Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
La poesia cinese
di Marco Calzoli - Ottobre 2022
La poesia cinese antica non è paragonabile a quella occidentale, ma può essere evocata in qualche modo alle nostre menti mediante alcuni concetti generali:
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Quando scriviamo in un alfabeto la parola scritta è legata convenzionalmente a un significato, invece in cinese i vari caratteri (pittogrammi, ideogrammi) rappresentano come in un quadro l’oggetto o l’idea da indicare, seppure in modo stilizzato. Ren, “persona”, è la stilizzazione di una figura umana a gambe aperte. In questo modo il carattere cinese non è collegato univocamente a un significato, come più o meno avviene da noi, ma è carico di talmente tante sfumature che l’immaginazione del cinese è molto libera di vagare e di proiettare elementi diversi tutti collegati alla storia del carattere. Quando il cinese dice ming, si riferisce al carattere del sole e della luna, ma il rapporto tra questi due elementi del carattere non è dato per scontato da chi lo ha vergato su carta: può indicare “capire” se si instaura un dato rapporto con le figure (luce che illumina le tenebre dell’ignoranza) oppure può indicare “brillare” (se la luce viene intesa in senso fisico). È noto questo aneddoto: un guerriero vincitore cinese disse che il suo primo dovere è rimettere le armi nel fodero, un altro modo di intendere la parola “guerriero” (wou), la quale è espressa da: “arrestare (immagine di un piede) le lance (immagine di una lancia)”.
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La natura figurativa dei caratteri cinesi rende la scrittura cinese molto adatta ad essere usata anche da popolazioni che parlino dialetti differenti perché un carattere unico, per questo motivo facilmente diffuso, può essere pronunciato in maniera molto diversa. Non solo, ma la natura figurativa fa sì che la scrittura cinese aiuti a sviscerare il senso delle espressioni, infatti in cinese vi è un fortissimo radicamento alla etimologia dei caratteri e delle locuzioni, anche se non è esclusivamente in questa maniera, come notato da Granet, poiché i radicali che raffigurano la realtà possono aiutare a cercare il carattere nel dizionario e ad imparare più agevolmente la scrittura.
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Nel Han Feizi, del III secolo a.C., è scritto: “Cosa è più difficile da dipingere?”, shu zuiyi zhe. La particella zhe assume una posizione insolita. Uno studioso, esperto di buddhismo, vi ha individuato anche una funzione finale, in collegamento con il sostituto interrogativo shu. Questa funzione sarebbe nata dalle traduzioni dei sutra buddhisti degli Han Orientali. Ebbene, sono più difficili i cani e i cavalli, mentre sono più facili i fantasmi e gli spiriti. “I primi sono ciò che le persone conoscono, ci appaiono davanti da mattina a sera, non è possibile renderli tutti nello stesso modo (ognuno li disegna a modo suo), perciò sono difficili. I fantasmi e gli spiriti non hanno forma, non ci appaiono davanti, perciò sono facili”. Evidentemente per i cinesi la pittura, se esprime pittograficamente delle cose evidenti, è più difficile in quanto aperta alla resa multipla e quindi alla diversa interpretazione.
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A questo livello di base della scrittura cinese, si aggiunge che il carattere cinese non indica di per sé una parola, ma a monte ci sono svariati passaggi suscettibili di diversa interpretazione e dipendenti anche da: preparazione del colore, uso del pennello, il “polso” (come ben nota Shitao nel suo trattato caposaldo della estetica cinese). Queste diverse caratteristiche fisiche del carattere cinese, per cui può essere in alcuni tratti più intenso o più sbiadito, più allungato o più breve, a seconda che si voglia incidere maggiormente o meno sui componenti etimologici del carattere stesso, lo fanno oggetto di ipotesi continua da parte del lettore. Uno dei trattati antichi più importanti di calligrafia cinese, quello di Liu Xizai, intitolato Shu gai, afferma che nella esecuzione di un carattere esiste sia la forma (fa), cioè le regole tecniche concepite da altri, sia il contenuto (yi), cioè l’estro del calligrafo, la sua capacità interpretativa, quella di non eseguire meramente un prodotto stabilito da altri ma una vera e propria opera d’arte. Nell’epoca Tang si prediligeva il fa, invece nell’epoca Song il yi. Nell’antica Cina, quindi, la calligrafia non è come nei codici medioevali occidentali che serviva ad abbellire il testo (per esempio colorando la lettera iniziale), ma è parte integrante dell’opera letteraria. Un’opera letteraria veniva giudicata anche sulla base della calligrafia. In un testo, il Gan Lu Zi Shu del 714 d.C., è scritto che i caratteri cinesi erano di tre tipi: popolare (su), intercambiabile (tong), standard (zheng). Solo lo zheng era adatto per i concorsi pubblici. Ma, come testimonia la storia, nonostante ci fosse nella calligrafia la tendenza ad attenersi ad una certa regolarità della esecuzione, i letterati cinesi imprimono sempre (o quasi) un estro molto originale nella scrittura.
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La calligrafia cinese si basa sul pennello. Non esiste solamente la natura, ma la natura si eleva (e le interpretazioni si moltiplicano) quando il pennello la riproduce secondo il genio dell’artista. Ecco le parole di Shitao: “Quando la naturalezza (po) si infrange, appaiono le regole (fa); queste si basano sull’unico tratto di pennello (yi hua). L’unico tratto è origine di ogni cosa, è radice di tutti i fenomeni”. Seguendo meglio l’originale cinese, possiamo dire che Shitao pone l’accento sulla differenza tra la materia grezza, legname (uno dei sensi del termine po) e il cambiamento (la parola cinese yi, “uno”, qui usata da Shitao, allude al termine omofono yi, “cambiamento”, presente nell’Yi King, il Classico dei Mutamenti): l’opera artistica è quella regola, quella legge (fa) che decreta il cambiamento della natura.
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In terzo luogo la maggior parte dei caratteri cinesi primitivi non indica una cosa, come facciamo noi che siamo dipendenti dal pensiero greco, che è oggettivo, ampliato poi dalla logica medioevale. La logica medievale, enfatizzando il pensiero greco, ci ha abituati a pensare in termini astratti: ci sono concetti individuali collegati univocamente a una cosa, donde la parola esprime quella specifica cosa. In realtà nel mondo cinese antico il carattere esprime una azione, lo svolgersi di un processo dinamico. Per cui il carattere wo non indica “io” come identità (io sono Tizio) ma un uomo colto nella azione di difendere sé stesso con una alabarda e quindi di affermarsi sugli altri. In questo modo il carattere cinese non è statico, ma dinamico, suscettibile di continua interpretazione da parte del lettore. Certamente la visualità del carattere cinese (per cui rappresenta oggetti come un quadro) e il suo essere, almeno anticamente, il veicolo di una azione lo rende non convenzionale (come è invece la nostra scrittura e la nostra parola) bensì fedele alla natura, in cui non ci sono cose staccate tra di loro, ma processi. Il sole non è una monade fissa in cielo, ma per esempio sorgendo decreta l’azione dell’inizio del mattino.
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In quarto luogo una frase, formata da più caratteri, non indica, nella poesia cinese antica, un insieme di oggetti, come se fosse un elenco, ma indica essenzialmente la relazione tra azioni dinamiche che si svolgono nel tempo. Ragion per cui il verso di una poesia cinese non è tanto unito in sé dal suono, come in Occidente, cioè dalla metrica e dal ritmo (assonanza), bensì dalla descrizione di azioni tra loro concatenate che si stanno svolgendo sotto gli occhi del lettore, il quale ha l’arbitrio di interpretarle nelle varie sfaccettature (anche se possono comparire figure di suono).
