Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
Traducibile o intraducibile? I limiti del concetto di equivalenza nel compito della traduzione
Di Massimiliano Uberti - Giugno 2016
In questo breve contributo proveremo a mettere in luce alcuni aspetti che reputiamo, a buon diritto, significativi ai fini del passaggio in rassegna del concetto di traduzione e delle sue numerose implicazioni in campo linguistico, semiotico, psicologico, sociale e non certo da ultimo, filosofico; conseguentemente il nostro compito sarà quello di adottare uno sguardo critico e multidisciplinare che si mostri atto ad intessere le fila della questione, dando origine ad un discorso il più plausibilmente unitario e completo.
Al centro di ogni nostra ipotesi vi saranno le considerazioni addotte da Umberto Eco all'interno del suo recente saggio interamente dedicato al tema della traduzione; questo tuttavia non vuol dire che ci limiteremo semplicemente a “ripercorrere” le tappe del tracciato echiano, bensì qui l'obiettivo prefissato è quello di utilizzare alcune fra le sue principali argomentazioni al fine di andare poi a scandagliare, in maniera maggiormente approfondita, problemi ulteriori che direttamente o indirettamente si pongono in stretta relazione con la prassi traduttiva.
Le nostre osservazioni sul lavoro del filosofo piemontese verranno perciò ad intrecciarsi con tutto un insieme di altre annotazioni di non secondaria rilevanza; oltre a ciò dobbiamo ribadire, inoltre, che ben due sono i momenti topici dell'operazione che ci accingiamo a compiere: in primo luogo, l'analisi critica dei meccanismi di applicazione delle procedure di perdita e compensazione (di cui ci parla Eco nel suo testo, come avremo modo di notare), all'interno della traduzione dell'An Essay concerning human understanding di Locke messa in atto, nel 1700, dal letterato francese Pierre Coste.
E proprio all'opera del Coste è dedicato un'interessante studio di Davide Poggi, le cui indicazioni filologiche sulle modalità operative del traduttore lockiano e sulle sue scelte lessicali potranno tornarci utili per comprendere appieno non soltanto i procedimenti sopra richiamati, ma anche come questi ultimi abbiano influenzato la ricezione del pensiero lockiano all'interno degli ambienti intellettuali europei (e francesi in particolar modo), all'epoca prepotentemente condizionati dalla pregnanza del sistema filosofico cartesiano. In secondo luogo, l'attenzione della nostra indagine s'incentrerà sul problema dell'equivalenza, il quale (e saremo perfettamente in grado di constatarlo) viene affrontato, seppur brevemente, già nel saggio di Eco e successivamente ripreso e sviscerato da Francesca Ervas nel suo Uguale ma diverso: Il mito dell'equivalenza nella traduzione; di esso peculiarmente, ci premerà evidenziare l'originale proposta avanzata dall'autrice cioè: una vera e propria rifondazione del concetto di equivalenza su basi del tutto nuove rispetto a quelle sulle quali i protagonisti del “dibattito contemporaneo” provvidero a costituirlo.
Vedremo quindi, con la saggista italiana, il modo in cui l'equivalenza verrà concepita alla stregua di un processo dotato di una sua intrinseca dinamicità e non da un rapporto statico, come molti altri autori diversamente hanno ritenuto di doverlo reputare.
In verità, questa ricerca prende in esame anche un terzo aspetto, sicuramente meno rilevante dei precedenti, ma comunque emblematico, qual è quello del rifacimento radicale.
Esso rappresenta un vero e proprio “caso limite”, in cui (e lo scopriremo nelle pagine che seguono) non si può in alcun modo applicare il principio di reversibilità per delineare la relazione che solitamente intercorre fra testo-fonte e testo d'arrivo; in questa sede, noi ci occuperemo di studiare tale situazione predisponendo un'analisi comparativa delle riflessioni forniteci, in merito a quanto detto, rispettivamente da Eco e da Gambazzi proprio intorno a tale problema.
Concludiamo questa concisa introduzione (onde evitare di tediare ulteriormente il lettore!), provando a ricordare come qui si sia cercato di presentare nient'altro che gli elementi fondamentali della discussione relativa alla pratica traduttiva e che certamente in così poche pagine sarebbe risultato piuttosto arduo ampliare il dibattito.
Ad ogni modo, e ciò sia chiaro fin da ora, la traduzione è una tematica complessa ed estremamente ricca di spunti ragguardevoli che meriterebbero, senz'ombra di dubbio, un'argomentazione estesa e multidisciplinare (quale si sforza di essere l'approccio qui adottato) che si riveli capace di toccare i punti nevralgici non solo delle specifiche aree d'interesse che si occupano del linguaggio e della comunicazione a livello scientifico (quali la linguistica, la semiotica, la filosofia del linguaggio e la filologia); ma anche, ad esempio, altri segmenti di ricerca quali la filosofia teoretica, il pensiero politico, quello morale e la psicologia cognitiva.
In chiusura, ci auguriamo che il nostro sforzo possa essere apprezzato dai lettori, pur nei suoi limiti e nella sua brevità, confidando in tal senso di non aver svolto un'indagine inutile e magari di aver aperto qualche spiraglio per osservazioni aggiuntive.
Traducibile o intraducibile? I limiti del concetto di equivalenza nel compito della traduzione.
L'obiettivo del presente lavoro è, come si accennava nella pur breve premessa introduttiva, quello di chiarire cosa implichi la traduzione e quali siano le operazioni che veramente ne costituiscono il nucleo centrale; al di là di ogni possibile fraintendimento. Del resto, è proprio questa la domanda con la quale si apre il dibattito acceso da Umberto Eco all'interno del suo Dire quasi la stessa cosa: Esperienze di traduzione: “Che cosa vuol dire tradurre?”.
Il suddetto volume è quindi interamente dedicato ad un tema specifico, quello appunto della traduzione, che ha indubbiamente visto coinvolte le riflessioni di differenti ambiti disciplinari, come ci rammenta Francesca Ervas nel suo Uguale ma diverso: Il mito dell'equivalenza nella traduzione1.
