘rapporti di fatto’. Un esempio è: Baudelaire dichiarava apertamente di essere un grande ammiratore di Edgar Allan Poe, che lo precedeva di alcuni decenni. Baudelaire traduce e studia Poe, articola apertamente la sua ammirazione per Poe. Una serie di caratteristiche della produzione di Baudelaire sono influenzate dalla produzione letteraria dell’autore statunitense, questo è un esempio di rapporto diretto, noto e provato, in quanto Baudelaire conosceva Poe. Questo tipo di rapporto è stato tradizionalmente l’oggetto di attenzione di uno studio classico alla francese.
Le letterature comparate in Francia nascono in ambito positivista, cioè in un contesto di necessità di provare anche nelle scienze umane le influenze e i dati di fatto. Poi però si è passati a studiare anche altro, è iniziata la tendenza a staccare lo studio da questa concezione così fattuale e verso la metà del Novecento lo studio di letterature comparate diventa lo studio di fattori comuni a diversi ambiti linguistici, anche senza una vera influenza diretta, per esempio tra Omero e la letteratura sanscrita.
Ciò che rende la letteratura quello che è, sono le componenti imprescindibili dell’universo letterario: generi letterari, temi, e così via. In questo modo, studiando gli elementi universali della letteratura, la letteratura comparata diventa un discorso sulla letteratura generale. Un tipo di approccio di questo genere non ha interesse a provare dei rapporti di fatto, in quanto è una riflessione a largo raggio su certe categorie comuni, senza la necessità di parlare di influenze dirette. Questo tipo di discorso ha il suo periodo più florido tra gli anni ‘40 e ‘60 del Novecento, che qualcuno chiama Scuola americana.
Le letterature comparate sono diventate un campo che tiene conto di problematiche specificamente inter-culturali, anche nel senso di dialettica delle tradizioni consolidate e l’emissione di voci nuove e diverse, che rivendicano una posizione.
La cultura è il sapere, ed è qualcosa che ci impone per certi versi di studiare certi autori. Il sapere è fondato sulla tradizione e ci si aspetta che tutti noi dobbiamo sapere dunque chi è Dante.
Le letterature comparate sono una disciplina che ha un senso molto forte della tradizione. Rispetto alle rivendicazioni dell’importanza di diverse culture, dell’importanza di istanze nuove, un’altra cosa successa negli ultimi decenni, che le letterature comparate hanno recepito, è la messa in discussione di ogni pregressa distinzione tra cultura “alta” e cultura “bassa”. Da un lato, le letterature comparate studiano la cultura “alta”, però dall’altro lato c’è chi fa anche altro.
In genere, per cultura “alta” si intende tutto ciò che ha una sua dignità, per esempio ciò che viene studiato all’interno delle università ma anche l’Arte (con la A maiuscola). Però in realtà anche prima degli anni Sessanta, cioè da quando si sono cominciate a diffondere una serie di produzioni culturali legate altresì alla circolazione rapida: con la rivoluzione industriale, con l’invenzione di tecnologie (come la fotografia, dischi). Si è quindi consolidata una fascia di produzione culturale che non rientra necessariamente e immediatamente nella cultura considerata “alta” ma che magari ci potrebbe anche rientrare perché produce cose interessanti.
Per esempio la fotografia, che risale storicamente ai primi decenni dell’Ottocento: quando fu inventata non era vista come un’arte. Da un certo punto in poi entra nei musei, inizia ad essere parte anche della cultura “alta” ma la fotografia è anche una tecnologia che sappiamo usare un po’ tutti. Il confronto con un video fotografico è un’occasione - se pensiamo alla fotografia come un continuum che mette insieme le fotografie su Facebook con Sebastião Salgado, Newman, Eugène Atget, oppure tanti altri grandi fotografi, essa unisce vari livelli di cultura: dalla più alta alla più bassa.
Un altro esempio è quello del fumetto, lo studio di quest’ultimo oggi, in alcune parti del mondo, è sviluppatissimo. Il fumetto anche come genere è entrato in contatto con la letteratura in tanti modi, infatti si parla di “graphic novels”. Il “graphic novel” evoca il genere del romanzo, tende alla letteratura.
Oggi con la globalizzazione il confronto tra letteratura diverse è molto più ampio, si parla infatti di letteratura mondiale. Ci sono tre idee diverse a cavallo di un periodo tra la fine dell’Ottocento secolo e la metà del Novecento relative alla letteratura mondiale.
La prima occorrenza di Shìjiè de wénxué, letteratura mondiale in cinese, risale ad una conversazione tra l’intellettuale diplomatico e ambasciatore in Francia dell’epoca Qing, Cheng Jitong e un’altra intellettuale. È la prima occorrenza di un’espressione in lingua cinese paragonabile al tedesco Weltliteratur di Goethe. È un periodo in cui gli intellettuali cinesi si fanno portavoce di istanze di crisi e ripensamento a livello nazionale, e in particolare Chen Jitong dice che per sprovincializzarsi e far entrare la letteratura cinese nell’ambito della letteratura mondiale e migliorare attraverso il contatto con il mondo e rendere più internazionale la loro di letteratura, sono necessarie alcune misure: questo sviluppo in chiave mondiale farà bene anche alla Cina.
Rabindrranath Tagore: siamo nei primi decenni del Novecento. Tagore è un intellettuale Bengalese, siamo in un’epoca in cui c’è ancora una forte presenza coloniale britannica e Tagore parla di letteratura mondiale utilizzando il termine Vishwa Sahitya ed è la resa in Bengali del concetto di letteratura mondiale. Tagore utilizza questo termine in un senso che potremmo definire umanistico. Egli inoltre dice che bisogna promuovere lo spirito dell’umanità e capirsi meglio tra diversi popoli. Per Tagore la letteratura mondiale corrisponde alla letteratura dell’umanità, cioè dell’intero genere umano, anche per promuovere una visione pacifista dei contatti tra diversi popoli e culture.
Questa visione universalistica della produzione umana traspare da un saggio del 1952 sulla letteratura mondiale di Erich Auerbach. Erich Auerbach era tedesco, fu esule prima in Turchia poi negli Stati Uniti per ragioni politiche, nell’epoca pre-seconda guerra mondiale, è considerato uno degli studiosi di letteratura più influenti di tutto il Novecento e anche uno dei fondatori delle letterature comparate.
