Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
La scienza moderna e il crepuscolo dell’etica
di Astro Calisi
Le scoperte scientifiche che negli ultimi decenni del XX secolo hanno interessato la genetica e la neurofisiologia, e le prospettive aperte dalle recenti realizzazioni nel campo dell’intelligenza artificiale, pongono con forza l’esigenza di ripensare radicalmente il rapporto tra scienza ed etica, sotto la spinta del dubbio che quest’ultima si avvii a perdere la funzione di orientamento che aveva all’interno della nostra vita.
Si tratta di un tema raramente affrontato nelle sue implicazioni più profonde sia dai filosofi che si occupano di etica, tuttora persi nelle loro disquisizioni pseudo-teologiche, sia dagli scienziati, i quali tendono in genere a offrire soluzioni piuttosto sbrigative e superficiali ad esso.
In estrema sintesi, si può dire che l’etica tragga il proprio fondamento dalla concezione, derivante da una tradizione millenaria, secondo la quale l’uomo, benché dotato di un corpo fisico, non si esaurisce in questo, ma ha in sé “qualcosa di più” che lo distingue dagli oggetti inanimati e da tutti gli altri esseri viventi che popolano il nostro pianeta. Questa componente aggiuntiva, qualificata dalle diverse religioni come “anima” o “spirito”, è ciò che, per lungo tempo, è stata posta alla base dell’unicità e dell’irripetibilità di ogni individuo umano. Ed è la stessa componente, presente sullo sfondo della nostra cultura in forme sempre più attenuate e ormai quasi inconsapevoli, che continua ad alimentare l’idea che la scienza debba in qualche modo essere sottoposta a vincoli di natura etica.
Il tramonto dei riferimenti etici tradizionali
L’affermarsi progressivo della concezione scientifica del mondo, avvenuto a spese della visione religiosa elaborata dal cristianesimo, non poteva che indebolire i presupposti che davano all’etica ragione di esistere. Si pensi, ad esempio, alla rivoluzione copernicana, con il duro colpo inferto al sistema del mondo fatto proprio dal cristianesimo, e ancor più alla teoria dell’evoluzione proposta da Darwin, che riduceva il racconto biblico sull’origine dell’uomo a poco più che un mito.
La crisi vera e propria rischia tuttavia di consumarsi nel momento in cui la scienza muove all’assalto degli ultimi baluardi su cui si fondava l’implicita distinzione tra l’uomo e il resto del creato. La ricerca sembra oggi essere giunta a un passo dallo svelare i meccanismi più reconditi della vita, mostrando come questi non abbiano nulla di trascendente, essendo spiegabili in base alle leggi fisiche note, le stesse che valgono per il mondo inanimato. Ancor più dirompente è la prospettiva di riuscire a penetrare i misteri della mente umana, ricostruendo nei dettagli le strutture e i processi cerebrali che starebbero alla base di tutte le facoltà intellettive dell’uomo, compresi la coscienza, la volontà e il libero arbitrio.
Raggiungere un simile traguardo, ovvero riuscire a spiegare interamente le nostre capacità intellettive superiori chiamando in causa i processi neurofisiologici che hanno luogo all’interno della nostra corteccia cerebrale, significherebbe annullare ogni sostanziale differenza tra uomo e macchina. Significherebbe anche che, riuscendo a riprodurre puntualmente la stessa struttura di processi in una macchina da noi costruita, essa non potrebbe che dar mostra degli stessi comportamenti e facoltà mentali che contraddistinguono un essere umano. Tale realizzazione costituirebbe la prova inconfutabile che gli uomini non sono altro che macchine.
Anche se tale meta è oggi ben lungi dall’essere raggiunta, la quasi totalità degli scienziati non sembra avere dubbi che ciò potrà avvenire in un futuro più o meno prossimo. Il fatto che i moderni computer non riescano ancora ad essere creativi come un essere umano o non mostrino alcun segno di coscienza si spiegherebbe unicamente con la nostra attuale incapacità tecnica di realizzare un’apparecchiatura sufficientemente sofisticata in grado di sviluppare tali attitudini.
Ma quanto dovrebbe essere complessa una tale macchina? Qual è il livello minimo di organizzazione capace di far scattare un sia pur minimo barlume di consapevolezza, di sensitività cosciente?