Ad ogni modo, secondo Eco, appare doveroso evidenziare nell'immediato come tradurre non implichi affatto il “dire esattamente la stessa cosa”, ma al contrario, come suggerisce il titolo stesso del suo lavoro, un “dire quasi la stessa cosa”.
Ebbene, è proprio su quel quasi che i nostri sforzi devono concentrarsi per giungere alla scoperta che dietro di esso vi risiede la centralità di un processo focale insito nella traduzione, quello di negoziazione. Lo scrittore alessandrino accenna alla questione della negoziazione un po' lungo tutto il corso del saggio, tuttavia l'affronta nel dettaglio all'interno del capitolo IV; dove richiamando le esternazioni di un grande maestro dell'Ermeneutica del calibro di Hans Georg Gadamer, arriva a dedurre come: “quell' ideale di reversibilità [...], viene limitato da molti e meditati sacrifici”.
In primo luogo, dobbiamo esplicitare cosa intenda l'autore quando parla di reversibilità in merito alla traduzione. Per prima cosa, è necessario sostenere come diversi autori abbiano ribadito il concetto di reversibilità quale aspetto privilegiato del lavoro compiuto dal traduttore, intendendo con esso, essenzialmente, la fedeltà ed il rispetto di alcuni criteri stilistici, sintattici e grammaticali stabiliti dall'autore dell'originale al fine di evitare di incappare in una distorsione del messaggio proposto da quest'ultimo.
A mio avviso, tuttavia, Eco pare voler ridimensionare la portata del criterio di reversibilità, anche se ciò, naturalmente, non significa che non ne sappia comunque apprezzare il valore; così non è un caso che egli si rifaccia ad alcune considerazioni di Leonardo Bruni riportate all'interno del De interpretatione recta (1420) per il quale il traduttore, nel momento in cui si accinge a compiere le operazioni che gli competono, deve fare affidamento non solo ai principi basilari sui quali si fonda la traduzione; ma anche all'udito per non scombinare ciò che nel testo originale viene espresso con ritmo e nel pieno rispetto degli intenti dell'autore. Insomma, Eco pare voler ribadire quanto sia importante, per una corretta procedura di trasposizione, salvaguardare la ritmicità anche a costo di sospendere o addirittura esimersi da una fedeltà assoluta al testo originale.
Tutto questo comporta, ovviamente, l'assunzione di un compito ben preciso da parte del traduttore, sarebbe a dire: “quello di creare nel proprio lettore lo stesso effetto”2, ed è propriamente tale affermazione che gli consente di: “abbandonare concetti ambigui come similarità di significato, equivalenza […], ma anche l'idea di una reversibilità puramente linguistica”3; in altre parole, il filosofo piemontese intende criticare apertamente la nozione di equivalenza semantica (nota anche come equivalenza di significato) e predilige parlare di equivalenza funzionale, per cui: “una traduzione deve produrre lo stesso effetto a cui mirava l'originale”4, cioè dev'essere in grado di produrre, nella lingua d'arrivo, un certo enunciato, il quale nella lingua di partenza assume un certo significato che non possiede nella comunità linguistica del traduttore, ma che tuttavia assume la medesima funzione.
Più in là vedremo come questo concetto di equivalenza funzionale venga ripreso nel testo di Francesca Ervas, la quale mirerà, in ogni caso, a proporre una riformulazione dello stesso; ma questa è una cosa che analizzeremo a suo tempo, per adesso cerchiamo di cogliere il modo in cui Eco utilizza il suo rifiuto nei riguardi di un'idea di reversibilità puramente linguistica per giungere a cogliere l'importanza della negoziazione.
Ritorniamo, dunque, al capitolo IV del volume echiano intitolato “Significato, interpretazione, negoziazione”; qui in chiusura viene precisato come, di per sé, la traduzione comporta sempre: “un limare via alcune delle conseguenze che il termine originale implicava”5 e ciò, certamente, significa che operare una buona traduzione vuol dire, innanzitutto, interpretare al meglio quanto l'autore di un manoscritto originale intendesse dire in una determinata circostanza e arrivare così a capire la ragione che lo ha indotto ad adottare una certa parola o una qualche locuzione piuttosto che un'altra: in questo consiste, nella sua essenza, la negoziazione. Ci appare perciò abbastanza palese, in rapporto a quanto evidenziato finora, che il tradurre implichi sempre un dover confrontarsi con un complesso di mondi possibili,nel senso che un traduttore nell'istante in cui si trova dinnanzi ad un testo redatto nella sua lingua originale e del quale è chiamato ad esperire una traduzione, dovrà obbligatoriamente cercare di individuare l'accezione più corretta e meglio adeguata al contesto socio-culturale che quel testo esprime o al quale appartiene.
In proposito è lo stesso Umberto Eco a proporre un esempio ad hoc: egli prende infatti in considerazione la seguente frase in lingua italiana: “John visita ogni giorno sua sorella Ann per vedere suo nipote Sam”6. A questo punto proviamo ad analizzare le quattro possibili traduzioni in lingua inglese di una frase di questo genere:
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John visits everyday his sister Ann to see his nephew Sam;
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John visits everyday his sister Ann to see her nephew Sam;
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John visits everyday his sister Ann to see her grandchild Sam;
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John visits everyday his sister Ann to see his grandchild Sam.
Umberto Eco ci fa notare come nella traduzione dall'italiano all'inglese di questa pur elementare proposizione sopra richiamata, il traduttore si trovi già a dover fronteggiare una questione rilevante, sarebbe a dire: selezionare fra le diverse possibilità, tra i differenti mondi possibili quale sia degno di attualizzazione; dato che il termine italiano “nipote” in inglese può essere reso sia con nephew (nel caso indichi il figlio di un fratello o una sorella), sia con grandchild (nel caso rimandi al figlio di un figlio o una figlia). In breve, solo dopo aver interpretato in maniera retta il testo, sarà plausibile procedere ad una sua traduzione.
Quanto abbiamo affermato fino ad ora, ci induce a rilevare due conseguenze fondamentali, delle quali peraltro ci parla lo stesso autore: in primo luogo, che traduzione e interpretazione non sono la stessa cosa ed in secundis che ogni traduzione porta con sé una certa dose di perdita e al tempo stesso di compensazione.
