Riflessioni sull'Antroposofia
La Scienza dello Spirito
di Tiziano Bellucci indice articoli
Tutto E’ Uno: il monismo
Novembre 2014
I limiti della conoscenza umana si fondano sulla non conoscenza di una verità occulta, ben chiara invece ai popoli antichi, perdutasi nei tempi dalla svalutazione inflitta dalla concezione materialistica; tale verità è inconosciuta alla maggior parte degli uomini ed è il fondamento su cui si basa il senso della vita dell’uomo e la sua missione.
“L’uomo non è affatto separato dal mondo, ma è uno con esso. Non esiste la molteplicità. Il mondo nella sua realtà non è affatto distinto, ma costituito di una sola unità.”
Tale “condizione reale”, o “stato univoco della realtà” inconosciuta dall’umano è da intendersi come un perenne omogeneo fluire l’una nell’altra delle singole unità entro una corrente di pura vita impersonale, in continuo mutamento e completamente interpenetrantesi: lo stato di coscienza di tale condizione è di una natura diversissima, paragonata con l’ordinario stato di veglia umano.
Non esiste là una pluralità di esseri, ma un solo corpo universale costituito di infiniti organi che collaborano alla sua vita generale.
Una similitudine si può cogliere sulla Terra, riguardo all’organismo “alveare”.
E’ una “Ipercoscienza”, con un valore di realtà immensamente più alto di ciò che conosciamo come “reale”: inafferrabile all’intelletto dell’uomo.
L’uomo è anch’egli un “arto” di tale “corpo cosmico”, e come gli altri arti, se non gli fosse stato fornito il modo per potersi distinguere dall’indifferenziato non avrebbe autocoscienza di sé, ma si perderebbe, sentendosi tutt’uno con tale fluire vitale.
Non sarebbe possibile l’originarsi di una conoscenza se non fosse stata prevista una artificiale separazione. La realtà unica totale si scinde, per la coscienza umana, in due parti o momenti: percezione e concetto. Essa fa ciò solo per rendersi conoscibile all’uomo.
Come potrebbe ora, un ente unico, che tutto pervade, che contiene in sé il tutto, poter conoscere sé stesso se esso è tutto ed all’infuori di lui non vi è null’altro che sé stesso?
Se gli enti e gli esseri nuotassero gli uni negli altri, in un quid unitario omogeneo, sarebbero soggetti alla legge della permeabilità; non potendo avvertire una separazione, andrebbe perduta la possibilità di distinguersi l’uno dall’altro. Non vi sarebbero soggetti che vedono oggetti, ma l’uno sarebbe nell’altro, contemporaneamente. Punto su punto.
Lo spazio-tempo
Si immagini una condizione di esistenza in cui tutto è racchiuso, compresso in un punto, nel quale tutto è contemporaneo, condensato, compenetrato e Uno: lo spazio non esisterebbe, ne sarebbe richiesta l’esigenza, perché l’unitarietà del Tutto in un Uno non essendo distanziata da spazio, apparirebbe solo come un esistere molteplice concentrato in una sintesi di Vita indifferenziata, la quale basta a se stessa.
Un’entità là presente, se volesse incontrare un altro essere, non avrebbe la necessità di muoversi verso o lungo una direzione per incontrarla, dato che l`altra è già simultaneamente in lei, entro il suo stesso “spazio” vitale. La vita sarebbe spazio animico spirituale.
Ovviamente è lecito parlare di tale molteplicità Una, solo da parte della prospettiva umana dato che la prima, non essendo dotata di autocoscienza, non avvertirebbe la molteplicità o suddivisione, ma solo il far parte, dell`unico corpo universale.
La dimensione spaziale si origina perché l`Io, affacciandosi coscientemente solo tramite la riflessità, quindi sperimentandosi quale individualità distaccata dal tutto, origina in se stesso un “dentro” interiore (soggetto), e un “fuori” esteriore, (oggetto) perdendo la capacità di identificarsi “uno” con il tutto.
Lo stomaco può dirsi “Io”? E il dito può rinnegare la sua natura e staccarsi dalla mano? Se l`uomo vuole incontrare o percepire il suo cuore, o il suo fegato non deve spostarsi nello spazio per andare verso di lui, basta soltanto che “ascolti” o “senta” la medesima corrente di vita che scorre in lui e nei suoi organi, per sentirli presenti e attivi; l`incontro con una parte di noi è quindi possibile: anche se tale vita comune del corpo sembra solo supposta e invisibile, il fatto che si viva, dimostra che essa è ben esistente e reale.