Gli studi culturali hanno messo in discussione una distinzione netta tra cultura alta e cultura bassa e anche quello può essere visto come un modello di tensione conflittuale.
Alcuni studiosi hanno scritto negli ultimi trenta anni di letteratura mondiale, ricordiamo Pascale Casanova. Essa è stata una studiosa francese francofona che ha pubblicato nel 1999 uno studio che si chiama la Repubblica Mondiale delle Lettere in cui lei afferma che la letteratura è una repubblica, res repubblica, cioè una cosa che non è limitata solo ad una parte del mondo, anche se ha il suo centro a Parigi. Casanova immagina un modello di letteratura mondiale in cui la Francia e Parigi diventano il faro del prestigio letterario a livello mondiale, e le altre letterature si confrontano con questo prestigio e assumono posizioni di maggiore o minore importanza a seconda del loro grado di confronto con questo modello centrale.
Possono essere comparate tra loro non solo le letterature, ma anche le lingue. È il fenomeno delle famiglie linguistiche, per cui alcune lingue discendono le une dalle altre a partire da un capostipite comune. La famiglia lingue indoeuropea (composta da lingue che discendono dall’indoeuropeo: ittita, greco, latino, sanscrito, e cos’ via, tra cui l’italiano, che deriva dal latino). Esiste anche la famiglia afro-asiatica, detta anche camito-semitica, che comprende soprattutto le lingue del Nord Africa e di parte dell’Asia, parlate da 400 milioni di persone. Per esempio, nel Corno d'Africa ci sono lingue cuscitiche, che non sono né camitiche né semitiche, per questo i linguisti preferiscono usare il termine lingue afro-asiatiche e non camitico-semitiche.
Le lingue afro-asiatiche sono:
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Lingue semitiche (accadico, eblaita, ugaritico, ebraico, aramaico, fenicio, punico, arabo, etiopico);
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Lingue camitiche (egiziano, berbero);
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Lingue cuscitiche (come il somalo, che ha molti prestiti dall’arabo; produce una poesia orale basata sull’allitterazione, i generi principali sono: gabay, gerar, sirib, manso. Pensiamo anche all’oromonico, il dialetto più parlato del gruppo cuscitico, usato dagli oromo, la maggiore etnia dell’Etiopia, vessata dal governo);
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Lingue ciadiche (come la lingua masa);
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Lingue omotiche (come la lingua gonga).
Un rilevante problema per lo studio delle lingue afro-asiatiche è che alcune sono attestate da epoche molto remote, sin dal IV millennio (egiziano antico, di poco dopo è l’accadico), mentre altre sono relativamente recenti (per esempio di molte lingue ciadiche mancano descrizioni anche solo sommarie). Su queste basi ogni ipotesi di ricostruzione è molto problematica. Alcuni studiosi negano un capostipite comune sia alle lingue semitiche che a quelle camitiche e alle altre. Per vari studiosi invece il camitico si sarebbe prodotto in epoca preistorica per una semitizzazione di lingue africane assai diverse. Per Vycichl su un sostrato comune (presemitico) si sarebbero in seguito sovrapposti strati differenti di lingue.
C’è anche da dire che le lingue semitiche si basano su radici triconsonantiche, mentre nelle lingue camitiche le radici sono spesso biconsonantiche. Per risolvere tale problema assai spinoso alcuni sostengono che le radici semitiche erano in realtà biconsonantiche e poi si sarebbero ampliate. Invece altri attribuiscono un antico triconsonantismo anche a radici non semitiche (vd. Prasse).
Bisogna altresì osservare come tra le lingue afro-asiatiche ci sono stati prestiti dalle epoche più remote e poi a vari livelli anche in seguito. Per questo è assai difficile stabilire se parole simili sono prestiti oppure vi è una origine comune. Pertanto risulta assai complicato nelle lingue afro-asiatiche stabilire delle leggi fonetiche.
Tuttavia ci sono autori che hanno cercato di dimostrare leggi fonetiche comuni all’intero gruppo afro-asiatico. Orel e Stalbova nel loro Hamito-Semitic Etymological Dictionary ricostruiscono il quadro fonetico del proto-afro-asiatico.
Oggi ci sono due scuole principali per il fonetismo comune a queste lingue:
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La scuola classica (rappresentata per esempio da Vycichl) pone determinate corrispondenze, come quella tra Aleph dell’egiziano (resa dal geroglifico dell’avvoltoio capovaccaio) e la Aleph (colpo di glottide) e anche la L delle altre lingue. In egiziano cuore è detto Ab (che darà in seguito ib), mentre nelle lingue semitiche è leb. È possibile anche una occasionale estensione a R nelle altre lingue. È noto l’esempio per cui bjA dell’egiziano, pozzo, miniera, metallo, trova corrispondenza con b’r del semitico. Un’altra corrispondenza classica è quella tra Ayn egiziana e Ayn delle altre lingue.
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La scuola roessleriana (rappresentata da Roessler), che intrattiene un duro scontro con quella classica, sostiene che la Aleph dell’egiziano corrisponda SOLTANTO con la R delle altre lingue. La Ayn dell’egiziano trova corrispondenza con T/D enfatica del semitico.
Oggi l’orientamento che va per la maggiore è quello di dare ragione alla scuola classica. Per esempio l’egiziano ha moltissime etimologie che si spiegano meglio con la ricostruzione fonetica portata dalla scuola classica. Un autore che rappresenta la rivisitazione della scuola classica nell’egiziano, ma non solo, è Takacs, che si è molto occupato anche dei rapporti tra egiziano e ciadico. Il problema è che Roessler vuole dimostrare che l’egiziano sia una lingua semitica, quindi concentra la sua ricerca sulle lingue semitiche, e questo è un errore, in quanto la ricerca deve estendersi a più lingue possibile per non essere falsata. L’egiziano, inoltre, è nella famiglia afro-asiatica una lingua di per sé alquanto isolata, un po’ come il greco nella famiglia indoeuropea: egiziano e greco hanno spesso parole la cui etimologia che non si spiega con le altre lingue della famiglia (per esempio in tutto l’afro-asiatico padre è ab, in egiziano invece è jat; in greco il lessico del potere e dell’amore non si spiega facilmente con il confronto con le altre lingue indoeuropee). Bisogna anche dire che il proto-afro-asiatico è una lingua di gran lunga più antica del proto-indoeuropeo: la prima si differenzia nelle varie lingue derivate il doppio degli anni prima della differenziazione del proto-indoeuropeo nelle sue lingue derivate, quindi è molto rischioso soprattutto per la famiglia afro-asiatica concentrarsi esclusivamente su una sola lingua o gruppo, come fa Roessler con il semitico per quanto riguarda l’egiziano.