Iniziamo dal primo punto, cioè dalla differenza fra traduzione ed interpretazione e qui pur riconoscendo l'importanza dei contributi in merito elaborati da Heidegger e Gadamer, i quali hanno tendenzialmente identificato la traduzione con il momento ermeneutico-interpretativo; dobbiamo anche riportare come Eco, al contrario, ritiene che l'interpretazione vera e propria sia qualcosa di molto diverso e che essa vada delineata come la fase che precede specificatamente ogni traduzione ed è lui stesso a dircelo: “In effetti i bravi traduttori, prima di iniziare a tradurre passano un gran tempo a leggere e rileggere il testo e a consultare tutti i sussidi che possono consentire loro di intendere nel modo più appropriato passi oscuri, termini ambigui, riferimenti eruditi”7.
In sostanza, il pensatore italiano stima la presenza di una radicale divergenza fra interpretazione e traduzione, dove la prima precede sempre la seconda proponendosi in questo modo come la fase preliminare che appunto precede ogni traduzione propriamente detta e che si preoccupa, per così dire, di “preparare il terreno” per la susseguente opera del traduttore; in tale ottica del resto egli ribadisce nuovamente, con Gadamer, che ogni traduzione presuppone un dialogo ermeneutico.
Dopo aver finalmente messo in luce la maniera in cui Umberto Eco distingue la traduzione propriamente detta dall'interpretazione, possiamo ora assumere in esame il secondo punto: quello inerente alle tematiche della perdita e della compensazione e al loro intrecciarsi con il dilemma della traduzione.
Il pensatore piemontese introduce i sopracitati problemi prendendo le mosse, paradossalmente, da un caso limite in cui si assiste ad una impossibilità nella traduzione, cioè quello della barzelletta e del gioco di parole; in effetti le storielle popolari e i racconti di questo genere, solitamente, si rivelano intraducibili e dunque essi molto difficilmente possono essere trasposti in una comunità linguistica distante da quella d'origine alla quale appartengono. Qui la difficoltà risiede, senza dubbio, nel fatto che tali narrazioni “funzionano” solamente nella loro lingua e cultura d'origine.
Al di là di ciò, Eco rammenta come questi casi non siano poi così ordinari e in gran parte il traduttore si trova ad aver a che fare per lo più con situazioni in cui egli è costretto a dover far fronte: “ad una perdita sempre parziale […] a cui possono essere fatti corrispondere dei tentativi di compensazione”8. Quel che proveremo a fare, in questa sede, è presentare una casistica che ci permetta di captare meglio il senso profondo della questione della perdita in traduzione. Il primo di essi ci viene offerto direttamente dallo stesso Eco e si tratta nient'altro che di un esempio di perdita ricavato dall'analisi della versione inglese del noto romanzo echiano Il nome della rosa (1980); gli altri li possiamo scovare nell'ambito della sapiente esamina attuata da Davide Poggi all'interno del suo Pierre Coste e la traduzione francese dell'Essay di John Locke.
Nella versione inglese de Il nome della rosa, Eco denota come risultasse piuttosto complesso riuscire a provvedere alla traduzione corretta degli elenchi di nomi da lui predisposti nell'originale italiano all'interno del capitolo intitolato Terzo giorno. Sesta; in questa peculiare parte del manoscritto compaiono inseriti ben due elenchi di nomi di individui marginali che popolano i paesi circostanti l'abbazia in cui si recano i due protagonisti della vicenda, appunto frate Guglielmo da Beskerville e il suo giovane allievo Adso.
Tali sostantivi appaiono difficilmente traducibili in lingua inglese e al tempo stesso però “del tutto privi di connotazione per il lettore anglofono”9; per tale ragione, chiarisce immediatamente Eco, “si è deciso di eliminare il secondo elenco”10 in quanto, appunto, meno si prestava ad una buona traslazione.
Qui però ci siamo limitati a riportare un caso di perdita parziale priva di compensazione; ma possiamo ricordare, con Eco, che: “talora, invece, le perdite possono essere compensate”11; tuttavia ciò non significa affatto che egli reputi la compensazione (consistente nella messa in atto della traduzione di un termine o di un'intera locuzione in un modo tale che l'espressione originaria venga resa utilizzando una formula che indicativamente e pressappoco assume lo stesso significato della prima all'interno della lingua d'arrivo) come un espediente sempre valevole; dunque non è casuale che nel suo testo ci venga ricordato come il traduttore sia tenuto a resistere ad ogni impulso che lo potrebbe indurre ad arricchire l'originale.
E' così per noi molto importante cercare di prestare attenzione a tale posizione assunta da Umberto Eco proprio nei riguardi della prassi compensatoria: per la quale, la compensazione è lecita, ma appare opportuno evitare di abusarne poiché questo metterebbe a repentaglio la fedeltà al testo-fonte. Possiamo quindi, senza alcuna remora, sostenere come per lui vi siano due principi-cardine chiamati a “regolamentare” la procedura di compensazione nella traduzione: “l'evitare di arricchire il testo-fonte e l'evitare, per quanto possibile, di migliorarlo”12, dato che fare il contrario ci porterebbe soltanto a stravolgerlo allontanandoci dal senso originario.
Nella prima parte di Pierre Coste e la traduzione francese dell'Essay di John Locke, ci viene presentato il modo in cui il primo traduttore francese del saggio lockiano13 abbia operato delle precise scelte lessicali in funzione di un certo influsso che ebbe su di lui (come, del resto, sul medesimo lessico di Locke) la terminologia cartesiana.
Ci sembra interessante pertanto provare a vedere in che modo nel momento in cui Coste rende il termine lockiano Understanding con il francese Entendement ci si trovi dinnanzi ad una situazione piuttosto peculiare: è vero che già Locke,come ribadisce qui Poggi riportando le riflessioni esplicitate da J.W. Yolton nel suo A Locke Dictionary14, utilizza un linguaggio tipicamente cartesiano, nell'istante in cui opta per l'adozione di Understanding (o anche di Soul nel Libro I); ma alla stessa maniera si comporta anche l'autore dell'edizione francese del 1700 quando, come accennato sopra, traduce l'inglese Understanding con Entendement, cosìlo stesso Poggi, poco più avanti, ha occasione di rammentare che Entendement è: “un sostantivo che nel XVII secolo ricevette una fortissima connotazione proprio per mano di Descartes nelle Meditazioni Metafisiche”15.