Nessuno è in grado di dare una risposta, magari approssimativa, a queste domande. Non si tratta quindi di un problema di complessità strutturale, superabile con uno sforzo tecnologico a breve o media scadenza, bensì di una situazione di grande ignoranza sullo stesso modo di operare e del costituirsi della coscienza, della volontà e delle altre facoltà mentali superiori. E tuttavia la scienza attuale, per l’impostazione empirista che la caratterizza, per il rifiuto di ogni spiegazione metafisica, non può che postulare che l’uomo, con tutte le caratteristiche e abilità a lui riconosciute, è riconducibile senza residui a strutture fisiche ben definite, dove avvengono fenomeni analoghi a quelli che si verificano nel mondo inanimato.
Tale concezione, sviluppata debitamente nelle sue molteplici conseguenze, apre scenari del tutto inediti lungo l’intera storia dell’umanità, prospettando una rivoluzione di vasta portata, che coinvolge sia i rapporti dell’uomo con il mondo circostante, che quelli dell’uomo con se stesso e i propri simili.
Svalutazione del senso dell’esistenza
Il valore attribuito a ogni essere umano è dato dalla sua unicità e irripetibilità, dall’alone di trascendenza implicitamente riconosciuto al suo esistere come essere consapevole e dotato di volontà autonoma. Nel momento in cui raggiungessimo la certezza che ognuno di noi è fondamentalmente una macchina, agente in tutto e per tutto secondo leggi fisiche conosciute, potenzialmente riproducibile in ogni suo aspetto, non in uno, bensì in un numero illimitato di esemplari, quale valore potremmo attribuire a noi stessi e alle persone con cui entriamo in relazione?
Se il nostro esistere su questo pianeta fosse soltanto il risultato del caso, se la stessa evoluzione delle forma viventi che ha portato alla nostra comparsa, non avesse in sé alcun disegno o finalità, poiché mossa da fattori ciechi e casuali, dello stesso ordine di quelli che sono alla base di tutti gli eventi del mondo naturale, come potremmo riconoscere importanza ai nostri principi morali, ai nostri valori, ai nostri ideali, ai nostri progetti? Perché dovremmo essere onesti, giusti, fedeli, sinceri, coerenti, coltivare sentimenti come l’altruismo, la solidarietà, il rispetto per gli altri? Perché dovremmo avere problemi nel praticare l’aborto o l’eutanasia con la massima disinvoltura? O non dovremmo eliminare i portatori di handicap, gli anziani, gli ammalati inguaribili, allo stesso modo con cui ci disfiamo di una vecchia auto che non conviene più riparare?
E il giorno in cui la ricerca scientifica e il progresso tecnologico rendessero possibile la costruzione di un automa dalle caratteristiche completamente umane, come dovremmo porci nei suoi confronti?
Potremmo provare compassione per un automa in difficoltà? Potremmo avere stima, rispetto per esso (per lui?), rinunciare a qualcosa cui teniamo per compiacerlo, sapendo che è in grado di provare gli stessi sentimenti ed emozioni che noi proviamo? Potremmo innamorarci di un automa esteriormente del tutto indistinguibile da un uomo (o da una donna)?
Tutte queste domande non trovano risposte adeguate all’interno dell’attuale sistema della scienza, che si è mostrato capace di accrescere la nostra conoscenza sul mondo, ma non di affrontare le problematiche, squisitamente umane, che ne derivano.
Autonomia personale e responsabilità
Ognuno di noi sperimenta la volontà come possibilità di indirizzare la propria attività, intesa in senso lato (quindi sia come pensiero, attenzione, progettualità, che come comportamento esteriore legato alla motilità), verso oggetti e ambiti definiti. La volontà viene quindi vissuta a livello soggettivo come una sorta di tensione, posta in atto dallo stesso soggetto, che lo porta a muoversi e ad agire consapevolmente in date direzioni.
Questa capacità, ovviamente, non è assoluta, poiché esistono aspetti, nostri o del mondo esterno, che non possiamo modificare; su altri aspetti possiamo intervenire solo parzialmente. Però, ad ogni individuo, e in ciascuna circostanza, rimane generalmente uno spazio più o meno grande entro cui esercitare la propria libertà di scelta. O, almeno, questo è ciò che appare a ognuno di noi, quando fa riferimento alla propria esperienza soggettiva.