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Quello della metrica e del ritmo è un altro capitolo della poesia cinese, assai interessante, ma che non possiamo trattare dettagliatamente in questa sede. Nell’epoca Tang (618-907 d. C.), il periodo classico della poesia cinese, erano diffusi sistemi sillabico-tonali (lü-shi). Per la versificazione Tang erano frequenti sia la rima sia il parallelismo – morfosintattico e semantico. Prima, nel III secolo d. C., i versi avevano una lunghezza sillabica prestabilita e la presenza della rima alla fine dei versi pari, in seguito, nell’epoca Tang, acquisiranno regole più rigide. Poco prima Shen Yue aveva inventato il “contrasto tonale” (quando nella poesia shi si alternano toni piani e toni obliqui: considerando i quattro toni presenti nel V e del VI secolo, il tono piano è il primo, gli altri sono obliqui), che avrebbe avuto molta fortuna dall’epoca Tang. Ma non plus ultra! Basti considerare che verso la fine degli Han Orientali, fu introdotto in Cina un sistema per indicare la pronuncia dei caratteri cinesi, le notazioni bisettili (che soppiantò le notazioni dirette). Le notazioni bisettili consistono nell’uso di sezioni di caratteri cinesi per indicare la pronuncia di uno specifico carattere. Storicamente questo sistema, che avrà una fortuna fino ad oggi, si deve all’influsso indiano: i cinesi ebbero l’idea delle notazioni bisettili dal sistema usato dagli indiani per apprendere la scrittura brahmi, detto siddham. Ora, il passo successivo, compiuto nell’epoca dei Tre Regni, fu quello di radunare i caratteri cinesi e dividerli per toni grazie alle indicazioni fornite dalle notazioni bisettili. Nacquero quindi i cosiddetti rimari, utili ai poeti per la versificazione. I rimari ebbero la loro grande diffusione con la unificazione dell’impero nell’epoca Sui: si iniziò ad usare una lingua comune sovradialettale, detta “lingua dei funzionari” (guanhua), i quali funzionari erano scelti per concorso pubblico che prevedeva anche la stesura di poesie basate su liste di rime uguali per tutti. Questa unificazione della lingua e la regolamentazione dell’attività poetica fece esplodere la diffusione dei rimari per scrivere poesie secondo le regole accettate dal potere.
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Allora, possiamo dire che la poesia cinese antica ha tre elementi: la concezione artistica del carattere, il contenuto che il carattere veicola e la intenzione del poeta. Tutti e tre non sono a priori sulla carta, come quando Dante scrive “amor ch’a nullo amato amar perdona”, che suona solo in un certo modo (più o meno è così, ma l’opera letteraria occidentale diviene sempre un’opera aperta, suscettibile di più interpretazioni), ma trovano la conclusione nella immaginazione del lettore, che li intende in maniera assai libera. Noi abbiamo un concetto che indica una cosa e la cosa è veicolata dalla parola, invece nella poesia cinese antica abbiamo tutto un mondo della immaginazione che il lettore usa per decodificare il testo. Pertanto abbiamo un polo pieno e un polo vuoto, uno yin e uno yang: abbiamo una lettura superficiale (il lettore che si ferma alla forma della concezione artistica) e una lettura più profonda (il lettore che cerca l’anima della poesia).
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In questo senso la poesia cinese antica non si ferma al gesto del poeta che scrive il carattere, ma non si ferma solamente nemmeno alla concezione artistica. Tra l’atto di impugnare il pennello per fare una creazione artistica (perché il testo antico in cinese è un’opera d’arte, si parla di arte della calligrafia) e l’idea poetica nella mente dell’autore vi è un abisso di interpretazioni.
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Il poeta deve far parlare il cuore, xin, quella mente-cuore che unisce ragione e sentimento. In termini occidentali, il poeta deve svuotare sé stesso e far parlare l’inconscio, determinando quella sincronicità per cui l’apparente caso è in realtà comunicatore di un senso assoluto. Si tratta di un principio analogo all’arte del tiro dell’arco orientale: solo se l’arciere non mette tutto sé stesso, ma lascia agire liberamente l’inconscio, l’inconscio determina il tiro perfetto e la freccia raggiunge il bersaglio. Oppure il poeta si fa strumento del proprio inconscio determinando che ogni lettore trovi quello che deve trovare, in una gamma infinita di interpretazioni, ognuna di esse valida per il singolo lettore. Ancora Shitao: “Privo di forma definita, egli gestisce le forme in modo tale da non lasciar traccia (wu ji)”.
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Sotto gli Han la calligrafia si estrinsecava in una scrittura, detta lishu, che era ufficiale, formale, laboriosa e molto artisticamente curata. In quel periodo si sviluppò però anche una scrittura corsiva nella quale gli artisti potevano sfogare le loro emozioni fino all’eccesso, come sporcarsi d’inchiostro o scrivere con fili d’erba anziché il pennello. Ci furono critiche ma anche lodi. In seguito, sotto i Tang, si diffuse uno stile ancora più eccentrico, detto folle, nel quale scrivevano poeti ubriachi o che comunque lasciava trasparire animi inquieti e preda delle passioni smodate di un periodo licenzioso e anticonformista. Erano modalità artisticamente coerenti, anche se non accettate dal potere, di espressione di xin. Il poeta Li Bai andava ubriaco alle sedute imperiali, cosa per cui venne esiliato.
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A ciò si deve aggiungere che la poesia cinese antica non solo mostra qualche cosa di visibile (suscettibile di interpretazione) ma mostra anche l’invisibile. È un altro carattere foriero di una vertiginosa gamma di possibilità: mediante la metafora la poesia cinese antica allude a mondi sconosciuti non del tutto evidenti. Gran parte della poesia cinese antica è allusiva. Mediante il conosciuto, oggetto di più interpretazioni, il poeta cinese interpreta lo sconosciuto mediante la metafora. Lu Ji, poeta cinese del III secolo d.C., autore di un importante testo di poetica cinese, scriveva riguardo l’arte dell’allusione: “Le cose diventano ombre e svaniscono; il ricordo ritorna in un’eco”.
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È evidente quindi che la lingua cinese, essendo così collegata alla vitalità della natura nella sua dinamica e poco ancorata a concetti di tipo greco e medioevale, non conosce grammatica. È solo in tempi recenti che gli stranieri hanno iniziato a torturare questo idioma collegandolo a categorie concettuali non cinesi, come ha fatto Dobson, uno dei sinologi più importanti del Novecento. Esisteva una riflessione linguistica cinese tradizionale, ma era di natura filosofica: per esempio la classificazione, fatta dagli antichi cinesi, per cui ci sono parole piene (shici) e parole vuote (xuci), si basa su categorie filosofiche confuciane e taoiste, quindi non corrisponde alla distinzione linguistica tra parola autonoma e particella. Sta di fatto che un singolo carattere cinese non rappresenta per nulla una categoria grammaticale occidentale in quanto può essere sia verbo, sia sostantivo, sia aggettivo. Le preposizioni inoltre sono verbi. Il cinese è un idioma fluido, immaginifico, libero. Questo discorso è tanto più vero per la poesia, che non è un prodotto statico, ma carica di linfa vitale.
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Poi non dimentichiamo che la poesia cinese non è solo opera della creatività del poeta ma sta sul solco della storia della letteratura cinese. Questo aspetto è ben colto da Liu Xie, oscuro scrittore cinese del VI secolo d. C., nel suo trattato di retorica e poetica che in Cina è paragonabile alla Poetica di Aristotele per importanza e profondità. La poesia cinese ha un momento taoista (pura espressione della natura che vive nel poeta, dei suoi sentimenti e emozioni più profondi) unito a un momento confuciano (il polo opposto del pensiero cinese, che si sforza di controllare la mente limitandola nella libertà per indirizzarla ad ideali etici e sociali). La poesia cinese non deve solo esprimere l’emozione del poeta ma anche essere esempio della ideologia confuciana. In questo senso Liu Xie accosta la parola “poesia” (shi) alla parola “controllo” (chi), dicendo che il controllo della mente è l’essenza della poesia cinese. Per Guo, sulla base di una congettura basata sull’analisi fonetica di un testo divinatorio di epoca Han, a quel tempo shi e chi erano due parole non solo simili ma omofone. Buona parte di tutta la letteratura cinese è espressione del confucianesimo. Nel primo medioevo cinese, sotto gli Han Occidentali, si era sviluppato il fu, una poesia rapsodica che celebrava le imprese del sovrano, senza che vi fosse un forte carattere moraleggiante. Era insomma un panegirico, un componimento poetico encomiastico. Ebbene, importanti letterati classicisti (ru) criticarono questo genere non ritenendolo valido a scopi didattici in quanto troppo poco moraleggiante. Questa posizione è canonizzata nello Hanshu di Ban Gu, il quale li paragona a dei giullari di corte (paiyou). Evidentemente per la cultura cinese tradizionale la poesia è una cosa molto importante e deve celebrare la virtù.