In tal senso, Coste, proprio traducendo Understanding con Entendement, insiste il nostro autore, effettua: “un'inevitabile ridefinizione dell'Entendement”; introducendo nella riflessione lockiana (quanto inavvertitamente non ci è dato saperlo): “quella netta distinzione della mente dal corpo e la connotazione del soggetto pensante in termini di spiritualità (in contrapposizione alla materialità) che caratterizzano il pensiero cartesiano”16.
A nostro giudizio qui ci troviamo dinnanzi ad un chiaro esempio di una perdita nell'ordine della traduzione17 alla quale, tuttavia, fa inequivocabilmente seguito una compensazione che sfocia nell'arricchimento testuale18 (quest'ultimo oggetto di deplorazione da parte di Eco); siamo quindi in grado di ribadire effettivamente che se da un lato Pierre Coste finisce per “smarrire per strada” il collegamento lockiano fra mente e corpo, arrivando così a stravolgere il contenuto del testo-fonte; è pur vero però che egli contribuisce ad arricchire il medesimo, apportando dei contenuti e dei dettami propri del pensiero cartesiano ed assenti, invece, nella filosofia di Locke.
Un altro esempio di eclatante perdita seguita da una compensazione semantica intesa nei termini di un arricchimento testuale è poi la traduzione eseguita dal Coste del termine lockiano Mind con il termine francese Esprit; d'altronde, è plausibile registrare qui, afferma Poggi: “lo slittamento di “esprit” dalla sfera di senso di “spiritus” […], a quella di Mens, che per Cartesio ha un significato nettamente distinto da Spirito”19.
Ed è questo massiccio utilizzo di Esprit al posto dell'inglese Mind, da parte del traduttore transalpino, a dare vita a non pochi fraintendimenti rispetto al pensiero lockiano e ciò è assolutamente deducibile dal fatto che se mettiamo a confronto i termini Spirit ed Esprit abbiamo modo di constatare come mentre Locke, nell'originario inglese del 1690, utilizza la parola Spirit per indicare quell'insieme di sostanze spirituali che trascendono il soggetto umano, quindi, le intelligenze sovrumane e lo fa senza alcun riferimento alla gamma di atti volontari, cognitivi e psichici presi in esame separatamente dallo statuto ontologico soggettivo alla quale fa capo il Mind; al contrario Coste si serve di Esprit per tradurre, lo ripetiamo, il Mind lockiano (e non lo Spirit) giungendo in questa maniera non solo, secondo quanto abbiamo fatto intendere in precedenza, a modificare il pensiero di Locke (in un certo senso rendendolo maggiormente consono al pubblico continentale); ma anche ad alterare profondamente la terminologia di derivazione cartesiana ed in tal senso ne è attestazione il fatto che l'uso di Esprit nell'Essai oltre a: “portare alla perdita della distinzione tra Mind e Spirit propria del pensiero e del lessico di Locke”20; finisce per permettere di acquisire al sostantivo francese tutta una serie di: “sfumature di significato nuove rispetto alla semantica cartesiana”21.
Un discorso simile può essere fatto anche per l'utilizzo della parola Inquiétude proprio da parte del letterato francese ai fini della traduzione dell'inglese Uneasiness; quest'ultimo, infatti, nel sistema lockiano assume una valenza del tutto differente da quella fatta propria dal termine francese come ben ci ricorda, ancora una volta, Davide Poggi all'interno del suo lavoro di ricerca: “mentre Locke, […], definisce l'Uneasiness come uno stato psichico di disagio, di “sentirsi male”, di “mal-essere”; l'Inquiètude pascaliano-malebranchiana (ossia, in ultima analisi, agostiniana) consiste da una parte in una condizione di carattere metafisico-esistenziale, dall'altra in una pulsione irrefrenabile”22; di conseguenza i due sostantivi non si equivalgono e di ciò, secondo l'autore, Coste era certamente cosciente così il fatto che in ogni caso egli ritenga di poter tradurre Uneasiness con Inquiètude è probabilmente dovuto ad una volontà di fornire una nuova accezione al termine francese rispetto a quella agostiniana che già possedeva e che era stata riportata in auge da Pascal e Malebranche, come abbiamo appena suggerito, pur con scrupolosa cautela altrimenti: “non si spiegherebbe la nota a piè di pagina inserita dal Coste nel momento in cui, per la prima volta, introduce la parola Inquiètude”23.
Da questa breve digressione incentrata sulle questioni della perdita e della compensazione nella traduzione francese dell'Essay di Locke elaborata da Pierre Coste, ci appare ben chiaro e distinto il modo in cui quest'ultimo abbia, mediante la sua opera, messo in atto (consapevolmente o inavvertitamente?) un'operazione letteraria dalle conseguenze preponderanti dal punto di vista dell'interpretazione del moderno pensiero filosofico lockiano, arrivando a determinare da una parte qualche “perdita” e dall'altra dei “nuovi apporti” per quanto concerne il medesimo.
Proviamo ora a rivolgere nuovamente la nostra attenzione al saggio sulla traduzione redatto da Umberto Eco, dato che in esso vengono affrontate due fenomeni affini alla procedura di traduzione, ai quali ancora non abbiamo accennato e che nonostante tutto paiono degni di vaglio: ci riferiamo all'ipotiposi e all'ekfrasi.
L'ipotiposi è un tipo particolare di figura retorica che consente all'autore di evidenziare delle immagini attraverso l'uso delle parole. Generalmente, sostiene lo scrittore alessandrino, questa tipologia di tecniche descrittive non provocano alcun problema al traduttore; tuttavia accade, alle volte, che: “una descrizione verbale, per poter sollecitare un'immagine visiva, rinvii ad una esperienza precedente del lettore”24. Quando il suddetto richiamo è più o meno esplicito ecco che ciò facilita, in un certo qual modo, il compito del traduttore, diversamente, “talora il richiamo è più sottile, a tal punto che lo stesso può perdere il senso reale del richiamo”25.