Se ci poniamo nell’ottica della scienza, questa concezione appare però capovolta. Dal punto di vista delle neuroscienze, infatti, ogni caratteristica o proprietà appartenente alla sfera mentale è da mettersi in relazione con l’attività di specifici centri nervosi, in risposta a sollecitazioni esterne o a impulsi provenienti da altre zone dell’organismo. In tale prospettiva non può esistere alcun “Io” autonomo capace di imprimere una certa configurazione di processi a livello di corteccia cerebrale, ma sono i processi stessi, svolgendosi secondo la logica della loro organizzazione funzionale, a determinare la spinta, che verrà poi percepita e vissuta a livello soggettivo, come decisione o scelta.
Sposando integralmente tale concezione, non si vede in qual modo si possa continuare a dire che siamo individui liberi e in che senso possiamo ancora ritenerci responsabili delle nostre scelte e delle nostre azioni. Esse andrebbero considerate, infatti, come interamente dipendenti dagli eventi fisici che si svolgono, a nostra insaputa, all’interno dei neuroni cerebrali di ciascuno di noi. Dette scelte o azioni non avrebbero potuto essere diverse da come, in effetti, sono state.
Coloro che compiono atti criminali andrebbero in questa ottica considerati come individui soggetti a spinte dannose per la società e, in quanto tali, messi in condizione di non nuocere nuovamente, allo stesso modo con cui si interviene su una qualsiasi macchina il cui funzionamento non sia più affidabile. Non potremmo far pesare loro la colpa dei rispettivi comportamenti devianti; non potremmo ritenerli responsabili, sapendo che essi hanno agito esattamente come l’insieme delle spinte presenti al loro interno in un dato istante li hanno condotti a fare. Essi non avrebbero potuto agire altrimenti.
Il determinismo, implicito nel modello di spiegazione scientifica che ha il suo cardine nella riconduzione degli eventi a formulazioni di validità universale, non sembra lasciar spazio alla libertà individuale allorché esso viene applicato al dominio dei fenomeni mentali. Poco importa che si tratti di un determinismo evidente, come quello che caratterizza il movimento dei corpi celesti nello spazio, che si presta a previsioni molto precise anche su tempi relativamente lunghi, oppure di un determinismo più difficile da riconoscere come tale, quale quello dei cosiddetti fenomeni caotici, dove il gran numero di variabili implicate non consente di fare previsioni accurate.
Né, per offrire una spiegazione adeguata della mente, si può considerare soddisfacente la soluzione di rivolgersi al versante opposto, ovvero all’indeterminismo, ricorrendo, per esempio, a spiegazioni che facciano riferimento alle leggi che regolano la meccanica quantistica. La casualità, che fa da sfondo a tali leggi, non è in grado di accrescere in alcun modo la libertà dell’individuo: rende semplicemente il comportamento meno prevedibile, alimentando così l’illusione da parte di un osservatore che esso non sia determinato; in nessun caso, tuttavia, l’introduzione di elementi casuali può offrire all’individuo agente una maggiore possibilità di controllo sulle sue scelte e sulle sue decisioni.
Il problema della libertà all’interno di un mondo deterministico (o anche indeterministico com’è quello subatomico) ha alimentato un ampio dibattito tra “compatibilisti”, cioè coloro che ritengono il determinismo compatibile con l’esercizio del libero arbitrio, e coloro che invece negano tale possibilità (“incompatibilisti”). All’interno di questi due opposto schieramenti, come spesso accade quando si affrontano questioni molto complesse e di difficile soluzione, si è venuto a poco a poco formando un ampio ventaglio di posizioni1. Seguendo tuttavia le diverse argomentazioni miranti a difendere o a negare la possibilità della libertà di scelta da parte dell’uomo, contrassegnate in molti casi da un proliferare di sottili distinzioni terminologiche e/o dall’introduzione di nozioni aggiuntive, è difficile non essere sfiorati dal dubbio di trovarsi su una strada senza via d’uscita. Viene anzi il sospetto che i problemi incontrati, più che derivare dalla complessità dell’oggetto “mente”, siano in realtà l’inevitabile conseguenza di una modalità di approccio fondamentalmente errata. Modalità che pretende di conciliare elementi che, per molti aspetti, appaiono essere del tutto inconciliabili: da una parte, il determinismo della materia inanimata, vincolato alla ferrea necessità delle leggi fisiche, dall’altra, il senso di libertà che, intuitivamente, ognuno di noi avverte con chiarezza nella propria dimensione soggettiva.