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In Cina il Tao è il Principio da cui tutto promana e che tutto regge. L’ideogramma cinese per Tao è composto da testa + procedere, quindi in sé indica la Via. In seguito confluiscono nel termine altri tre significati: moralità, divenire universale e dottrina. I primi due (moralità e divenire universale) sono i più antichi, anzi su questi si basa la contrapposizione tra confuciani e taoisti, infatti per i primi il Tao è la Via Morale che la società tutta deve seguire, per i secondi invece indica la realtà fondamentale, il Principio da cui tutto nasce e in cui tutto ritorna. Il significato di dottrina è forma ellittica per Dottrina sul Tao, cioè sulla vera realtà. Nella riflessione post-buddhista la parola Tao oscilla tra realtà e verità. Seguendo questi significati fondamentali si raggiunge anche un altro significato: quello di Parola.
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Liu Xie all’inizio del suo famoso trattato dice senza mezzi termini che il segno (wen) della parola è l’essenza dell’universo in quanto le parole imprimono il moto all’universo perché sono forme del Tao.
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La poesia, la letteratura e in genere la lingua cinese risentono moltissimo della ideologia confuciana del “rettificare i nomi”. Secondo una nota glossa confuciana, “governare significa essere nella rettitudine”. La parola zheng piuttosto che “governare” come noi occidentali intendiamo, significa “ordinare il mondo”, senso contenuto nel carattere zhi, che all’inizio significava “curare un organismo malato”, nell’accezione di ristabilirvi un equilibrio perduto. Quindi l’arte di governare non è una questione di tecnica politica ma di carisma personale da avere in sé ma anche da coltivare. Solo così, dal carisma personale, è possibile passare a sanare l’organismo sociopolitico, quindi a farlo andare nel giusto modo. Questo nesso tipicamente cinese tra il sovrano e il mondo esterno trova tutta la sua forza nella nozione del “rettificare i nomi”. Questa nozione vuol dire che l’atto di conferire un nome a un ministro (per denominazione) significa nominarlo ministro (per nomina). Questo vuol dire che tra nome (ming) e realtà (shi) esiste un rapporto ontologico inscindibile. Vige quindi una forza contenuta nel linguaggio che esprime la dinamica delle relazioni umane ritualizzate. Tra interno e esterno, tra il carisma dell’uomo di stato veicolato dal suo nome e l’andamento dello stato vi è una coincidenza assoluta. Si intravede in questo denso nucleo concettuale il sogno confuciano che l’andamento dello stato non dipenda da fattori estrinseci ma dallo stesso sovrano che, in sé, sarebbe in grado di dare equilibrio e armonia, come al tempo del mitico sovrano Shun, che si limitava a restar seduto rivolto a sud, incarnando la forza della “azione della non-azione” (wei wu wei) tipicamente taoista. In Confucio c’è una forte tendenza all’accordo tra la vicenda umana e l’andamento naturale delle cose in cui il Tao si manifesta spontaneamente. Houang-ti, il primo sovrano, si assunse come dovere quello di “dare le denominazioni corrette” (tcheng ming), ogniqualvolta si usava la parola (non solo nel mondo della politica), per mettere ordine a livello sociale.
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La poesia cinese antica è squisitamente associata alla musica. Demieville diceva che la poesia cinese non è mai stata parlata: o la si salmodia su una melodia appresa dal maestro o la si cantava, spesso con un accompagnamento strumentale, su arie date dalla struttura generalmente ripetitiva. I cinesi hanno sempre amato molto la musica e la hanno collegata ai valori etici e morali. Nel Lüshi chunqiu, una antica opera cinese di carattere enciclopedico, si ricorda il famoso musicista cinese Bo Ya. “Mentre Bo Ya suonava il Qin, Zhongzi Qi lo ascoltava. Mentre suonava il Qin era con il pensiero sul monte Tai, Zhongzi Qi disse: Sei eccellente a suonare il Qin, maestoso come il Monte Tai. Poco tempo dopo, stando con il pensiero nell’acqua corrente, Zhongzi Qi disse ancora: Sei eccellente a suonare il Qin, fluente/impetuoso come lo scorrere dell’acqua. Zhonzi Qi morì, Bo Ya ruppe il Qin e ne spezzò le corde, non suonò mai più il Qin fino alla fine dei suoi giorni. Riteneva che nel mondo non vi fosse nessuno per cui valesse la pena riprendere a suonare il Qin”. La tradizione ritiene che chi suona il Qin non si limiti a suonare, ma coltivi anche sé stesso. Il Monte Tai è una montagna sacra dello Shandong. Il dettato cinese è carico di enfasi, infatti nell’originale abbiamo zai e hu, particelle esclamative, che di solito andrebbero alla fine, ma in questo caso sono posizionate all’interno della frase per conferire enfasi. Compare anche una onomatopea (wei wei) per riprodurre il suono del Qin.
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La musica esprime, in un gioco di corrispondenze, l’unione dell’uomo con il mondo divino. Sull’origine della musica ci sono varie versioni, una di queste la fanno derivare dalla imitazione delle voci dell’uccello mitico Feng-Huang. Non per nulla lo storico cinese Ssu-ma Ch’ien scriveva che “i riti e la musica s’innalzano al cielo e discendono sino alla terra … Per questo i saggi non hanno parlato che dei riti e della musica”. Nel Li Chi, il classico cinese dei riti, è scritto: “Quando un saggio crea la musica e i riti allora splendono il cielo e la terra”. Pertanto la musica, come la poesia, è il regolatore dei cicli cosmici. Quindi lo scopo della musica è come quello della poesia: come quest’ultima, riflettendo l’ideologia confuciana, deve spingere alla virtù, così la musica non viene fruita per diletto ma per la elevazione morale, in uno stretto connubio tra uomo (fisiologia) e virtù (mondo sottile). Sempre nel Li Chi, infatti, è scritto che “la nota shang commuove i polmoni e mette in armonia con la giustizia perfetta; la nota chiao commuove il fegato e mette in armonia con la bontà perfetta”, e così via.
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Questo retaggio del passato, per il quale la parola esprime qualche cosa di assoluto, si ritrova ancora oggi in Cina quando alcune espressioni cinesi influenzano il comportamento. Nel nord della Cina per augurare la ricchezza tanto desiderata si preparano ad inizio d’anno i ravioli (jiaozi) perché la loro forma a falce imita i lingotti d’argento, usati come metodo di pagamento nell’epoca Han, ma anche perché la prima sillaba ricorda il suono di “stringere amicizia” (jiao) e la seconda contiene il carattere di “figlio” (zi): le amicizie importanti e la discendenza numerosa sono segni di una famiglia prestigiosa e ricca. Pensiamo altresì che in Cina è buona educazione fare regali agli ospiti, ma “regalare orologi” (song zhong), soprattutto alle persone anziane, è rischioso, perché la pronuncia del termine si differenzia da quella di “veglia funebre” (song zhong) solo dal tono della seconda sillaba. E così via.
Quindi cosa è la poesia cinese antica? È impossibile per un occidentale entrare pienamente in questo ordine di idee, così olistico, così immaginifico, così dinamico, così assoluto, così diverso da noi. In Occidente le parole si sono oramai stereotipate in concetti abusati da tutti, anche dai poeti, e poi nemmeno nell’antichità erano concepite in senso cosmogonico, se non forse per influsso orientale.
Abbiamo visto che caratteristica della poesia cinese è la complementarietà biao/li, “esterno/interno”: questo binomio di parole cinesi indicava anticamente rispettivamente l’abito esterno e la sottoveste, ma Liu Xie lo adopera sovente per indicare rispettivamente la forma e il contenuto, tra loro intrecciati. Invece la poesia occidentale segna la forma come un mero artificio non collegato naturalmente con il significato.
Continua Liu Xie: “Nel momento in cui (il poeta) prende in mano il pennello, il suo slancio creativo (qi) trionfa sul linguaggio: ma una volta compiuta l’opera, egli ha espresso solo la metà di quanto il cuore voleva dire”.
L’ideale confuciano dell’uomo cinese, che controlla la mente e la tiene legata al dovere in ossequio alla tradizione degli antenati, è espresso in una poesia del Libro delle Odi, un classico della letteratura cinese, con queste parole: “L’uomo onesto, il vero saggio, non muta di comportamento, ha il cuore al dovere legato, ha una condotta impeccabile, governa integro lo stato”.
Il Libro delle Odi (Shijing) è la più antica raccolta di poesia cinese giunta fino a noi. La concezione antica di poesia (shi) è diversa dalla nostra. Prova ne sia altresì il fatto che, nel Daxu, la Grande Prefazione al Libro delle Odi, è scritto: poesia è ciò verso cui si volge l’intenzione; quando sta nel cuore si chiama intenzione, invece si chiama poesia quando viene espressa oralmente; le emozioni sono nell’interiorità, ma prendono forma con la parola.