Come l'ipotiposi, pure l'ekfrasi ha a che vedere con l'immagine, ciononostante nel suo caso si tratta non della descrizione di un'icona qualunque e in una certa maniera eventualmente nota all'esperienza passata del lettore, bensì di un'opera artistica visiva come un quadro oppure una scultura. In altre parole, Eco ci riporta come l'ekfrasi debba essere intesa alla stregua di una trasposizione da un testo visivo ad un testo scritto. L'autore medesimo dichiara di aver effettuato un ampio uso di tale espediente, specialmente, durante la stesura dei propri romanzi e prosegue dichiarando che tale figura retorica, di per sé, non crea alcun intoppo durante il procedimento di traduzione (riferendosi qui, e lo dobbiamo tenere ben presente, all'ekfrasi occulta), poiché: “se la descrizione verbale è buona, essa dovrebbe funzionare anche in traduzione”26.
Un ultimo aspetto ci preme illustrare in questa sede prima di passare oltre e dedicarci, finalmente, all'analisi della teoria della traduzione presentataci da Francesca Ervas nel suo originale volume: quello del rifacimento radicale. Innanzitutto, è doveroso per noi domandarci: “Che cosa intende Eco quando parla di rifacimento radicale?”
Per poter rispondere esaurientemente a tale quesito proviamo a prendere in considerazione, insieme al filosofo piemontese, il testo del Finnegans Wake di James Joyce; impegnandoci a confrontare le sue riflessioni con quelle prodotte da Paolo Gambazzi in merito proprio ai caratteri di questo testo joyciano. Il nostro tentativo, sia chiaro fin da adesso, non è di certo volto a realizzare un ragguaglio sul romanzo dello scrittore irlandese dal punto di vista della critica letteraria perché questo esula dal nostro lavoro e risulterebbe troppo fuorviante rispetto ai nostri scopi: insomma, del Finnegans Wake, o per meglio dire, delle osservazioni di Eco e Gambazzi sul medesimo; ci interessano soltanto gli aspetti strettamente collegati alla particolare questione della traduzione e più a sommi capi del linguaggio.
L'autore de Il nome della rosa descrive questo romanzo di Joyce come: “un testo plurilingue nella maniera in cui lo intende un anglofono”27, dunque, possiamo ribadire che tradurre un libro come questo, il quale altro non è se non il frutto di una commistione linguistica, è un'operazione delicata in grado però di far emergere tutto un insieme di elementi originali capaci di fornire “nuova linfa” ad uno specifico idioma; del resto ciò ci viene saggiamente rimembrato dallo stesso Eco, secondo cui: “ogni traduzione del Finnegans Wake, in quanto porta la propria lingua ad esprimere ciò che essa prima non sapeva fare […], le fa compiere un passo in avanti”28.
Ora nel momento in cui lo scrittore irlandese procede alla stesura del suo testo, sicuramente, non si pone dinnanzi alcuna questione legata al mondo della traduzione, semplicemente (e qui possiamo soltanto ragionare per ipotesi) perché lo sente distante da sé oppure perché non prova alcun interesse nei suoi riguardi; comunque certo è che egli non si domanda in che modo quest'ultimo potrà essere tradotto. Tutto questo comunque non implica per nulla che la traduzione non si riveli anche qui abile nel ritagliarsi un proprio spazio, infatti, non a caso Eco aggiunge il fatto che se tentassimo di operare una traduzione di tale romanzo direttamente dal testo-fonte joyciano in una qualsiasi altra lingua, essa risulterebbe impossibile; mentre se, ad esempio, provassimo a tradurlo a partire dalla versione italiana (curata da Schenoni) allora ecco che riusciremmo a preservare un certo qual grado di “fedeltà all'originale” e ciò appare quasi paradossale, visto che la traduzione italiana del Finnegans Wake è tutto tranne che “fedele” al manoscritto del dublinese.
Allo stesso modo, Paolo Gambazzi ci ricorda, come per Joyce: “non esiste una lingua originaria, unica e ideale di cui le lingue storiche sarebbero delle copie imperfette. Ogni lingua è dentro l'altra, non solo nella traducibilità di una lingua in un'altra, ma nella presenza dell'una nell'altra”29.
Ebbene, sforziamoci di comprendere meglio queste esternazioni, affermando che similmente al modo nel quale ogni lingua è dentro l'altra anche ogni mondo è dentro l'altro, per dirla in termini leibniziani. Questa è la realtà presentataci da James Joyce nel suo Finnegans Wake; una realtà dominata dal perenne divenire delle cose, dal suo stesso essere continuamente ed incessantemente in fieri; il mondo qui è un mondo eracliteo e la parola stessa utilizzata dall'autore di Gente di Dublino è eraclitea ed è questo, a mio parere, che rende l'originale joyciano, di per sé, indecifrabile e intraducibile (perlomeno nel senso in cui Eco intende la traduzione, cioè come un dire quasi la stessa cosa).
Il linguaggio di questo testo è fortemente caratterizzato da un alone di immanenza notiamo, in concreto, come: “le parole di Joyce acquisiscono una vita propria […], vivono e si trasformano, si intensificano e trasformano”30. Ogni lingua umana è quindi imperfetta per Joyce, insiste Gambazzi e aggiungiamo noi, lo è soprattutto in quanto, direbbe Benjamin: “ogni lingua comunica semplicemente l'essere linguistico delle cose […], ogni lingua comunica sé stessa”31.
In altre parole, siamo autorizzati a riaffermare come proprio la versione italiana del Finnegans Wake di Joyce, altro non sia che l'emblema di un rifacimento radicale di un testo-fonte per cui non sarebbe più plausibile parlare di reversibilità (cioè di corrispondenza e verosimiglianza fra la traduzione e l'originale), pure se ciò non provoca affatto, perlomeno a giudizio di Umberto Eco e in riferimento all'opera joyciana: “una perdita nella palude delle libere interpretazioni”32; bensì rimane nell'alveo della traduzione propriamente detta.
Nelle prime battute del nostro lavoro abbiamo esplicitato la maniera in cui anche Francesca Ervas, all'interno del saggio Uguale ma diverso: Il mito dell'equivalenza nella traduzione, vada a trattare una tematica estremamente rilevante dal punto di vista dell'analisi della prassi traduttiva, sarebbe a dire quella dell'equivalenza.