In ogni modo i tratti condivisi senza dubbio da tutte le lingue afro-asiatiche sono:
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L’uso intensivo dell’apofonia (morfologia introflessiva);
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La distinzione di due generi grammaticali;
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Un sistema pronominale comune;
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Alcuni tipi di forme derivate del verbo (per esempio un causativo in S e un passivo-riflessivo in T).
Il cavallo giunse in Africa forse portato dagli hykson in Egitto, comunque era ben conosciuto in Nubia, al su dell’Egitto, nel XVI secolo a.C., e da lì si estese a tutta l’Africa del Nord divenendo entro la fine del penultimo millennio prima di Cristo protagonista indiscusso della vita sahariana e così restò per dieci secoli. Alcuni propongono di vedere in queste genti del cavallo i paleo-berberi. I guerrieri che compaiono nelle antichissime pitture parietali del Sahara possono essere così identificati:
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Ci sono innanzitutto quelle provenienti dal territorio della Mauritania, ove sono rappresentati guerrieri con scudo rotondo e giavellotto, non porta piume in testa né coltello al braccio, possono essere identificati con i predecessori degli attuali guerrieri mauri;
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Nel territorio orientale vi sono dipinti di guerrieri con arco e coltello da getto, oppure una lancia larga del tipo di quelle ancora oggi usate dai guerrieri tebu;
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Abbiamo poi i proto-berberi, nel Sahara centrale e meridionale, armati di uno o più giavellotti, hanno un pugnale al braccio, talora uno scudo rotondo e il capo ornato di piume.
Gli ultimi faraoni dell’antico Egitto furono di etnia berbera. I berberi hanno avuto anche altri grandi rappresentanti, come Apuleio, Tertulliano, Agostino.
Le popolazioni di lingua berbera sono diffuse soprattutto nel Nord Africa a ovest dell’Egitto. Questo alimenta la falsa idea che i berberi, che parlano la loro lingua, siano arabi, per via del mito che i nordafricani sarebbero arabi. Opinione alimentata dal fatto che oggi in Nord Africa i dialetti più parlati sono quelli arabi. Ma il termine con cui si suole denominare questa parte del mondo, “Maghreb”, significa in arabo “occidente”, e indica l’estremità occidentale di un mondo che sta altrove. Basterebbe questo per sfatare l’altra leggenda per la quale i berberi, essendo arabi, si sarebbero insediati in Nord Africa di recente. Ma abbiamo visto dall’esempio delle pitture parietali del Sahara che i berberi si trovavano in Africa molto prima.
Il dialetto berbero più parlato è quello cabila, che è algerino (conosciuto da circa 5 milioni di persone, di cui circa 3 milioni in Algeria, nella zona detta Cabilia, e il resto in emigrazione). Esistono numerose altre varietà dialettali del berbero, se ne stimano 5000. La lingua cabila ha molti sottodialetti, così come anche la lingua tuareg (sud dell’Algeria, Niger, Mali). Altre lingue berbere importanti sono per esempio lo chaoui (Algeria), lo chleuh o tachelhit e il rifino (Marocco).
I berberi adottano la cosiddetta “scrittura libica”, che ha due varianti: una orientale e una occidentale. Oggi è presente solo presso i tuareg, che sono una popolazione berbera del Sahara. I tuareg la chiamano alfabeto Tifinagh, che discende dai più antichi sistemi di scrittura libico-berberi attestati già dal I millennio a.C. Questo alfabeto non ha un verso di scrittura, quindi volendo si può usare anche dal basso all’alto, verso statisticamente molto frequente. I tuareg e le popolazioni del Sud della Mauritania parlano un berbero antico, simile a quello che si parlava 1000 anni fa nel Nord Africa. Anche il maltese è una lingua che risente del berbero, assieme a arabo, greco, latino e italiano. Il berbero è una lingua di solito conservativa, in esso sopravvivono ancora parole egiziane.
I dialetti berberi hanno alcune particolarità. In italiano, per esempio, di solito l’accento segue leggi fonetiche stabili, invece in berbero l’accento è determinato da fattori pragmatici, cioè dipende dal contesto e da cosa il parlante vuole mettere in risalto. Uno degli effetti più frequenti dell’accento è la riduzione a brevissima e sparizione di vocale breve prototonica in sillaba aperta. Di norma i dialetti berberi hanno tre vocali e non presentano consonanti laringali e faringali (che invece sono tipiche dell’’arabo), se queste consonanti sono presenti nei parlanti berberi del Nord è per influsso arabo. Il berbero è una lingua introflessiva, con ordine di parole VSO (Verbo-Soggetto-Oggetto), che si alterna di frequente con SVO. Di norma il verbo berbero ha tre tempi: compiuto, aoristo e imperfetto.
Nel periodo post-coloniale, vale a dire attorno agli anni Sessanta del Novecento, i regimi autoritari del Nord Africa promossero una arabizzazione forzata delle popolazioni, cioè un ritorno autoritario al periodo precedente il colonialismo occidentale. Vi si opposero i berberi a partire dalla Primavera degli anni Ottanta, cercando di resistere. La situazione attuale è che i berberi parlano anche arabo, ma conoscono altresì i vari dialetti berberi. Grossomodo parlano berbero il 40% dei marocchini, il 30% degli algerini, il 10% dei libici, l’1% dei tunisini. Gli algerini continuarono questo movimento fino a tempi recenti, nella Primavera Nera del 2001 ci furono cento morti per le proteste di liberalizzazione della propria cultura. Le proteste hanno ottenuto risultati importanti, tanto che oggi in Algeria il berbero è la lingua ufficiale, assieme all’arabo, come avviene esattamente in Marocco. In buona sostanza la storia recente dei popoli berberi è una storia di richiesta alle autorità di più libertà, è insomma una epopea all’insegna del pluralismo.