Originariamente, il Libro delle Odi emerge dai sacrifici ancestrali e dai rituali politici dei Zhou Occidentali. A quell’epoca la poesia era prodotta dagli ufficiali di corte. Le presenti Odi costituivano i testi dell’élite dominante Zhou. Le caratteristiche stilistiche di queste poesie sono: rima finale, rima metrica, onomatopee (elementi presenti anche nelle iscrizioni su bronzo dei primi Zhou Occidentali). Si tratta di un discorso metrico e ritmico diretto agli spiriti e all’élite politica. C’è una continuità di questo tipo di discorso con gli inni, le iscrizioni su bronzo e anche con le dichiarazioni solenni espresse dai sovrani (contenute nel Classico della Storia e in quello dei Documenti). In inglese di traduce con Book of songs, titolo che dà importanza all’accompagnamento musicale, ritmico (all’epoca c’erano dei veri e propri spartiti musicali con cui si accompagnavano le Odi).
Per come appare oggi, il testo è composto di 305 poemi, il cui verso principale è costituito di quattro sillabe. È un testo talmente importante che, dopo il rogo dei libri sotto i Qin, il Libro delle Odi fu conservato e tramandato sotto gli Han Occidentali in quattro versioni leggermente diverse, ciascuna con la propria tradizione di commentari. La versione che alla fine soppiantò le altre e che fu tramandata alla posterità è quella conservata e interpretata dalla famiglia Mao.
Le versioni ufficiali, presenti già all’inizio degli Han Occidentali, erano: Qi, Lu e Han in Jinwen (grafia nuova), che costituivano tre interpretazioni diverse del Libro. A corte c’era una lotta interna tra i letterati sostenitori del Jinwen e quelli sostenitori del Guwen (grafia antica). Nessuna di queste tre versioni riuscì però ad essere tramandata e a diventare quella ortodossa. Tale ruolo fu, invece, assunto dalla tradizione Mao del Libro delle Odi stilata da Mao Heng, del III-II secolo d.C., in Guwen. Si trattava di un’interpretazione del testo letterario delle Odi, inclusivo di: note esplicative (jian) e note storiche (pu). Il testo di Mao è stato poi impiegato e ripreso da famosi e importanti commentatori dei classici, primo fra tutti Zheng Huan. Secondo la tradizione ufficiale, Mao Heng ricevette gli studi sul Libro delle Odi del discepolo di Confucio Zi Xia da parte dei discendenti dello stesso.
Durante gli Han Occidentali la versione di Mao non era presa in grande considerazione, ma erano enormemente diffuse le altre tre. Solo con l’avvento dell’usurpatore Wang Mang (9-26 d.C.) il testo di Mao acquisì la stessa importanza e ottenne una cattedra alla corte. Con la restaurazione degli Han (26 d.C.) cadde di nuovo nell’oblio fino all’anno 83 e poi, grazie agli sforzi del letterato Jia Kui (174-228), soppiantò per importanza le altre tre versioni. Il testo quindi si diffuse durante gli Han Orientali e venne accolto nella scuola Guwen nonostante fosse nella grafia nuova perché Mao si rifà a fonti care alla scuola Guwen.
Delle altre tre versioni, scomparse già nel III secolo d.C., abbiamo solo alcuni titoli di certe opere esegetiche il cui contenuto è andato perduto. Tuttavia qualche cosa ci è rimasta nell’unica opera esegetica sopravvissuta, lo Hanshi waizhuan di Han Ying. Probabilmente alcune Odi sono presenti su alcuni manoscritti in bambù del periodo degli Stati Combattenti ritrovati nella seconda metà del Novecento. Queste Odi presentano varianti testuali rispetto a quelle della versione di Mao, analizzate da Kern.
Bisogna anche dire che le Odi erano molto citate soprattutto nei periodi Han e degli Stati Combattenti, quindi nelle fonti letterarie di quei tempi si possono trovare anche Odi non confluite nella versione di Mao, le quali, durante i periodi Ming e Qing, vennero raccolte e chiamate Odi perdute (Yishi).
La struttura dell’edizione a noi trasmessa del Libro delle Odi è in quattro sezioni:
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Guo Feng, Arie degli Stati: trattano di amore, nostalgia dei soldati in guerra, asprezza della vita contadina, satira politica, e sono risalenti al VIII-VII secolo a.C.
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Xiao Ya, Odi/Inni minori, al IX-VIII secolo a.C.
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Da Ya, Odi/Inni maggiori, al X secolo a.C.
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Song, Odi solenni/Inni. XI-X secolo a.C.
Il Libro delle Odi è tradizionalmente datato tra il 1000 e il 600 a.C. Nessuna delle poesie è attribuita ad un autore, sono tutte anonime. La lettura storica e le interpretazioni sono prodotte in epoca Han (quindi a posteriori). È un testo legato alla figura di Confucio. Sima Qian, nelle sue Memorie di uno storico, attribuisce la compilazione del Libro delle Odi a Confucio. Secondo Sima, Confucio avrebbe selezionato 300 delle primitive 3000 Odi (ma dove sarebbero finite le altre 2700?). In quel periodo vi è la tendenza a collegare tutti e cinque i Classici alla figura di Confucio, modello di Saggio e primo ru classicista. Le Odi venivano utilizzate durante le ambascerie o gli incontri con il sovrano. Conoscere le Odi e saperle recitare era sinonimo di essere persona colta ed erudita. All’interno dei Dialoghi di Confucio sono spiegate le funzioni pratiche delle Odi nel loro uso quotidiano a corte da parte dei funzionari. Il Libro delle Odi è ricolmo di piante ed animali, usati in modo allegorico o per costruire similitudini.
Le Odi non si sono mantenute nella loro forma originale e senza dubbio sono state ritoccate e abbellite dai raccoglitori. Per esempio, la sezione Guo Feng abbraccia un periodo arcaico ed un territorio che si estende dalla vallata del Fiume Giallo a quella del Fiume Azzurro, e che fu diviso in quindici stati: in un territorio così vasto le poesie delle varie popolazioni dovrebbero essere differenti nella forma, negli stili e nei ritmi, cose che cambiano secondo i tempi e i luoghi, però tale sezione oggi la leggiamo in versi tutti di quattro sillabe e con i ritmi uguali senza diversità di dialetti.
Bisogna anche dire che il Guo Feng deriva da canzoni popolari e nonostante questo è stranamente omogeneo. La linguistica dimostra che i testi popolari sono per natura assai diversi gli uni dagli altri in quanto dipendono strettamente dalla particolare tradizione che li esprime. È quindi evidente che il Guo Feng sia stato sistematizzato togliendo quegli elementi di diversità che lo avrebbero dovuto contraddistinguere. Un indizio filologico che il Guo Feng contenga poesie popolari, poi abbellite e normalizzate dai raccoglitori, lo abbiamo dal Hsi: alla fine di molti versi abbiamo Hsi, come avviene spesso in altre poesie antiche. La parola Hsi anticamente si pronunciava A ed era una particella finale usata dagli antichi popoli quando parlavano. Quindi possiamo capire che molte poesie del Guo Feng sono scritte nell’antica lingua effettivamente parlata dalla popolazione.
I principali generi della poesia cinese antica sono: shi (in questo caso la parola non indica la poesia in generale ma un genere particolare), ci, cipai (molto breve, quasi sempre tre caratteri), fu (celebra l’imperatore, la sua ideologia e la sua corte), yue fu (al contrario del fu, attento ai bisogni del singolo).
Secondo gli orientamenti storiografici recenti, il yue fu non è un tipo di fu, bensì dell’Ufficio della musica. L’Ufficio (istituito già prima, ma potenziato dagli Han) produceva la musica per l’intrattenimento di corte e per i sacrifici ed era aperto all’inclusione di nuove arie provenienti dai Paesi appena conquistati (Asia centrale), oltre a quelle tanto amate da Hanwudi, ossia quelle originare del sud e in particolare dallo Stato di Chu (poi criticate dagli Han Orientali, molto più ortodossi). Nel 32-31 a.C., alla fine degli Han Occidentali, il cancelliere Kuang Heng richiese che le moderne melodie licenziose venissero abbandonate per ristabilire le appropriate melodie antiche. Nel 7 a.C. l’Ufficio per la musica fu quindi chiuso. L’istituzione dell’Ufficio viene attribuita a Hanwudi, ma le scoperte archeologiche hanno ritrovato il termine in bronzi Qin. Yue fu è una parola tradotta talvolta come “ballata”, a partire dall’epoca medievale. La tradizione letteraria interpreta l’ufficio come creato per collezionare canzoni popolari per le strade dell’impero: si tratta di un equivoco, di una “costruzione postuma”. Questo Ufficio che provvedeva a raccogliere le musiche per le cerimonie e i sacrifici, e anche i canti popolari.