In realtà, avevamo accennato già in precedenza la nostra intenzione di porre sotto i riflettori questo problema ma non potevamo, ovviamente, perseverare nella nostra azione senza prima dire tutto quel che era necessario sostenere a proposito dei dilemmi sollevati e dibattuti nel saggio di Eco in merito al criterio di reversibilità, alla negoziazione, ai concetti di perdita e compensazione, all'ekfrasi e all'ipotiposi, alla distinzione fra interpretazione e traduzione e, da ultimo, al rifacimento radicale.
Abbiamo quindi esposto il modo in cui andremo a rivolgere la nostra attenzione a quanto Ervas dichiara nel suo volume in relazione a quello che è il suo obiettivo primario, cioè predisporre un'audace critica nei confronti del metodo attraverso il quale la riflessione contemporanea ha interpretato il rapporto fra un testo d'arrivo e l'originale e dunque la traduzione nell'accezione di una relazione che non è di completa uguaglianza, ma neppure di piena differenza.
Proprio in tal senso, è sotto l'etichetta di equivalenza che buona parte dei contemporanei, secondo l'autrice, ha catalogato tale rapporto; e questo appare particolarmente vero nel caso del pensiero filosofico novecentesco, il quale l'ha rappresentato come: “un elemento teoretico fondamentale della possibilità stessa della traduzione”33. La ricercatrice italiana ci propone così una straordinaria carrellata di congetture tardo-moderne e contemporanee per quanto concerne l'origine e lo sviluppo della riflessione filosofica, psicologica e semiotica relativa propriamente alla nozione di equivalenza. In primis, ci viene presentata la teoria avanzata nella prima metà del 1700 da Johann Jakob Breitinger in Critische Dichtkunst: secondo quest'ultimo, la traduzione migliore è: “quella tanto fedele al testo originale da sostituire ad ogni parola un termine equivalente nella lingua d'arrivo”34, perciò in modo, credo, piuttosto semplicistico e riduttivo, Breitinger pare ritenere che una buona traduzione consista soltanto nel dimostrarsi sufficientemente abili nel trovare le parole maggiormente adatte a svolgere nel testo tradotto, le medesime funzioni esercitate all'interno dell'originale da altri vocaboli.
Concordiamo pienamente con Ervas sul fatto che l'autore tedesco vada “a fondare” l'intero processo di traduzione sul principio di interscambiabilità che, fra le altre cose, viene pesantemente contestato da Schopenhauer, il quale a differenza di Breitinger, ritiene che gli idiomi non siano, di per sé, dei sistemi pienamente interscambiabili e che la stessa esistenza di lingue diverse presuppone la presenza di concetti differenti esprimibili difformemente nelle varie comunità linguistico-culturali.
L'indagine dell'autrice inerentemente alle posizioni assunte dai diversi pensatori della contemporaneità prosegue con uno sguardo al confronto-scontro circa la plausibilità o meno della traduzione che vede protagonisti assoluti Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Ora i due filosofi, nelle loro rispettive disquisizioni intorno al problema della traduzione, sembrano porsi in maniera alquanto critica rispetto alla nozione di equivalenza; ma nonostante ciò possiamo intravedere comunque una certa discrepanza fra i loro punti di vista: se infatti per l'autore dell'Estetica, in riferimento alla poesia, è sufficiente negare la validità del concetto di equivalenza per invalidare anche la procedura traduttiva, al contrario in Gentile l'inificiare il primo non consegue, tuttavia, il rendere infeconda l'altra.
E' significativo poi il modo in cui Francesca Ervas richiami, come già in precedenza abbiamo visto fare ad Eco in Dire quasi la stessa cosa35, l'idea gadameriana della traduzione come: “un lungo lavoro di interpretazione che implica da parte del traduttore rinunce, compromessi e soprattutto la “dolorosa” presa di coscienza della distanza della traduzione dall'originale”36; visto e appurato il fatto che è proprio dalle considerazioni dell'autore di Verità e Metodo che prendono il via le successive valutazioni prodotte dal filone francese con Derrida e Ricoeur.
A catturare la nostra attenzione è qui, in specie, la proposta ricoeuriana di non contrapporsi in blocco al concetto di equivalenza (come, contrariamente, viene concepito da Derrida), bensì di attuarne un ripensamento in una nuova accezione, abbandonando la “falsa dicotomia” traducibile/intraducibile.
Al di là di tali argomentazioni addotte da filosofi di diverso orientamento, diviene doveroso per noi rammentare come l'autrice scelga spontaneamente di incanalare le proprie energie nel porre in risalto i contributi frutto di eminenti semiologi novecenteschi, fra tutti: Jakobson, Nida e Catford.
Il fine perseguito dalla stessa Ervas è dunque quello di esplicitare il sistema in cui soprattutto la riflessione semiotica ha provveduto a determinare il concetto di equivalenza allo scopo di decostruirne la metodologia e provare non già ad opporre una critica radicale alla sopracitata nozione, quanto piuttosto a stimolare un profondo lavoro di revisione creativa e di approfondimento della stessa.
Per prima cosa, Ervas illustra la proposta di Jakobson, arrivando ad affermare come secondo quest'ultimo qualunque individuo è in grado di cogliere il significato di un certo termine se ha ben presente, a livello mentale, l'immagine dell'oggetto a cui quella data parola fa esplicito riferimento e ciò a prescindere dall'effettiva conoscenza della medesima. In sostanza, per Jakobson, ribadisce l'autrice: “la conoscenza del significato di un termine è un fatto esclusivamente linguistico, o meglio, semiotico”37.
Questo, per rifarci all'esempio di Jakobson ripreso nel saggio ervasiano, sta a voler dire che: “qualsiasi persona può capire il significato del termine italiano “formaggio” se sa che in italiano <<formaggio>> significa <<alimento ottenuto con la fermentazione del latte cagliato>>”38, perciò si può parlare qui di equivalenza nella differenza, in cui a “pesare” è in particolar modo, nell'ambito della traduzione, una sottesa relazione fra sistemi linguistico-culturali.