Del resto, non manca chi, senza mezzi termini, afferma che le teorie scientifiche di cui attualmente disponiamo sono del tutto inadeguate per render conto di alcune caratteristiche della nostra mente, per cui sarebbe del tutto vano cercare di costruire delle spiegazioni utilizzando i paradigmi teorici oggi esistenti.2
La coscienza divisa
Di fronte alle conseguenze etiche che derivano dalla concezione fisicalista dell’uomo coltivata dalla scienza, si rimane, a dir poco, meravigliati dalle prese di posizione di alcuni scienziati nei confronti della clonazione umana o di certe forme di fecondazione artificiale. Ancor più desta sorpresa la costituzione di comitati di bioetica, dove gli stessi scienziati, assieme a filosofi e ad altre personalità rappresentative nel campo del pensiero, si propongono di stabilire le nuove regole per la ricerca nel campo della genetica.
Ma la scienza non ha nulla da dire sull’etica. Anzi, sviluppandosi coerentemente con i propri criteri regolativi, essa non può che considerare l’etica come un elemento estraneo, un elemento di disturbo, una componente metafisica da respingere alla pari di tutti gli altri aspetti del mondo non provvisti di una base empirica.
Ridotta ai minimi termini, la questione è: o si è convinti che non esiste altra realtà al di fuori di quella della materia, e in tal caso qualsiasi vincolo che non riguardi questioni teoriche o metodologiche va considerato come un residuo di credenze del passato, da respingere con decisione. Oppure ci si riconosce nella posizione dei sostenitori della irriducibilità della realtà (in particolare, quella umana) alle strutture fisiche e ai processi che possiamo rilevare con i nostri strumenti. In tal caso, sorge la necessità di una profonda revisione all’interno del “sistema scienza”, che investa non soltanto alcune formulazioni teoriche di ampio respiro, ma anche certi presupposti di sfondo – postulati impliciti – posti a fondamento del sistema stesso.
Il contrasto tra l’orientamento della scienza, ormai largamente diffuso nei diversi settori della nostra cultura, e i principi etici derivanti da una tradizione religiosa che si avvia all’obsolescenza, è del tutto insanabile. Ma, tale contrasto rimane tuttora allo stato latente: non affiora pienamente alle coscienze degli individui, non anima dibattiti, non incita a prese di posizione decise. E’ come se esistesse una sorta di “diaframma ideologico”, tale da impedire ai due domini, tanto diversi tra loro, di venire a contatto. Come se la mente degli uomini fosse divisa in due, potendosi commutare, a seconda delle situazioni, su una posizione o sull’altra, però mai su entrambi nello stesso momento.
E’ però ormai lontano il tempo in cui si poteva legittimamente operare una distinzione netta tra scienza ed etica, tra conoscenza del mondo esterno e fini/valori umani. Tale distinzione viene di fatto a cadere quando la scienza, forte dei successi raccolti in altri campi, rivolge la propria attenzione alla mente dell’uomo dove, in ultima analisi, non soltanto vengono sviluppate le teorie e i metodi scientifici, ma hanno anche origine e prendono forma quegli stessi valori e finalità che dovrebbero costituire il fondamento dell’etica.
Riconducendo l’intero universo dei processi e dei contenuti mentali ai sottostanti eventi di natura fisica che si svolgono a livello di neuroni cerebrali, l’etica viene a perdere qualsiasi caratterizzazione di ordine superiore che la faceva diversa dalla scienza. Anche l’elaborazione dei fini e dei valori non può che ricadere, in una coerente prospettiva scientifica, nello stesso ambito di eventi cerebrali, soggetti alle leggi universali e necessarie della fisica.
Ampliare gli orizzonti della ricerca
L’approccio scientifico si è rivelato assai soddisfacente nel dare risposte ai diversi aspetti del mondo che suscitano domande nell’uomo; nello stesso tempo esso ha mostrato la sua capacità di risolvere efficacemente molti problemi legati al miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo stesso. Per questo motivo, il metodo della scienza, con il suo costante richiamarsi ai fatti, si è imposto progressivamente come paradigma del corretto modo di pensare e di affrontare costruttivamente i problemi.
Tale paradigma è divenuto ormai talmente centrale nella nostra cultura che tutto ciò che non si presta a essere ricondotto alle procedure standard di verifica empirica, non solo viene trascurato o ignorato dall’indagine scientifica, ma tende sempre più spesso a essere considerato come non rilevante in assoluto.
In questa prospettiva, i grandi problemi esistenziali dell’uomo, dietro ai quali si sono affannate intere generazioni di filosofi, come, ad esempio, quello del significato da assegnare alla nostra esistenza, sul “dove andiamo” o “da dove veniamo”, che riportano in qualche modo alla questione se esista un qualche aspetto di noi che non ricada sotto il dominio della materialità ordinaria (magari in grado di sopravvivere alla morte fisica), si riducono, nell’ottica della scienza attuale, a vuoto balbettio che non conduce in alcun luogo.