Nella filologia cinese un termine assai importante è: wen. Originariamente significava “modello” (pre-imperiale). Poi acquisirà altri significati: condotta militare, melodie musicali, decorazioni, ma in particolare i riti della cultura Zhou.
Nei Dialoghi di Confucio wen indica il sistema di scrittura ideografica cinese (caratteri) inclusivo dei valori distintivi della cultura Zhou (rispetto degli anziani, essere degno di fiducia, umanità, cultura). Quindi un ulteriore significato della parola wen è “cultura”, ma anche “civiltà”. Altresì: “segno”, “forma”, “segno scritto”, “scrittura”, “letteratura”.
Grossomodo al tempo di Confucio (VI secolo a.C.) si scriveva in cinese classico, che è la lingua del I millennio a. C., nel quale sono redatte opere immortali anche come il Mencio e il Tao Te King. In seguito, dalla fine degli Han (206 a. C.-220 d. C.) si cominciò a usare il cinese letterario, fino a che non si iniziò a scrivere in cinese vernacolare, cioè un cinese parlato, che oggi è la varietà più usata da chi compone in cinese. Ci sono molti studi sulla storia del cinese vernacolare. Per esempio Hu Shih ha studiato il suo uso nella letteratura buddhista Chan. I buddhisti trovarono inadeguato il cinese letterario, quindi iniziarono a tradurre nel vernacolare, per poi utilizzarlo diffusamente.
Il buddhismo è di origine indiana (la predicazione del Buddha avviene nel VI secolo a. C.) e arriva in Cina nel I secolo d. C. e in Giappone nel VI secolo d. C. Gli studiosi di letteratura comparata stabiliscono molti collegamenti tra le diverse letterature. Consideriamo anche il fatto che le notazioni bisettili, di cui abbiamo accennato, compaiono in Cina grossomodo nel periodo in cui arriva il buddhismo. Per quanto riguarda il Giappone, il confucianesimo arriva in Giappone nel III secolo d.C. Si distingue tra waka (poesia in giapponese) e kanshi (poesia in cinese scritta da giapponesi). Esistono molti punti di contatto tra poetica cinese e poetica giapponese.
Il cinese letterario era una sorta di lingua franca (in Corea, Giappone, Vietnam e in tutto l’impero cinese), un po’ come lo era il latino in Occidente. Ciò significa che anche questi altri Paesi asiatici si servivano della lingua cinese letteraria per le loro opere. Tutt’oggi, al di là dei dialetti, in tutta la Cina ci si ritrova a livello di lingua scritta letteraria (portatrice, tra l’altro di una serie di valori intrinsechi, come una specie di DNA).
Con la dinastia Qing (1644-1911) si viene a creare un primo metodo sistematico di scrittura cinese. Oggi esistono circa 80.000 caratteri, secondo il Grande dizionario dei caratteri cinesi, il più grande dizionario di cinese che esista (in Cina è ritenuto alfabetizzato chi conosce almeno 2.000 caratteri). Invece il Grande dizionario cinese ha 307.000 voci, contiene il maggior numero di parole e espressioni mai raccolte nella storia cinese (in questo dizionario ci sono voci relative a 23.000 caratteri).
In Cina i primi sistemi di scrittura antichi furono:
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Jiaguwen, le iscrizioni oracolari su ossi di bovino (scapole) e gusci di tartaruga (piastrone). Sono le prime testimonianze di scrittura giunte fino ad oggi, poiché il loro materiale era durevole, ma non furono le primissime forme di scrittura. Il primo identificatore e collezionista di ossa oracolari su ampia scala è Wang Yirong (che allora era direttore dell’Accademia Imperiale, nonché collezionista di bronzi). Egli si rese conto, tra il 1845 e il 1900, che le “ossa di drago” vendute nelle farmacie (dopo essere state ritrovate dai contadini arando i campi) erano in realtà, appunto, ossa di tartaruga o di bovino solcate da iscrizioni che assomigliavano in parte ai caratteri cinesi moderni. In tutto sono stati ritrovati circa 150.000 frammenti, grazie ai quali sono stati identificati circa 5000 caratteri, mentre altri restano di significato ignoto. Queste iscrizioni sono scritte dall’alto verso il basso, e non da sinistra a destra. Queste ossa oracolari erano utilizzate per pratiche divinatorie/sacrificali, per mostrare il sovrano nella sua prerogativa di comunicare con gli antenati e assicurarsi la loro benedizione (la società umana voleva così controllare i fenomeni naturali), ben diverse dai materiali di uso comune e quotidiano. Le ossa oracolari non erano fatte per assumere valenza storica, ma meramente come testi divinatori. Esse contenevano la domanda alla divinità, la sua risposta e, in alcuni casi, anche la verifica dell’effettivo accadimento nella realtà. Queste ossa erano avvicinate al fuoco e sulla base delle incrinature così generate si interpretava la risposta (piromanzia).
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Jinwen, le iscrizioni su bronzi, tripodi, campane, e così via. In particolare si tratta di recipienti per cibarie e alcolici usati durante i sacrifici (e poi inumati insieme ai corpi). Esse appaiono a partire dal 1250 a.C. La maggioranza di essi contiene da 1 a 5 caratteri che specificano il donatore del bronzo, e il motivo del sacrificio. I bronzi non sono molto grandi, non raggiungono mai dimensioni maggiori di 50 cm. Siccome i contenitori erano così piccoli, gli studiosi pensano che le cerimonie in epoca Shang fossero piuttosto ristrette (sovrano, sacerdote e pochi altri). Anche queste erano iscrizioni meramente divinatorie/sacrificali.
Sia le ossa oracolari sia i bronzi dovettero comparire almeno dal periodo Shang. L’esatta storia della Cina si perde nella notte dei tempi: a partire dal periodo degli Stati Combattenti è iniziata una operazione di sistematizzazione del materiale storiografico secondo schemi convenzionali, i quali raggiunsero l’apice in seguito con il confucianesimo, il quale ci ha tramandato un modello tripartito della più antica storia cinese. Si tratta del succedersi di tre prime dinastie pre-imperiali: Xia, Shang, Zhou. Questa tripartizione è molto criticata dagli storici moderni.
Dopo gli Zhou, avvenne l’unificazione della Cina e la fondazione dell’impero (dinastie Qin e Han). Il periodo medioevale (dalla caduta degli Han Orientali alla dinastia Tang). Il primo periodo moderno della storia cinese (dinastia Song). Gli imperi barbarici (dagli Liao agli Yuan). L’età moderna (la dinastia Ming).
Gli studi archeologici della Cina antica hanno questa storia:
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Antiquarismo antico, nel XI secolo a.C., quando i cinesi facevano classificazione e identificazione di collezioni di bronzi e giade antiche, ma non si trattava ancora di una disciplina scientifica
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Johan G.Anderson (anni Venti del XX secolo) effettuò i primi scavi nel bacino del fiume Giallo e fondò l’archeologia come scienza
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C.K. Chang (anni Ottanta) propose la teoria della sfera di interazione tra diverse culture regionali neolitiche che comunicavano fra loro (confutando la teoria di un unico potere centrale). Questo è l’approccio più diffuso negli studi archeologici contemporanei.
Le tre macro aree in cui si concentrano gli scavi archeologici e in cui i svilupparono le prima culture neolitiche cinesi sono:
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Cina settentrionale, presso il bacino del Fiume Giallo, la zona più fertile e quindi più densamente popolata nell’antichità molti reperti archeologici
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Cina meridionale, lungo il fiume Yangzi
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Zona del bacino del fiume Sichuan.
Queste zone furono le culle delle prime civiltà neolitiche, ma erano molto differenti per clima e tipologia di terreno. Nel primo periodo neolitico si pensa che la maggior parte della popolazione vivesse ad est, nel basso corso del fiume Giallo. Verso la fine del Neolitico una serie di inondazioni causate da esondazioni del fiume Giallo porteranno un gran numero di persone ad emigrare verso il medio corso del fiume Giallo ((il fiume Giallo è formato da un terriccio rosso che, sedimentandosi, ha causato molte esondazioni le quali hanno portato il fiume a cambiare il suo corso molte volte nei secoli). La catena dei Monti Ginling fa da confine naturale tra il corso del fiume Giallo e il corso del fiume Yangzi, e conseguentemente tra Cina settentrionale e Cina meridionale. La prima ha estati calde e secche ed inverni freddissimi (venti siberiani), la seconda ha un clima monsonico (molte precipitazioni). A nord (siccità ciclica, che causarono ribellioni contadine) vengono coltivate culture a secco, senza irrigazione artificiale, mentre a sud si coltiva il riso, grazie alle frequenti piogge. Le culture del nord (Cishan, Peiligang e Dadiwan) datate tra il 7500 e il 5000 a.C. si caratterizzarono per la costruzione di abitazioni a pianta quadrangolare o rotonda.