La lingua berbera più diffusa e più studiata è quella cabila, detta anche cabilo. I suoni consonantici e vocalici di questo dialetto berbero vengono rappresentati oggi con un alfabeto di 32 lettere a base latina. Le consonanti hanno di norma una pronuncia spirante. In berbero la tensione consonantica è fondamentale: la consonante tesa va pronunciata con forza. Il significato di una parola può essere influenzato dalla differenza di pronuncia tra una consonante semplice e una consonante tesa. La lingua cabila è conosciuta soprattutto per la sua ricchissima letteratura orale. Non ci si deve quindi stupire dell’importanza della prosodia (intonazione) e della linearità (ordine delle parole) in ogni frase: se questi due elementi cambiano, cambia anche il senso dell’enunciato. Il verbo cabilo possiede quattro temi: aoristo (raramente usato da solo, di solito viene adoperato con la particella ad- per indicare il futuro), aoristo intensivo (o incompiuto o imperfetto, che esprime una azione abituale), preterito (o compiuto, o perfetto, che veicola un processo terminato, realizzato), preterito negativo.
La letteratura berbera è assai vasta, conta generi pressoché senza numero. Sono molti anche i metri utilizzati dalla poesia, alcuni si basano sul numero delle sillabe (come nel cabilo), altri sulla quantità delle vocali (come nel tuareg).
Il più grande poeta cabilo moderno è Si Mohand (1848-1905), il quale è legato a un recente genere poetico detto asefru (tre strofe di tre versi ciascuna, ogni strofa è di sillabe 7+5+7). I grandi poeti cabili antichi, cioè quelli tradizionali, erano anche esecutori (ameddaḥ), erano considerati i poeti più importanti, quelli che cantavano cose serie (come coloro che componevano altresì poemi epici religiosi, detti taqsiṭ, oppure sestine di elevazione religiosa, dette dikr, in cabilo adekker). Abbiamo poi i poeti tradizionali cabili minori, ludici, che cantano l’amore e l’allegria, detti iḍebbalen (il genere amoroso, per nulla serio, è denominato izlan, che sarà prolungato in epoca moderna dall’asefru).
Ma la parte più cospicua del patrimonio letterario orale del Nord Africa è costituito dai racconti, quindi anche dalle fiabe. I termini per indicarli variano da regione a regione. In cabilo c’è una differenza tra tadyant (avvenimento passato che viene raccontato) e tamacahut (storia inventata). In tuareg, eni è la narrazione di fatti realmente accaduti e antichi oppure un racconto inventato ma che trasmette un insegnamento, invece amay è un’opera di pura invenzione, da cui non si pretende di ricavare nessuna morale.
Nella letteratura berbera non vi è una netta distinzione tra prosa e poesia, infatti i racconti possono essere anche totalmente o parzialmente in versi. In cabilo taqsiṭ indica spesso una storia cantata in versi, ma non esclusivamente.
La più antica lingua semitica è l’accadico, invece l’aramaico è la lingua semitica di più lunga e ininterrotta attestazione, dall’inizio del I millennio a. C. fino ad oggi, ha quindi tremila anni di vita. Le lingue semitiche sono molto omogenee tra loro (a differenza di quelle indoeuropee) e si suddividono in tre grandi gruppi: semitico orientale (accadico, eblaita), semitico nord-occidentale (ugaritico, aramaico, ebraico, fenicio, punico), semitico meridionale (nordarabico, arabo, sudarabico, etiopico).
L’aramaico si divide in:
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Aramaico antico (le prime attestazioni, tra 900-700 a. C., è una lingua epigrafica, cioè conosciuta solo dalle iscrizioni su pietra);
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Aramaico d’Impero (è la fase seguente, lingua parlata durante i grandi imperi, da quello assiro a quello persiano e a quello di Alessandro Magno);
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Nabateo (dialetto quasi esclusivamente epigrafico attestato dal II a. C. al III d. C. nell’area abitata dai nabatei, pensiamo alla famosa Petra);
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Palmireno (dialetto esclusivamente epigrafico attestato a Palmira e in gran parte del mondo antico dal I a. C. al III d. C.);
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Aramaico giudaico (usato dagli ebrei fino al IX d. C., attestato per esempio nella Bibbia, nei rotoli di Qumran, nei targum, nel Talmud; una sua prima fase è detto aramaico medio giudaico, la successiva aramaico tardo giudaico);
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Aramaico cristiano palestinese (usato dai cristiani palestinesi in alcuni testi liturgici nel V secolo);
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Siriaco (importante lingua letteraria e liturgica cristiana, è la codificazione del dialetto aramaico di Edessa la quale si sviluppò specialmente tra IV e VII secolo);
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Mandaico (della setta dei Mandei);
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Neoaramaico occidentale;
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Neoaramaico orientale (neosiriaco).
La più antica iscrizione aramaica a noi giunta è quella di Tell Ḥalaf, antica Gozan, nello stato arameo di Bit Bahiani, rinvenuta nel 1931 e datata fra la fine del X e il IX secolo a.C. Incisa con caratteri molto arcaici sullo zoccolo di un piccolo blocco di pietra calcarea cristallina, molto probabilmente la base di una statuetta. L’iscrizione corre su tre lati, ma proseguiva forse sul quarto. Citiamo solo il primo lato, sul quale si trova scritto: zdmt/p’m. La lettera z è probabilmente forma breve e proclitica di z’, pronome dimostrativo femminile singolare, ma non sono noti altri casi di pronome dimostrativo breve, eccetto uno solo ma dubbio. Il termine dmt, “immagine”, è utilizzato anche nell’iscrizione di Tell Fekherye, dove è però in scriptio plena e allo stato determinato (dmwt’), mentre qui è allo stato costrutto. Quanto segue, p’m, è un nome. Quindi la traduzione sarebbe: “Questa l’immagine di P’m …”. P’m sarebbe formato dall’elemento piha, tipico dell’antroponomastica luvia. Invece Garbini legge b’m, attestato nell’onomastica nord e sudarabica, elemento che fa propendere lo studioso a favore di una origine meridionale della iscrizione. Per Garbini altro indizio della origine meridionale dell’iscrizione è la parola dmt, che per lui sarebbe un sostantivo arabo (da dwm, “restare”, “durare”), equivalente al m’mr delle iscrizioni qatabaniche. Quindi dmt significherebbe “memoriale”. Allora Garbini traduce: “Questo il memoriale di B’m …”.