Proseguendo lungo questa direttrice ci pare opportuno richiamare, alla stregua della Ervas, le osservazioni di Eugene Nida e John Catford: il primo rifacendosi agli studi condotti da Chomsky (il quale aveva puntualmente negato l'esistenza di un procedimento razionale nella traduzione che fosse in condizioni di garantire una corrispondenza punto per punto tra lingue diverse39); arriva ad elaborare due differenti tipologie di equivalenza: sarebbe a dire una formale (la quale ambisce a riprodurre in un'altra lingua il messaggio originale cercando di rispettarne sia la forma che il contenuto) e una dinamica (che ricerca all'interno dell'idioma d'arrivo, l'espressione equivalente a quella riportata nel messaggio prodotto nella lingua di partenza).
Se però le cose stanno davvero così, ciò significa che l'equivalenza dinamica, in un certo senso, è un concetto decisamente più “elastico” dato che: “prevede l'adattamento del testo originale alla cultura d'arrivo, anche a costo di cambiarne l'intera forma linguistica”40.
Altrettanto paradigmatica per quanto concerne il dibattito contemporaneo sul tema dell'equivalenza nella traduzione, è il pensiero di Catford che ci appare manifesto nel suo saggio A Linguistic Theory of Translation pubblicato nel 1965. Nell'analisi del Catford, sembra voler ribadire Francesca Ervas, non è tanto il discorso sulla corrispondenza formale a meritare una riflessione particolare quanto piuttosto la questione centrale dell'equivalenza testuale.
La domanda che qui appare a noi del tutto lecita è la seguente: “Cosa implica la nozione di equivalenza testuale?”. Potremmo abbozzare una risposta rifacendoci alla definizione fornita dallo stesso semiologo, cioè: “per equivalenza testuale s'intende una qualsiasi forma nella lingua d'arrivo che si osserva essere equivalente ad una determinata forma nella lingua di partenza”41.
Adesso diciamo pure che nonostante la spiegazione del Catford potrebbe apparire, perlomeno a primo impatto, soddisfacente e lo stesso si potrebbe affermare per quel che riguarda la sua ipotesi di un'equivalenza testuale quale idea fondamentale attorno alla quale prenderebbe forma ogni processo di traduzione; è anche vero, insiste l'autrice, che lo studioso và incontro ad una serie di dilemmi di non poco conto.
Per prima cosa, è importante sostenere la maniera in cui, per il semiologo americano, il concetto di equivalenza testuale debba essere agganciato alla nozione di sostanza situazionale, dove quest'ultima è da intendersi come tutto ciò che è lì fuori nel mondo, rispetto al quale il linguaggio è una pura e semplice rappresentazione astratta.
Quanto asserito finora ci aiuta a comprendere, a detta di Ervas, che: “la definizione di equivalenza proposta da Catford si basa dunque su una teoria del significato essenzialmente referenziale”42. Ed ancora aggiunge ulteriormente l'autrice: “ma il riferimento alle “cose lì fuori nel mondo” non è esente da difficoltà […], così si può dire che in lui rimanga comunque irrisolta la questione del ruolo del contesto situazionale esterno nel peculiare ambito della traduzione”43.
Una volta esposti i principali orientamenti presenti nel dibattito contemporaneo relativo alla funzione dell'equivalenza nella traduzione, si rivela qui inevitabile rievocare la finalità perseguita dalla filosofa italiana, cioè quella di dimostrare come la stessa non costituisca nient'altro che un'utopia, tenendo conto del fatto che ogni manovra mediante la quale si è provato ad esplicare il rapporto di equivalenza si è rivelato un totale insuccesso; dunque è proprio tale motivazione che ha inciso in modo preponderante sulla sua scelta di porre in essere una critica il più possibile costruttiva in riferimento all'idea di equivalenza così come l'hanno concepita illustri esponenti dell'arena scientifica. Parliamo di critica costruttiva per far risaltare nuovamente al lettore come non vi sia alcun intento, da parte dell'autrice, di eliminare in toto l'equivalenza, ma più semplicemente vi sia quello di procedere ad una sua rivitalizzazione, o meglio, risistemazione che passerà soprattutto attraverso l'ideazione di un concetto innovativo nella sfera della traduzione, quello di valore di scambio in luogo del valore d'uso.
Già nella sua Introduzione, Francesca Ervas mette in luce l'inadeguatezza dei concetti sui quali si fonda, per inciso, il mito dell'equivalenza nella traduzione; ebbene nel presente lavoro, naturalmente per ovvie ragioni di brevità, cercheremo di descrivere nei suoi tratti essenziali proprio il meccanismo attraverso il quale si vengono a discutere i principi-cardine che le diverse teorie sulla traduzione hanno predisposto quali: l'unità di traduzione, l'identità e l'invarianza del valore; qui il nostro compito sarà quello di circoscrivere sommariamente i primi due per poi soffermarsi, più approfonditamente sul terzo.
Quando parliamo di unità di traduzione facciamo un chiaro rimando ad “un concetto astratto di unità di significato che il traduttore stabilisce a priori e poi applica al testo da tradurre”44, ma ciò è del tutto privo di senso secondo l'autrice poiché, come lei stessa scrive: “l'ideale unità di traduzione si dissolve nel momento stesso in cui il traduttore si confronta con il testo e con il suo con-testo, assumendo infinite possibili forme”45.
Nel capitolo terzo del saggio, troviamo poi dibattuta la problematica inerente al rapporto concernente il testo-fonte con il testo tradotto; la Ervas, in questo specifico caso, prova a spiegare (e lo fa, di fatto, ponendosi sulla medesima scia delle considerazioni di Umberto Eco) come il suddetto non possa in alcun modo essere designato alla stregua di una relazione identitaria perché nel momento in cui si parla di traduzione, insiste la pensatrice italiana: “si fa sempre un implicito riferimento ad una diversità di fondo”46; ed per tale ragione che siamo perfettamente in grado di sostenere che non soltanto nozioni tradizionalmente esperite dagli studiosi quali simmetria, interscambiabilità e invarianza abbiano finito per creare confusione e numerose difficoltà nel giungere a delimitare l'equivalenza, ma anche altre vi abbiano contribuito negativamente come, ad esempio, la sinonimia47.