La prima organizzazione statale cinese risale alla terza fase del periodo Erlitou (secondo le evidenze archeologiche, come resti di palazzi che potevano essere sede del governo), durante la quale c’erano tutti gli elementi necessari alla costruzione di uno Stato:
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Ascesa della città di Erlitou a sito ampio e densamente abitato. quindi a capitale
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Formazione di un sistema gerarchico e, dunque, esistenza di una élite dominante
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Costruzione di una “città palazzo” fortificata
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Industria del bronzo sviluppata e sponsorizzata dallo Stato
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Sviluppo di rituali statali che implicano l’uso di vasselli di bronzo.
Dal centro politico le élites dominanti cercarono di espandersi anche nelle zone periferiche per reperire risorse, sia materiali che umane (per il sostentamento).
Gli storici moderni stanno evidenziando come il concetto di Stato sia una nozione piuttosto recente in Cina. Inizialmente si parlava di Zhongguo, ossia di “stati centrali”, che sono gli stati principali del bacino del Fiume Giallo, culla dello sviluppo della civiltà cinese. Questo termine fu coniato nel periodo degli Zhou Orientali (771-221 a.C.). Solo in seguito il termine diventerà singolare e indicherà lo “Stato di mezzo”.
I primi imperi non si definivano “cinesi”, ma si identificavano con il nome del casato regnante, ad esempio “abitanti di Tang” o “abitanti di Liao”. Il processo di creazione di un Impero fatto per i cinesi e di un’identità culturale cinese iniziò solamente dall’XI secolo a.C., anche se politicamente l’unità si realizzò solo secoli dopo.
Nel periodo pre-imperiale esistevano dei termini, che sono Xia, Hua, Hua Xia e Zhu Xia, per indicare un’identità ed una serie di valori condivisi solo dalle élites pre-imperiali dal XIII secolo a.C.
I recenti orientamenti storiografici a carattere scientifico non considerano oro colato la tradizione delle tre prime dinastie, ma, come abbiamo detto, tendono a revisionare i dati tradizionali, pur tramandati per millenni, in forza dei recentissimi dati archeologici, epigrafici e storiografici. Gli storici moderni stanno cercando di decostruire l’immagine unitaria data dalla tradizione, evitando così di prendere gli eventi tradizionali sempre come un dato di fatto. Questo è un approccio critico che permette di capire davvero l’evoluzione della storia cinese.
La dinastia Xia (2205-1751 a.C.): pur riferendo notizie spesso sottovalutate dagli studiosi e considerate alla stregua di racconti mitologici, gli Annali cinesi tradizionali rivelano a volte fatti storici reali. Anche l’esistenza della Dinastia Xia fu a lungo messa in dubbio, finché negli anni Settanta del Novecento venne scoperto ciò che rimaneva di Xia Xu, una delle capitali Xia, nel sito di Taosi. Il sito, a pianta rettangolare, presenta diverse piattaforme in hangtu su cui sorgevano palazzi residenziali e templi in legno, la cui sontuosità è testimoniata da alcuni frammenti di intonaci multicolore con incisioni. La popolazione Xia viveva in capanne semi-ipogee non molto diverse da quelle di epoca neolitica. Il ritrovamento più rilevante è, però, quello della necropoli, dove accanto a molte tombe prive di decorazioni o corredo, sono state rinvenute nove tombe occupate da uomini con un ricchissimo corredo. Queste tombe erano circondate da altre di altezza media con individui femminili. Sempre basandosi su questo complesso funerario si può affermare che sicuramente i Xia compissero sacrifici umani (alcuni cadaveri sono stati riesumati con i polsi legati o privi di parti del corpo). A sud della zona residenziale è stata trovata una fonderia, a nord un laboratorio di ceramica, ad est un laboratorio per la lavorazione di oggetti in osso.
Dagli scavi archeologici è emersa anche la città di Yin, l’ultima capitale degli Shang (1751-1046 a.C.), nelle cui fosse sono state rinvenute le ossa oracolari. Fino ad un certo periodo si usarono solo ossa di bovini (già dalle pratiche neolitiche), gli Shang devono aver introdotto anche i gusci di tartaruga. Il periodo Shang può, quindi, essere visto come l’ingresso nella storia della civiltà cinese grazie al rinvenimento della scrittura sulle ossa oracolari.
A partire da un preciso sovrano Shang, Wu Ding, le ossa oracolari meglio trattate iniziarono ad avere queste parti:
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Xuci: il preambolo, nel quale era indicata ad esempio la data della divinazione e il nome di chi eseguiva la divinazione
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Mingci, la domanda rivolta agli spiriti
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Zhanci, il pronostico effettuato dal re sulla base dell’interpretazione delle incrinature
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Yan, la verifica dell’adempimento del pronostico.
Già nelle ossa oracolari più antiche vi potevano essere anche “notazioni marginali” (jishi: come il luogo di provenienza) e “preparazione rituale” (shi). A volte le scritte erano colorate, dalle analisi chimiche risulta che quelle rosse sono formate da solfuro di mercurio, quelle brune da materiale di carbone (o forse il carbone risulta dal fuoco appiccato durante la piromanzia).
L’ultimo periodo Zhou (1045-256 a.C.), epoca di declino, segna, per i bronzi, anche la nascita di testi molto più lunghi e le cerimonie diventano più fastose e ampie. Questi fenomeni avvennero in concomitanza con il declino del potere centrale del sovrano. I testi scritti assumono così la funzione di legittimazione del potere (crescente potere dei zhou zhou, i governatori locali).
Verso la fine dei Zhou Occidentali la parte ad est del territorio (in mano ai governatori locali) stava scivolando via dal loro controllo (infatti reperti risalenti a quegli anni sono stati trovati solo nella regione del fiume Wei). La maggiore grandezza e decorazione dei bronzi ci fa intuire come anche le cerimonie fossero divenute più estese. Si cominciò, inoltre, a produrre bronzi in serie, unificati nel materiale e nell’espressione stilistica: produzione di massa e istituzionalizzazione sociopolitica più avanzata.
Le iscrizioni delle cerimonie di consegna delle cariche erano inizialmente scritte su listarelle di bambù e presentate quando il re consegnava la carica ad un appuntato. Questa “bozza” dell’iscrizione veniva poi copiata su un bronzo dedicato all’appuntato. Queste iscrizioni (molto più lunghe che in passato) erano formate da tre parti:
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Resoconto della cerimonia e dei discorsi tenuti
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Presentazione che l’appuntato faceva dei suoi antenati e dei suoi meriti (accordi legali, matrimonio, visite diplomatiche, conquiste militari, e così via)
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Responso di approvazione del re e la consegna della carica (discorso che segue formule standard).
Le frasi di queste iscrizioni spesso erano introdotte da formule quali “Io, XXX, disse” o “il re disse con approvazione” o anche solo “disse”.
Le iscrizioni su bronzo dei Zhou Occidentali sono sotto molti aspetti la sorgente della letteratura cinese. I loro testi emergevano da rituali di corte rigorosi e fondevano la legittimità politica con la comunicazione religiosa in una solo forma espressiva. Grande importanza in tali scritture avevano anche gli antenati della famiglia (il loro spirito era considerato ancora presente e potente).
La sempre più raffinata estetica delle rime, metrica, onomatopea e altri elementi eufonici indicano che le iscrizioni fossero create per essere lette e ascoltate. Esse non raccontavano tutto ciò che succedeva, ma solo ciò che era “degno” di essere narrato. La loro poetica parlava, allo stesso tempo, agli spiriti dei defunti e alla comunità vivente. La loro ripetizione in set stava ad indicare lo status e il prestigio del donatore o del possessore. La loro stessa esistenza metteva la scrittura in un ruolo di espressione della religione e del potere politico.