La debolezza dello stato seleucide in Siria, entrata ormai nell’orbita dell’imperialismo romano, favorì la formazione attorno alla metà del II secolo a.C., di due nuove entità politiche: lo stato ebraico in Palestina (con capitale Gerusalemme) e il regno dei nabatei (con capitale Petra). Garbini (2006) chiarisce in via preliminare che, mentre noi oggi chiamiamo “arabi” coloro che hanno la lingua araba come lingua materna ma sono di etnia assai diversificata, invece anticamente con la parola “arabi” si intendeva coloro che abitavano nella ‘arabah, la steppa desertica che solo dopo ha dato il nome all’Arabia. A partire dal III millennio i semiti seminomadi che abitavano questa steppa parlavano lingue assai diverse. In tale steppa i dialetti amorrei si sono trasformati in dialetti aramaici nel corso del II millennio a.C. e questi ultimi hanno resistito a lungo di fronte a quelli nordarabici del I millennio a.C., che si sono imposti definitivamente solo verso il I millennio d.C. Quindi chi erano i nabatei? Erano arabi in quanto vivevano in questa steppa desertica e inospitale i quali usavano l’aramaico come lingua di comunicazione. Il loro aramaico era più evoluto di quello della cancelleria achemenide e non privo di influenze nordarabiche. Abbiamo circa 5000 iscrizioni nabatee; solo nell’area di Petra oltre un migliaio. Tra le iscrizioni non funerarie si conservano una breve epigrafe, di epoca tarda, incisa su una meridiana e un paio di iscrizioni su roccia, di natura votiva, dedicate rispettivamente a “Arra in Bostra, dio di Rabel” e a un “signore della casa” nel quale è da vedere, con molta probabilità, il dio della casa regnante nabatea, menzionato nell’iscrizione precedente, piuttosto che il dio di un indefinibile “tempio”. Si pensa che ogni sovrano potesse avere una o più divinità personali.
L’oasi di Palmira si trova a metà strada tra la Siria e la Mesopotamia, ed era attraversata dall’importante carovaniera che collegava Damasco con l’Eufrate che bagna la Siria settentrionale. Sin dal II millennio a.C. fu abitata da stirpi semitiche, ma le testimonianze archeologiche e epigrafiche non sono anteriori al I secolo a.C. Il periodo di massimo splendore si ha con la dominazione romana (I a.C.-II d.C.). Il breve periodo di indipendenza di Palmira, con il re Odeinato e la regina Zenobia (235-273), terminato con la vittoria di Aureliano sulla regina, costituì il preludio della decadenza della città.
La grammatica di Jean Cantineau, Grammaire du palmyrénien épigraphique (1935), è il primo studio dell’aramaico palmireno rimasto un testo tuttora fondamentale. Il lessico palmireno è caratterizzato da diffusi prestiti e calchi linguistici. L’alfabeto è formato da 22 lettere e la scrittura procede da destra a sinistra. Pietro della Valle, nel 1616, notò una forte somiglianza con la scrittura ebraica e con quella samaritana. La scrittura palmirena, assieme a quella antico siriaca (o aramaica edessena), è un ramo orientale originatosi dalla scrittura aramaica seleucide. Come in tutto l’aramaico, il palmireno ha tre tipi di nome: allo stato assoluto, allo stato costrutto e allo stato determinato. Il palmireno ha anche la nota particella dy che significa “che” ed è anche usata come marca genitivale. Il duale è scomparso.
Una iscrizione palmirena dedicatoria scolpita sul fusto di una colonna in calcare tenero proviene dal tempio di Ba’alshamin. È la più antica tra le dediche trovate all’interno di un tempio e una delle iscrizioni più antiche del corpus palmireno. Registra l’offerta di due colonne al dio da parte di tre donne: due sorelle e un’altra donna, forse una parente. Ecco il testo in palmireno:
byrḥ knwn šnt 3 100 + 20 + 10 + 5
qrbw ‘ty wšbḥy bnt šḥr’
w’t’ brt prdš ‘mwdy’ ‘ln
tryhwn lb’lšmyn ‘hl’ ṭb’
‘l ḥyyhn wḥyy bnyhn w’ḥyhn
“Nel mese di Kanun, anno 335/’Attay e Shabḥay, figlie di Shaḥra/e ‘Ate, figlia di Firdush, offrirono queste due colonne/a Ba’alshamin, il dio buono/per le loro vite e le vite dei loro figli e fratelli”.
La forma verbale qrbw è perfetto D III plurale di qrb e si traduce “offrirono”. Queste e altre iscrizioni mostrano la forma comune del plurale, sia maschile che femminile, con terminazione in –w. L’espressione lb’lšmyn ‘hl’ ṭb’ significa “a Ba’alshamin, il dio buono”: si tratta del dio degli elementi atmosferici, una delle divinità principali del pantheon palmireno. Questa divinità rappresenta un aspetto di Hadad, il dio cananeo della tempesta. L’espressione ‘l ḥyyhn significa “per la loro vita”: è con pronome suffisso di III persona plurale –hwn, qui con scrittura difettiva –hn. Il sostantivo “vita” ha sempre forma plurale.
L’ebraico biblico è una lingua semitica nord-occidentale. Essa è povera (ha solo 5000 parole diverse) e strutturalmente poco complessa. La sintassi è semplice e le frasi sono brevi. È caratterizzata da notevole polisemia, per cui le parole, specie il verbo, sono quasi sempre intraducibili. I vocaboli si basano su radici di tre consonanti portatrici del significato di base, quindi i rapporti grammaticali sono affidati alla variazione delle vocali (SH-M-R è una radice che significa “custodire”, da cui il verbo shamar, “egli custodì” e il sostantivo shomer, “custode”). Si segnano solo le consonanti, invece il sistema vocalico fu inventato dai Masoreti nel Medioevo. Ce ne è più di uno.
L’ebraico deve essere stato il dialetto cananaico formatosi verso il X secolo a. C. intorno alla città di Gerusalemme. Non sarebbe la lingua originaria di quelle popolazioni israelitiche che come tutte le genti semitiche sullo scorcio del II millennio a. C. si sedentarizzarono nell’area siro-palestinese: dovevano parlare qualche forma di aramaico. L’ebraico fu la lingua degli israeliti del Sud quale appare alla fine del processo di assimilazione alla lingua locale. Gli israeliti del Nord ci hanno lasciato poche testimonianze dirette. Dopo l’esilio (avvenuto nel 587-539 a. C.) gli israeliti cominciarono a parlare l’aramaico nella vita di tutti i giorni lasciando però l’ebraico per il culto. Infatti, i vari tipi di targum, spiegazioni della Bibbia per il popolo, vennero scritti in aramaico.