Arriviamo finalmente a definire l'ultimo dei tre dogmi relativi alla traduzione presi in considerazione da Francesca Ervas: l'invarianza del valore.
Ricostruendo l'etimologia del termine “equivalere” (letteralmente, “avere lo stesso valore”), già nell'Introduzione ci viene mostrato il modo in cui le varie correnti di pensiero che si sono prodigate di basare la prassi traduttiva sul concetto di equivalenza, lo abbiano fatto sostenendo come all'interno di una data operazione di traduzione i “valori” presenti nel testo-fonte rimarrebbero assolutamente invariati nel testo d'arrivo. Questo implica, in sostanza, che una volta portata a compimento la procedura d'individuazione dei “valori” presenti nell'originale (“valori” che svolgono all'interno di quest'ultimo sempre una precisa funzione, un certo uso), ecco che il traduttore sarebbe nella possibilità di “renderli”, in maniera del tutto invariata, nel tradotto; e ciò accadrebbe, secondo i sostenitori del valore d'uso, perché determinati elementi linguistici hanno la medesima funzione, il medesimo ruolo indistintamente nel testo di partenza che in quello d'arrivo.
Possiamo, quindi, obiettare come quel che viene proverbialmente “posto sotto i riflettori” dalla saggista italiana è proprio tale idea statica di equivalenza, alla quale preferisce contrapporre un'immagine più dinamica, così infatti suggeriscono le sue parole: “l'equivalenza sarà così una relazione non che si dà una volta per tutte, ma un processo che si modifica nel tempo, nel corso del singolo incontro comunicativo”48.
La proposta di Ervas è pertanto quella di costituire un nuovo concetto di equivalenza funzionale basato sul valore di scambio e non più, o quantomeno non tanto, sul valore d'uso; ed è tale valore di scambio, che altro non è che quel “valore” posto man mano dal traduttore stesso nel momento in cui sta eseguendo le operazioni che gli competono all'interno di un “processo di traduzione” che egli gradualmente pone in atto in simmetria ed in simbiosi con il suo interlocutore.
Apprestandoci a concludere la nostra ricerca, ci sentiamo in obbligo di condividere con il lettore le conclusioni alle quali pare pervenire la nostra autrice in chiusura del suo saggio, per la quale il traduttore è una sorta di individuo che agisce in maniera del tutto intuitiva e creativa preoccupandosi di avviare un procedimento in fieri (qual'è appunto la traduzione) facendo leva su di un modus operandi che pare vederlo impegnato in una sorta di dialogo con l'autore dell'originale, del quale appunto si sforza di decifrare i codici e carpire gli intenti comunicativi con la piena consapevolezza che non potrà adempiere al proprio dovere nell'immediato, ma solamente “procedendo per gradi”.
Massimiliano Uberti
Bibliografia
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Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa: Esperienze di traduzione., Ed. Bompiani, Milano 2012.
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Francesca Ervas, Uguale ma diverso: il mito dell'equivalenza nella traduzione., Quodlibet, Macerata 2008.
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Davide Poggi, Pierre Coste e la traduzione francese dell'Essay di John Locke.,(tesi di dottorato-XX ciclo del dottorato in Filosofia svoltosi presso l'Università degli studi di Verona nel triennio 2005-2007).
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Paolo Gambazzi, Materiali di Estetica a.a. 2008/2009.
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Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo., in Renato Solmi (a cura di), Angelus Novus. Saggi e frammenti., trad. it., Ed. Einaudi, Torino 2012.
NOTE
1Si veda Francesca Ervas, Uguale ma diverso: Il mito dell'equivalenza nella traduzione., Quodlibet, Macerata 2008, pp. 9-19.
2Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa: Esperienze di traduzione., Ed. Bompiani, Milano 2012, p. 72.
3Ivi, pp. 79-80.
4Ivi, p. 80.
5Ivi, p. 93.
6Cfr. Ivi, pp. 42-45.
7Ivi, p. 247.
8Ivi, p. 96.
9Ivi, p. 104.
10Ibidem.
11Ivi, p. 106.
12Cfr. Ivi, pp. 110-125.
13Si fa qui esplicito riferimento all'edizione francese dell'Essay lockiano risalente al 1700 curata proprio da Pierre Coste.
14Cfr. Davide Poggi, Pierre Coste e la traduzione francese dell'Essay di John Locke (tesi di dottorato, XX ciclo del dottorato in Filosofia svoltosi presso l'Università degli studi di Verona nel triennio 2005-2007)., p. 28.
15Ibidem.
16Ivi, p. 29.
17Corsivo mio.
18Corsivo mio.
19Ivi, p. 30.
20Ivi, p. 31.
21Ibidem.
22Ivi, p. 167.
23Cfr. Ivi, p. 164-168.
24Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa: Esperienze di traduzione., op. cit., p. 198.
25Ivi, p. 199.
26Ivi, p. 210.
27Cfr. Ivi, p. 304.
28Ibidem.
29Si veda Paolo Gambazzi, Materiali di Esterica (a.a 2008/2009), p. 87.
30Ivi, p. 90.
31Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo., in Renato Solmi (a cura di), Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it., Ed. Einaudi, Torino 2012, p. 55.
32Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa: Esperienze di traduzione., op. cit., p. 312.
33Francesca Ervas, Uguale ma diverso: Il mito dell'equivalenza nella traduzione., op. cit., p. 24.
34Ivi, p. 26.
35Si rimanda nuovamente a Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa: Esperienze di traduzione., op. cit., pp. 91-94.
36Francesca Ervas, Uguale ma diverso: Il mito dell'equivalenza nella traduzione., op. cit., p. 34.
37Ivi, p. 37.
38Ibidem.
39Ivi, p. 41.
40Ivi, p. 42.
41Ivi, p. 46.
42Ivi, p. 47.
43Ibidem.
44Ivi, p. 15.
45Ibidem.
46Ivi, p. 16.
47Per il problema della sinonimia si rimanda sempre al volume di Francesca Ervas, precisamente si rinvia il lettore al cap. III, par. 2, pp.101-109.
48Ivi, p. 18. E sull'equivalenza come processo dinamico si veda anche: Ivi, pp. 156-161.
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