I testi su bronzo iniziarono a mostrare l’auto consapevolezza di una classe ereditaria di “scribi” o “portatori di ricordi”, che si ritenevano i più alti ufficiali a corte. Nessuna delle iscrizioni riporta direttamente i nomi di che compiva effettivamente l’atto di scrivere, quanto piuttosto la produzione dell’iscrizione e la sua presentazione rituale. Un esempio di questa “classe di scribi” è il bacile dello Scriba Qiang, prodotto intorno al 900 a.C., che presenta l’iscrizione –in cui lo Scriba Qiang si presenta come membro della corte dei Zhou Occidentali – sulla sua parete interna, altrimenti liscia.
Sono state ritrovate diverse iscrizioni incise sui recipienti sacrificali in bronzo degli Zhou Occidentali, che narrano casi di insubordinazione contro il potere legittimo, furto, mancata riscossione di imposte, transazioni di proprietà terriere o liti a seguito di trattative tra intermediari. I recipienti, prima di venire tumulati, erano impiegati nei templi ancestrali. Gli studiosi collegano questi recipienti ad un ricco e complesso rituale religioso presente presso le elites Zhou. Nel Commentario di Zuozhuan, viene presentata la figura di Zi Cheng, statista e primo ministro del principato di Zheng, che decretò la prima codificazione del codice penale su un tripode di bronzo del 553 a.C. Soltanto nel 513 il principato di Qin codificò su oggetti rituali in bronzo il codice penale.
La poesia cinese emerge dai sacrifici ancestrali e dai rituali politici dei Zhou Occidentali, presso i quali era prodotta dagli ufficiali di corte. Inizialmente la poesia era intesa come un tipo di discorso o canzone più ritmico e intensificato, includente rime, allitterazioni, binomi reduplicativi ed onomatopee; questo tipo di poesia era indirizzato sia agli spiriti che alla classe politica.
Questi elementi caratteristici apparivano già, anche se in forma sporadica, nelle prime iscrizioni dei Zhou Occidentali e il loro uso si intensificò durante gli Zhou Orientali (ma mai ai livelli del Libro delle Odi che è giunto fino a noi).
La versione a noi conosciuta del Libro delle Odi è il prodotto stratificato di un lavoro di edizione e sistematizzazione. Questo tipo di discorso/canzone ritmico è presente anche nel Classico dei Documenti e in quello dei Mutamenti (entrambi risalenti sempre all’epoca dei Zhou Occidentali). Alcuni studiosi hanno identificato passaggi poetici e rimandi alla natura nei primi strati del Classico dei Mutamenti, che sembrano paralleli a quelli presenti nel Libro delle Odi. Lo stesso accade nei discorsi ritmati attribuiti ai primi re Zhou e riportati nel Classico dei Documenti.
In ogni caso, l’esempio più rappresentativo e completo della poesia cinese antica è il Libro delle Odi, che contiene magnifici esempi di testi polivocali ed estese narrazioni che, seppur nella loro brevità, tracciano le linee fondamentali della storia dei Zhou.
La carta arriva solo in epoca Han, ma essa restava ancora un materiale poco usato, perché costoso e deperibile. Inoltre, i testi scritti su carta o seta rimangono tali, non possono essere tagliati o mutati: per questo Classici erano scritti su seta o carta. Altri materiali impiegati furono, ad esempio, le listarelle di bambù, più comode poiché rendevano il testo mobile (si potevano spostare le listarelle, aggiungerne o toglierne).
A quel tempo i libri erano oggetti veramente preziosi, dato che era difficile e laborioso scrivere interi libri sulle listarelle di bambù (ad esempio, ogni capitolo occupava una serie di listarelle), o ancor di più su seta. Era quindi un vanto e un segnale di prestigio per le famiglie aristocratiche possedere una grande biblioteca a casa propria.
Conferma di un legame tra la legge e la dimensione sacra ci viene anche dall’esame dei Manciù mediante i giuramenti di sangue nell’area Jin. Sono state ritrovate delle testimonianze del VI-V secolo a.C. in tavolette sottili e allungate, appuntite, rinvenute in due siti: Houma e Wenxian.
Le fonti di Houma sono circa 5.000 frammenti e ogni tavoletta presenta una iscrizione sulla quale veniva registrato il patto di fedeltà politico-militare tra il capo di diverse famiglie o clan con il leader, il sovrano più forte. Costoro si impegnavano a respingere i comuni nemici, attraverso una alleanza siglata con il sangue dinanzi agli spiriti dei sovrani defunti, che venivano evocati con cerimonie sacrificali. La lealtà veniva stabilita bagnandosi le labbra con il sangue versato durante il rito, in più venivano elencate le punizioni per inadempimento. I testi venivano scritti con pennello e inchiostro nero e rosso e rappresentano suppliche ai potenti duchi dei Jin per favorire il rispetto dell’alleanza. Le iscrizioni venivano chiuse con una maledizione, che lo stipulante invocava su di sé e sul clan: se le parti non avessero rispettato il patto, gli spiriti li avrebbero puniti.
Nelle fonti di Wenxian, 16 delle 124 fosse che custodivano le tavolette non nominano i nemici contro cui schierarsi, ma invocano maledizioni su di loro. Le iscrizioni presenti nella fossa 1 si contraddistinguono per la presenza di una sola data, che indica il giorno della avvenuta inumazione dei testi, volutamente seppelliti in biblioteche, archivi, fosse sacrificali, disponibili agli spiriti preposti.
La poesia della Cina imperiale inizia con il primo Imperatore del periodo Qin (221-206 a.C.). Dopo aver stabilito l’unificazione dell’Impero nel 221 a.C., l’imperatore, insieme ai suoi classicisti ru di corte, intraprese un tour nelle regioni orientali appena conquistate; essi eressero 7 steli inscritte e le posizionarono sulla cima di alcune montagne. Sei di queste steli sono incluse nelle Memorie di uno Storico. Poco rimane di queste iscrizioni. Molte fonti tradizionali hanno attribuito queste iscrizioni, sia il testo che la calligrafia, al cancelliere della corte Qin, Li Si. Alcuni studiosi moderni pensano che le prime iscrizioni siano in realtà creazioni retrospettive del figlio. Tutte e sette le iscrizioni commemorano non solo l’unificazione, ma anche l’atto dell’iscrizione e della loro recitazione. Questi testi cono composti di 72 o 36 versi, regolari sia nella lunghezza che nell’uso delle rime. La loro dizione, il loro vocabolario, e la loro retorica politica richiamano e continuano gli Inni del Libro delle Odi, nonché le iscrizioni su bronzo pre-imperiali, celebrando l’unificazione non come atto ottenuto con la forza militare, bensì tramite l’ordine morale. Inoltre, essi sono indirizzati direttamente agli spiriti di tutto il cosmo (e non più solo quelli del tempio ancestrale), in un nuovo rituale politico: il tour imperiale dell’ispezione.
I testi, scritti nel linguaggio ufficiale dell’Impero Qin, iscrivono il nuovo ordine politico in un sito naturale significativo religiosamente, integrando gli Stati precedenti nella nuova unità politica di Qin. Trasformazione degli Stati orientali da soggetti della loro storia e delle loro memorie in oggetti della storiografia e della rappresentazione religiosa dell’Impero Qin.
Il secondo ciclo della poesia imperiale, che seguì immediatamente le iscrizioni Qin, è di natura simile: 17 Inni che l’Imperatore fondatore degli Han, Gaozu, usò nei suoi sacrifici ancestrali. Composti tra il 202 e il 195 a.C., furono probabilmente creati da un altro gruppo di classicisti ru (parzialmente gli stessi dei Qin). La loro dizione è ispirata agli inni Zhou e alle iscrizioni su bronzo.
La poesia al tempo degli Han Orientali si costituiva di versi di vario tipo:
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La forma più antica era il verso si yan o tetrasillabico, usato nei componimenti del Libro delle Odi
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Un’altra forma era il verso tipico dei Versi di Chu, ossia quello del Lisao con la particella ritmica
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Due forme che emersero durante gli Han erano il wu yan o verso pentasillabico, e quello di sette sillabe.
La forma tetrasillabica era generalmente riservata per occasioni serie e solenni. Questo tipo di verso era anche impiegato per esprimere critica politica o sentimenti personali.
Durante gli Han Orientali alcuni poeti usavano il verso tetrasillabico per comporre canzoni nello stile degli Elogi nel Libro delle Odi. Alla fine del suo Fu sulle due capitali, Ban Gu inserì tre versi tetrasillabici per scrivere della sua storia personale e familiare. Zhu Mu, invece, usò questo tipo di verso per concludere una lettera di “rottura di un’amicizia” con Liu Bozong. Allegato alla lettera c’era un poema di 16 versi in forma tetrasillabica nei quali egli comparava Liu Bozong a un gufo rapace che “festeggia sulle carcasse”.