Quello che noi oggi chiamiamo “ebraico biblico” è il risultato di un certo livellamento tardo (operato dai masoreti) mediante non solo vocalizzazione ma anche tagli, aggiunte e modifiche del testo consonantico. I filologi ravvisano ovunque stratificazioni linguistiche molto eterogenee, che poi sono state livellate in certo modo dai masoreti determinando un qualche aspetto unitario. Pensiamo a forme più arcaiche, come ram, “egli fu innalzato”, ove non si è ancora verificata la transizione da A a O, e forme più recenti come marom, “altitudine”, ove il passaggio si è verificato. I testi della Bibbia determinarono la consacrazione letteraria di diverse parlate locali, tra cui quella della capitale del regno, Gerusalemme. Occorre anche considerare che la redazione dei testi attuali è tutta postesilica, come sono postesilici molti testi, il che significa che l’ebraico biblico è stato scritto da arameofoni che dell’antica lingua ebraica avevano una conoscenza legata di fatto solo ai testi letterari trasmessi.
Esistono due tipi fondamentali di ebraico biblico: quello della prosa (la narrazione si basa sul modo detto wayyiqtol) e quello della poesia. Quest’ultimo tipo di ebraico ha notevoli tratti arcaici: suffisso pronominale di terza persona –mō; suffisso pronominale di seconda persona femminile –ky; suffisso pronominale di terza persona maschile singolare –h; particella negativa –bal; pronome indefinito o interrogativo mn; antiche desinenze dei casi. La poesia biblica antica ha anche questi tratti salienti: uso della coniugazione a prefissi per esprimere il preterito; varietà delle particelle; uso frequente delle frasi nominali e dell’asindeto; proposizioni “aggettivali” senza pronome relativo.
La poesia biblica non si basa sulla metrica, anche se è possibile rintracciare talvolta schemi metrici. Secondo altri studiosi, ci sarebbe sempre ma non possiamo ricostruirla ogni volta che viene usata. Gli studiosi richiamano l’attenzione sulla struttura della frase ebraica. Nella prosa l’ordine consueto è particella + verbo + soggetto + oggetto. Esso viene alterato per esprimere enfasi (mettendo il soggetto all’inizio vi si pone attenzione). Ma la poesia non rispetta questo ordine. Certamente la ragione è metrica: per far risultare metricamente il verso. È grossomodo una situazione paragonabile a quella della lingua accadica. Non si sa con certezza se vi fosse una metrica, ma ci sono degli indizi: anche in accadico è l’ordine della frase. La lingua accadica è SOV: Soggetto-Oggetto-Verbo. Quando vi è una sua alterazione, i filologi pensano a ragioni metriche, ritmiche e di enfasi.
In ogni modo, la poesia biblica appare costituita soprattutto da richiami fonetici, cioè allitterazioni e giochi di parole. Tipici della poesia biblica sono il parallelismo e la ripetizione. Abbiamo il parallelismo quando due frasi si negano oppure quando le frasi si completano.
Le lingue semitiche sono molto diverse da quelle occidentali. Facciamo anche l’esempio dei modi verbali in una narrazione. In una narrazione le linee sono tre: abbiamo un antefatto (inizio della narrazione), dopo di esso si giunge alla narrazione vera e propria o primo piano (linea principale) e poi si accede allo sfondo (linea secondaria) cioè ai particolari espressi da una proposizione secondaria. In italiano possiamo avere:
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C’era una volta un principe, (antefatto)
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Egli andava a caccia (primo piano)
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Per divertirsi (sfondo).
L’antefatto inizia la narrazione, il primo piano indica l’azione principale, lo sfondo indica i particolari. In ebraico biblico abbiamo queste modalità per esprimere l’antefatto:
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x-qatal
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prop. nom.
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x-yiqtol
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weqatal.
Invece il primo piano è espresso dal wayyiqtol in catena. Lo sfondo può essere espresso da:
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x-watal
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prop. nom.
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x-yiqtol
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weqatal.
Facciamo un esempio. L’incipit della Genesi inizia con questa struttura: ci sono una serie di qatal (In principio Dio creò, il verbo barà è un qatal) che introducono la narrazione, costituiscono l’antefatto. Poi al versetto 3 c’è un wayyiqtol (E disse Dio, il verbo wayyomer è un wayyiqtol) che introduce la linea principale della narrazione. Il senso espresso da tale alternanza dei verbi è questo: prima Dio creò i cieli e la terra (antefatto), poi Dio si mise a creare la luce (linea principale). Come era la luce? La luce era buona: al versetto 4 c’è una frase subordinata nominale, ki tob, “che buona”, Dio vide che la luce era buona, ebbene questa frase nominale indica lo sfondo, un particolare della creazione divina della luce.
In aramaico biblico abbiamo qualcosa del genere, ma espresso così. L’antefatto da:
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x-qetal
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(x-)participio.
Il primo piano da:
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(waw-)qetal
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(waw-)participio.
Lo sfondo da:
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x-qetal
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x-yiqtul
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waw-yiqtul
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x-participio
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prop. nom.
Prendiamo il capitolo 7 di Daniele, scritto in aramaico. All’inizio Daniele vide delle visioni e le mise per iscritto: i verbi sono due qetal, quindi abbiamo la linea principale della narrazione. Poi l’autore specifica quello che fece Daniele in seguito e lo esprime con dei participi: rispose e disse.
Per quanto riguarda la sintassi, l’aramaico biblico differisce dall’ebraico biblico per queste caratteristiche:
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Dato che in aramaico non vi è un waw inversivo, la forma corrispondente del wayyiqtol ebraico non c’è; il waw-qetal si trova esclusivamente in contesti passati e non esprime mai un futuro indicativo;
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Il (waw)-yiqtul iniziale può esprimere sia il futuro indicativo sia quello volitivo;
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Il participio, pur non essendo una forma verbale finita, funge spesso come tale, specialmente in proposizioni senza un soggetto espresso;
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Il predicato verbale in proposizioni che non cominciano con il verbo è a volte preceduto da un numero elevato di altri elementi (probabilmente sotto l’influsso dell’accadico, dove il verbo spesso si trova alla fine della proposizione).
Pare che l’Antico Testamento sia stato scritto in sette secoli: dal Cantico di Debora (IX secolo a. C.) ai testi più recenti delle Cronache. Invece il Nuovo Testamento nel I secolo d. C.