Tutto questo non significa che dobbiamo rinunciare alla scienza, abbandonando una modalità di approccio alla realtà che si è rivelata straordinariamente feconda di risultati. Le implicazioni etiche non possono, in alcun caso, costituire un motivo valido per un drastico ridimensionamento della scienza all’interno della nostra vita. Esse vanno tuttavia approfondite in tutte le loro implicazioni, in modo da renderci pienamente consapevoli riguardo al modello di uomo che stiamo costruendo e sulle conseguenze che esso può assumere per il significato complessivo attribuito alla nostra vita.
Non è sbagliato studiare l’uomo in maniera riduzionistica; ma forse è quantomeno dogmatico pretendere che tale approccio possa esaurire l’intera sua realtà. Il riduzionismo materialista può essere metodologicamente giustificato per affrontare problemi teorici specifici, isolandoli in un contesto ristretto e semplificato dove è più agevole stabilire nessi causali, ma del tutto arbitrario quando diviene ontologia: nel momento in cui cerca di convincerci, senza disporre di prove conclusive, che non esiste nulla all’infuori della materia, soggetta alle leggi a noi note.
A sostegno di una concezione non riduzionista dell’uomo viene per certi versi in aiuto la constatazione che, malgrado i grandi progressi compiuti negli ultimi anni nello studio del cervello, non si dono avuti sostanziali passi in avanti nella comprensione della coscienza e delle attitudini mentali superiori dell’uomo. Le diverse metodiche di indagine (visualizzando le zone attive del cervello mentre questi è impegnato in compiti di vario tipo, esaminando le proprietà dei singoli neuroni o costruendo reti artificiali per simulare alcune funzioni) non vanno oltre la superficiale descrizione di alcuni meccanismi nervosi, ma si sono dimostrate del tutto incapaci nel chiarire il problema fondamentale a cui dare risposta: come sia possibile che da un certo numero di processi che si svolgono in maniera impersonale all’interno della nostra corteccia cerebrale, si giunga alla dimensione soggettiva dell’individuo, ai vissuti sensoriali ed emotivi, fino alla consapevolezza di sé.
E i ripetuti richiami alla straordinaria complessità del nostro cervello, o alla necessità che questo si sviluppi attraverso un’interazione con l’ambiente3 appaiono più dei tentativi per giustificare l’impasse in cui attualmente si trovano le neuroscienze, che dei reali contributi all’avanzamento della ricerca.
Ma forse proprio dall’attuale fase di difficoltà può svilupparsi la consapevolezza dei limiti dell’attuale sistema scientifico e spronare almeno qualche ricercatore, soprattutto tra i giovani intellettualmente più indipendenti e ancora poco coinvolti in interessi personali, ad allargare i propri orizzonti, così da spingerli a prendere in considerazione e ad approfondire anche aspetti trascurati o considerati eretici dal pensiero scientifico dominante.
E’ un invito a mettere da parte ogni preconcetto, assunzione di principio o ideologia e riportare la scienza alla sua funzione originaria di “conoscenza della realtà”, nel senso più pieno e autentico del termine, che abbia come riferimento privilegiato le domande che sorgono spontaneamente nell’uomo quando questi si pone di fronte a se stesso o al mondo che lo circonda.
La scienza si vanta di essere oggettiva. Ma la realtà primaria con cui l’uomo si trova a confrontarsi istante per istante è quella dei contenuti coscienti posti nell’orizzonte della propria soggettività individuale. Non esiste altra realtà più immediata, più imperiosa, più carica di conseguenze per le nostre scelte e le nostre azioni. Tutte le altre verità sono derivate da questa, sebbene tale connessione originaria venga spesso – per così dire – diluita all’interno di spiegazioni razionali per renderla più accettabile. L’averlo dimenticato, ovvero aver creduto di poter sostituire questa realtà autentica, pur se soggettiva, con la realtà artificiale, impersonale, riduttiva, generalizzante, delle rappresentazioni teoriche, costituisce il grande errore di fondo insito nella scienza contemporanea: un errore che ci allontana inevitabilmente dalla comprensione di noi stessi e rischia di renderci sempre più simili alle macchine, costruite a immagine e somiglianza della scienza stessa.
Astro Calisi
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