Il formato poetico le cui origini sono più comunemente associate all’epoca Han è il componimento in verso pentasillabico. La Storia degli Han riporta un poema in versi pentasillabici, la famosa Canzone della bellezza attribuita al musicista di corte Li Yannian. Ci sono molte versioni di tale canzone. Quella contenuta nella Storia degli Han non è in un perfetto formato pentasillabico, in quanto il penultimo verso è composto di 8 sillabe. La fonte più antica di poemi in verso pentasillabico attribuiti agli Han è: Monografia sulla musica.
Nel periodo Han sorse una novità in poesia: wu yan o qi yan (cinque sillabe o sette sillabe per verso). La poesia wu yan (pentasillabica) ha 5 regole fondamentali:
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cinque caratteri per verso;
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numero di versi variabile;
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versi organizzati in coppie (distici)
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la rima di solito appare alla fine del secondo verso del distico
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La cesura generalmente appare dopo i primi due caratteri.
Ci rimangono molte poesie del periodo degli Jin Occidentali (265-317 d. C.). Metà dei componimenti poetici rimasti sono in si yan, che era ancora uno dei versi prediletti dai letterati, poiché legato al Libro delle Odi e quindi legittimava il contenuto. Erano molto comuni, inoltre, scambi epistolari tra letterati. Lo yuefu è anch’esso molto diffuso (forte influenza sugli autori Jin dei componimenti di Cao Zhi). Grande produzione di fu. Sono più rari i lunghi dafu; favoriti i componimenti yong wu fu (fu sugli oggetti): strumenti musicali, frutta, verdura, animali, insetti, piante, oggetti vari. Questi ultimi erano scritti in maniera giocosa durante i banchetti o i ritrovi; ad esempio Shu Xi scrisse il Bing fu (un fu sull’impasto della pasta). Questa tipologia è molto importante per capire le abitudini quotidiane dell’epoca. Ovviamente, tuttavia, erano criticate dai classicisti per la mancanza di una finalità didattica.
Nel periodo Liu-Song (420-479 d. C.) la grande innovazione poetica fu la poesia jueju (letteralmente “versi troncati”). Si tratta di poesia costituita da una quartina (4 versi) che diventerà una delle forme più usate sotto i Tang. Il nome è derivato probabilmente dall’usanza di scrivere “versi collegati”: 2 o più poeti componevano quartine; un poeta rispondeva ed espandeva la parte scritta dal poeta che lo precedeva; quando una quartina non aveva risposta diventava “versi interrotti” duanju o “tagliati” jueju.
Nel periodo Liang (502-557 d. C.) si impose la poesia di palazzo o gong ti shi. All’inizio questo termine fu coniato per identificare lo stile (ti), non il contenuto delle poesie scritte da e alla corte di Xiao Gang nel 531. Spesso questo tipo di poesia è erroneamente interpretata come una poesia unicamente ornamentale, dedicata alla descrizione della vita di palazzo; in seguito fu giudicata poesia licenziosa di uno Stato in decadenza. All’interno del Liangshu è scritto, riguardo la nuova attività poetica gong ti shi, che essa è xin bian: queste due parole cinesi vogliono significare che la poetica è “nuova” nel senso di popolare, comunque in contrapposizione con la poesia classicista, e “che devia dalla norma” (nell’epoca Tang si dirà chiaramente che la poesia gong ti shi sia un prodotto della decadenza, che tratta temi frivoli, decretando in questo modo la sua dissoluzione). In realtà si tratta di una poesia innovativa che offrirà in seguito molte possibilità creative e i suoi soggetti coprono tutti gli aspetti della vita dell’élite a corte. In contrapposizione alla poesia precedente che descriveva il mondo in termini generici e aspirava a rappresentare la totalità del paesaggio, la poesia di palazzo si concentra sui particolari spaziali e temporali e tenta di descrivere le cose per come si presentano in un determinato momento. Poesia fortemente visuale (informa su cosa vedere e su come vederlo) ed era influenzata dal buddhismo. Al periodo Liang risale il Wenxuan: la prima antologia letteraria a noi giunta ad organizzare la materia per generi. Probabilmente l’autore è Xiao Tong oppure un personaggio che si rifà al suo pensiero. Secondo Xiao Tong la letteratura del passato è strettamente collegata con quella del presente: la letteratura si evolve durante i secoli secondo un principio di assimilazione e trasformazione (detto tongbian), per il quale il presente si basa giocoforza sui testi precedenti e sugli ornamenti prodotti nel tempo. Invece il Yutai xinyong è una antologia di sole poesie, quasi tutte pentasillabiche, un genere molto in voga nel periodo Liang.
Nel periodo Tang (618-907) avviene la più importante produzione di opere letterarie. si parla di Cultural Tang: dal 650-1020, cioè dal Regno dell’imperatrice Wu fino a 50 anni dopo l’inaugurazione dei Song si estendono le caratteristiche culturali tipiche dei Tang, fin quando non appaiono importanti figure di letterati, tra cui Ouyang Xiu che danno all’atmosfera intellettuale Song un’immagine, una caratteristica propria, distinta da quella Tang. Avvengono fondamentali cambiamenti a partire dal 650: fino a questa data la letteratura era concentrata sulla corte imperiale, in seguito era prodotta sì da un’elite che poteva ricoprire delle cariche governative, ma che poteva finalmente vivere (mantenersi) della propria fama di letterato. La letteratura era un mezzo per ottenere una distinzione sociale o un riconoscimento sociale: ming significa sia “nome” sia “fama”. La “fama” fino al VII secolo dipendeva dallo Stato, dai riconoscimenti imperiali, in particolar modo ottenuta tramite il sistema degli esami Imperiali; dal VIII-IX secolo la “reputazione” viene giudicata da una comunità più ampia. La poesia Tang diventa poi il modello dominante per la successiva storia della poesia classica.
La poesia shi era il genere più comune nel periodo Tang. Si divideva in poesia sulla storia (yongshi shi), usata soprattutto nel IX secolo; poesia sulle cose (yongwu shi), tipologia sempre popolare. Lei shu erano testi divisi in categorie, che spiegano una determinata categoria inserendo semplicemente citazioni di testi che rappresentano quella data categoria. Enciclopedie letterarie: Yiwen leiju del 624, queste enciclopedie sono fondamentali perché attraverso le loro citazioni ci sono giunti testi che in quanto “singoli” sono invece andati perduti.
La poesia in stile moderno (o recente) è detta jinti. La poesia jueju (versi troncati) giunge alla sua forma finale e diventa una delle forme più popolari sotto i Tang. È composta da 4 versi e normalmente è un componimento in versi pentasillabici o ettasillabici (mai una forma mista). Normalmente la cesura è: --/--- per i wuyan e ----/--- per i qiyan. La rima è obbligatoria alla fine del secondo e del quarto verso (opzionale nel primo). Richiede l’osservanza delle norme tonali.
La poesia lushi (poesia codificata o regolata) è semplicemente quella precedente ma raddoppiata (quindi non 4 ma 8 versi). Le coppie di versi devono essere caratterizzate dal parallelismo (i caratteri del primo verso devono combaciare in categorie con quelli del secondo verso che sono nella stessa posizione) (per esempio, erba alberi, monti fiumi). Il parallelismo appare anche in traduzione.
Vi era anche la poesia pailu (versi concatenati codificati), una poesia che estende la struttura del lushi, senza però il limite di versi.
Lo stile antico gushi riproduce le poesie del passato, ma senza tener conto delle regole tonali.
La poesia Tang detta shan shui shi (poesia di paesaggio) è caratterizzata da: descrizione di un viaggio da un punto a un altro; dal mattino al tramonto; brevi informazioni all’inizio, poi cambiamento del punto di vista; sono inclusi tutti i dettagli di ciò che è descritto nel componimento; scenario simmetrico (sopra, sotto); linguaggio allusivo (certi componimenti mostrano un collegamento con la tradizione poetica del Chuci); la natura è tramite filosofico ma talvolta c’è fascinazione per i sensi-apprezzamento estetico della natura; concetto del “tempo che passa”, del vivere in ritiro, e dell’amicizia; all’inizio c’è il paesaggio (jing), poi si conclude con i sentimenti del poeta (qing).
Marco Calzoli
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 36 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.
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