Gli studiosi osservano altri tipi fondamentali di ebraico biblico: quello prima dell’esilio e quello dopo l’esilio (colmo di aramaismi, come in Ezechiele); quello del Nord e quello del Sud.
L’Antico Testamento ci è giunto in tre lingue: ebraico, aramaico e greco. In aramaico abbiamo sezioni di Esdra e di Daniele: nel primo libro abbiamo il tipo detto aramaico imperiale (simile a quello dei papiri di Elefantina), invece in Daniele abbiamo l’aramaico medio. In greco abbiamo sette libri: i due dei Maccabei, Sapienza, Tobia, Baruc, Siracide, Giuditta. Il Nuovo Testamento ci è giunto tutto in greco. Per “greco biblico” si intende un tipo di quel greco detto koiné, costituente l’ultima fase del greco antico. In greco biblico sono stati scritti i sette libri dell’Antico Testamento, tutto il Nuovo Testamento e le versioni: all’interno della koiné, il greco biblico si caratterizza per l’ampia presenza di semitismi, cioè di prestiti e costruzioni provenienti dalle lingue semitiche.
L’Antico Testamento può essere letto nelle attuali versioni solo da due importanti codici medioevali in ebraico masoeretico: il Codice di Leningrado e il Codice di Aleppo.
Il Codice di Leningrado è il secondo per antichità, risale al 1008 d. C. L'autore, Šemû'ēl ben Ya'ăqōb, dichiara di averlo copiato al Cairo da un manoscritto originale del caposcuola masoreta 'Ahrōn ben Mōšeh ben 'Āšêr. Il Codice è conservato nella Biblioteca Nazionale Russa di San Pietroburgo, catalogato con la sigla "Firkovich B 19 A". Il precedente possessore, Abraham Firkovich, un caraita, acquistò il manoscritto a Odessa nel 1838, ma non ha lasciato indicazioni circa il passato del codice. Egli voleva favorire la sua comunità di caraiti dimostrando che i caraiti sono nati prima del cristianesimo (se erano nati prima non potevano essere responsabili della crocifissione di Cristo, quindi non potevano essere perseguitati). Egli vede, lo stesso anno, anche il Codice di Aleppo conservato nella sinagoga: i responsabili della sinagoga vengono a sapere che è un caraita e lo buttano fuori. Si pensa che volesse anche rubarlo. Egli comunque vide la dedica del manoscritto e sulla base della lingua capì che venne scritto da caraiti.
Attorno agli anni ’20 del Novecento, uno studioso, Paul Kahle, viene invitato a fare una seconda edizione della Bibbia ebraica di Kittel. La prima edizione di Kittel riprende la Bibbia rabbinica stampata a Venezia nel XVI secolo d.C. Kahle sa che esistono questi due Codici della Bibbia ebraica. Riesce a farsi spedire il Codice di Leningrado in Germania, poi vuole vedere anche il Codice di Aleppo e lo richiede alla sinagoga di Aleppo, ma non gli viene concesso. Quindi le Bibbie ebraiche che noi attualmente abbiamo tra le mani sono basate sul testo del Codice di Leningrado curato da Kahle.
Il Codice di Aleppo è il più antico manoscritto della Bibbia ebraica masoretica. Nella sua forma attuale è composto di 295 fogli su un totale originario di 487 (secondo alcuni 480). Le consonanti furono copiate da Shlomo ben Buya’a in Palestina nel 925-930 circa. Il testo venne poi verificato, vocalizzato e approvato dal caposcuola masoreta 'Ahrōn ben Mōšeh ben 'Āšêr, a Tiberiade.
Secondo una teoria, il manoscritto è stato composto da caraiti. I caraiti sono un gruppo o una setta di lettura della Bibbia ebraica che assomiglia ai protestanti, perché per loro conta il testo scritto (qarà) e non l’interpretazione. I caraiti nascono nell’Iran attuale nel VII-VIII secolo e erano importanti perché si opponevano ai rabbaniti: infatti i primi insistevano su una interpretazione più letterale della Torah. Sono i caraiti ad aver introdotto nel mondo ebraico il commentario interpretativo: prima vi era solo il midrash (storielle teologiche o ingiunzioni normative), invece il commentario capitolo per capitolo venne introdotto dai caraiti su modelli musulmani e forse cristiani.
Nella sinagoga si usano i rotoli, invece il Codice di Aleppo è per l’appunto un codex, cioè un volume simile all’odierno libro, ora il libro era funzionale al commentario caraitico per la necessità di avere sottomano un libro facilmente sfogliabile così da poterlo commentare. Ma non si sa con certezza se il Codice di Aleppo sia nato in ambiente caraitico, ma ci sono solo ipotesi basate su diversi argomenti. Un altro argomento è quello per cui questo Codice si sposta da Tiberiade alla comunità caraita di Gerusalemme alla metà dell’XI secolo. Ma non sappiamo il perché.
Poi il Codice venne preso dai turchi oppure dai crociati (Goffredo di Buglione che assalta Gerusalemme): quindi venne chiesto un riscatto, una comunità ebraica riscattò il manoscritto pagando una somma enorme e quindi esso venne trasportato a Il Cairo, dove c’era una comunità ebraica importante; lì venne consultato da Mosè Maimonide, per la compilazione dell’opera Le leggi del libro della Torah. Questo ha contribuito a rendere il manoscritto una fonte autorevolissima presso la comunità ebraica, anche se Maimonide abbia citato solamente la struttura in paragrafi e altri dettagli di formattazione, e non il testo in sé. Il Codice di Aleppo venne portato da Il Cairo ad Aleppo da un lontano discendente di Maimonide nel XIV secolo.
Ben-Zvi, presidente dello stato di Israele, fece un viaggio ad Aleppo nel 1935 e vide il Codice di Aleppo. Chiede ad un professore dell’Università di Gerusalemme di prendere il Codice e portarlo in Israele: questo professore lo richiede ma i responsabili della sinagoga gli negano il consenso. Ma alcuni giovani sconosciuti, di notte, promettono al professore che glielo avrebbero fatto trovare (lo avrebbero rubato), ma egli temette tutte le maledizioni che proteggevano il manoscritto, quindi non prese dai giovani il manoscritto, in poche parole partì da Alesso con la valigia vuota. Ma ci fu un’altra missione: Ben-Zvi tentò un’altra volta, chiamò un secondo personaggio per cercare di averlo ma anche questa volta i funzionari della sinagoga negarono il consenso. In seguito Umberto Cassuto andò ad Aleppo nel 1943 e guardò il manoscritto per 48 ore, prese delle note ma ancora non sono state pubblicate. Egli però scrisse una lettera a Kahle dove spiegò alcune cose: la comunità di Aleppo pensava che la presenza del Codice la avrebbe salvata da tutti i pericoli. Questa comunità era di sefarditi, cioè ebrei orientali (i sefarditi erano dapprima della penisola iberica, poi andarono in Oriente perché scacciati dopo la Reconquista cristiana, invece gli aschenaziti sono gli ebrei originari dell’Europa centrale e orientale). Il Codice usciva una sola volta dalla sinagoga in processione per salvarli. Era un oggetto sacro da venerare e non da utilizzare. Era proibito anche fotografarlo, in quanto sarebbe stato profanato.
Il Codice rimane ad Aleppo fino al 1957, dopo essere stato danneggiato durante la sommossa del 2 dicembre 1947, in seguito alla dichiarazione delle Nazioni Unite sulla spartizione della Palestina. Ad Aleppo era custodito in una cassaforte con due chiavi, possedute da due personaggi diversi: il 2 dicembre del 1947 gli incursori non avendo le chiavi forzarono la custodia in cerca di denaro e gioielli, poi non si sa bene cosa successe. In ogni modo il manoscritto venne ritrovato sul pavimento della sinagoga ancora intero. Fu quindi acquistato dai musulmani e con loro rimase fino al 1957. Non sappiamo come, ma nel lasso di tempo dal 1947 al 1957 qualcuno portò via molte pagine. Sono comunque riapparsi alcuni frammenti posseduti da vari personaggi. Esistono anche alcune fotografie di parti mancanti.
Quindi nel 1957 i rabbini Moshe Tawil e Salim Zafrani di Aleppo contattano il casaro Murad Faham e lo invitano a consegnare il manoscritto a una persona affidabile in Israele. Egli mette il manoscritto nella lavatrice di sua moglie avvolto nei tessuti che usava per il formaggio, li copre con cipolle e semi di verdure per confondere i controlli alla frontiera. Arriva quindi ad Alessandretta, dove un macellaio, Isacco Silo, lo accoglie a casa sua. Nel frattempo Faham vede un agente segreto alle dipendenze di Shlomo Zalam Shragai, capo del servizio di immigrazione di Israele. L’agente avvisa il capo della presenza di Faham. Una nave approda il 16 dicembre 1957 a Haifa con la persona di Faham e la sua famiglia. Il 6 gennaio 1958 due uomini bussano alla porta della residenza di Shlomo Zalam Shragai con una valigetta marrone e gli consegnano il Codice di Aleppo. La persona di fiducia indicata a Faham dai due rabbini era questo signore, capo del servizio di immigrazione? Non lo sappiamo con certezza. Comunque sia Shragai porta il manoscritto dal presidente Ben-Zvi, in Gerusalemme. Nel 1986 iniziano i lavori di restauro.
Per gli ebrei la base dell’osservanza religiosa è costituita dalla Torah scritta, cioè i primi cinque libri dell’Antico Testamento. Il commento alla Torah scritta è detto Torah orale. La Torah orale è costituita dalla Mishnà (interpretazione della Torah scritta), il complesso di norme, dottrine elaborate tra il II secolo a. C. e il II d. C., e dalla Ghemarà (commento della Mishnà). La Ghemarà, costituitasi per iscritto attorno al VI secolo d.C., forma il Talmud, che è di due tipi: gerosolimitano e babilonese.
La Mishnà è scritta in ebraico mishnico o rabbinico. Esso, a differenza di quello biblico, fu a lungo poco considerato. Si dovette attendere il 1812 perché Solomon Löwisohn si ponesse in un suo studio la domanda: cos'è l'ebraico mishnico? Più tardi, nel 1845, Abraham Geiger, rabbino e illuminato, compilò la prima grammatica, in due volumi, di questa forma di ebraico tardo. Lui però giunse alla conclusione che l'ebraico mishnico altro non fosse che aramaico ebraicizzato, una lingua artificiale. Studi successivi, come quelli di Segal, autore di una fondamentale grammatica dell'ebraico mishnico, hanno rovesciato questa impostazione e visto nell'ebraico mishnico una forma di lingua, se non propriamente viva (nel II sec. d. C. sarebbe stato difficile) per lo meno attivamente usata.
L’ebraico mishnico ha molte particolarità rispetto all’ebraico biblico. Presenta un incremento significativo nell’uso delle matres lectionis. Per il possesso si formano forme proclitiche o indipendenti della particella sel, "di". Uso del suffisso –an per esprimere l’agente di una azione (gozlan, “ladro”). Il plurale maschile è spesso –in, come in aramaico. Alcuni nomi maschili prendono al plurale –ot del femminile. La forma pu’al dell’ebraico biblico è quasi del tutto scomparsa. Nella coniugazione a suffissi il hitpa’el è sostituito dal nitpa’el, che esprime un senso riflessivo-passivo. Alcuni studiosi hanno sostenuto l’esistenza di un nuf’al a fianco del nif’al. Vi sono alcuni cambiamenti minori nel significato delle forme verbali (coniugazioni derivate).
Invece il Talmud è scritto in aramaico. L’aramaico talmudico è molto diverso da quello biblico perché più tardo. Quello del Talmud di Gerusalemme è un aramaico occidentale, quello del Talmud di Babilonia è orientale. In genere l’aramaico talmudico ha queste particolarità:
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Compaiono molte alef “madri di lettura”, cioè che indicano la vocale A (sono scritte in maniera incoerente, cioè a volte ci sono ma a volte no, perché non c’era ancora uno standard definitivo di scrittura);
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Differenze in alcune forme verbali, come il causativo;
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Mentre in aramaico biblico c’è l’aspetto verbale, in quello talmudico c’è anche il tempo;
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Il plurale maschile esce in –ey (nell’aramaico biblico in –in);
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Sintassi molto più sciolta rispetto all’aramaico biblico;
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Lessico più ricco e colloquiale;
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Mentre l’aramaico biblico segue l’accentazione dell’ebraico, con la maggior parte delle parole tronche, l’aramaico talmudico ritrae l’accento sulla penultima.
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