Il secondo inganno è il Tempo; a cosa servirebbe un tempo se non si deve percorrere alcuna distanza, non esistendo lo spazio, dato che il tempo entra in scena solo nel momento in cui si deve misurare una distanza, sia nell`analisi dello svolgersi di un processo organico o chimico nell`altro, sia nel percorrere una distanza? In realtà lo spazio non è altro che tempo condensato in un punto: passato, presente e futuro si srotolano originando lunghezza, larghezza e altezza.
Il punto e la sfera riflettente
Muovendo ora dal concetto dell`Uno Tutto concentrato in un solo punto, si immagini ora che tale punto sia il centro di una sfera vuota, ove la sua superficie interna sia fatta di specchio, quindi riflettente; il punto si specchierebbe sulle pareti riempiendole di infiniti punti. Ecco ciò che l`uomo vede: egli sorprende lo Spirito, scisso e reso molteplice dall’illusione del suo rispecchiarsi sulle pareti del suo cervello, che fa le veci di un immenso specchio microcosmico.
L`umano vede la sua stessa essenza spirituale divisa nelle stelle, nei pianeti, nel mare, nelle montagne, negli oggetti del mondo; vede gli oggetti distinti e distanziati perché gli appaiono riflessi dallo specchio del suo cervello e sente scorrere il tempo perché come è impedito di percepire l`unitarietà sostanziale vitale del mondo, allo stesso modo non si rende conto che ogni momento o attimo che è passato o passerà sono parte di un unico eterno presente che egli vede frammentato.
In realtà ciò che appare è solo il riflesso della presenza di una essenza eterna in lui, che si frammenta per illusione, in attimi di tempo e in linee spaziali, onde poter farsi ricomporre e conoscere da lui stesso.
Per poter rendere possibile una conoscenza, al di là dell’inganno del tempo e dello spazio, sono dunque necessari due elementi fondamentali: il soggetto (il percipiente) e l’oggetto (il percepibile). Se vi fosse solo il soggetto privo di mondo esteriore da osservare, il soggetto non potrebbe giungere neppure alla coscienza di sé. Un essere che nascesse in un corpo privato di tutti i sensi, non sentirebbe in sé la necessità di domandarsi qualcosa su sé stesso o sull’esistenza di qualcosa di esterno. Non sorgerebbe in lui neppure la rappresentazione del suo Io: non si sentirebbe un Io; condurrebbe una vita solo vegetativa, con uno stato di coscienza pari alla pianta, avvolto entro un sonno senza sogni.
In una condizione similare possiamo concepire la realtà spirituale in cui ogni ente è immerso: in una sfera ove lo spirito è l’unico soggetto e non esiste alcun oggetto perchè esso contiene tutto; non si può più parlare di soggetto e di oggetto: entrambi coincidono.
Affinché il soggetto-oggetto Spirito potesse arrivare ad una autopercezione di sé, ad un’autoconoscenza, fu deliberato che una parte della sua essenza venisse preparata affinché potesse percepire la realtà in modo non unico, ma scissa in due. Tale essenza prescelta doveva venir posta in una sorta di condizione illusoria, nella quale essa vedesse comparire nella sua coscienza non la realtà totale nella sua simultaneità e nella sua unità, ma bensì in forma artificialmente separata. La coscienza di quell’essenza doveva sperimentarsi in un apparente “al di fuori” del tutto dello Spirito.
“La sapienza di Dio è la contemplazione che Egli fa di sé stesso nel tutto, tramite lo specchio della natura e dell’uomo”. Dice un motto rosacruciano.
Non si potrebbe realizzare una coscienza dell’esistenza di un mondo esteriore che origina di conseguenza l’esistenza di un mondo interiore, se non venisse operata la separazione illusoria fra oggetto e soggetto. Tale illusione si genera a mezzo del cervello fisico: esso riflette la realtà una, scindendola in una molteplicità.
Se davanti ad un ente, una distinzione non fosse compiuta dall’uomo, non per questo la realtà di quella cosa sarebbe mutata, ma di certo nessuno nell’universo, avrebbe colto coscientemente quell’evento come invece lo può cogliere l’uomo.
Egli è un arto dello Spirito, il quale è stato appositamente dotato di uno “specchio magico” tramite il quale, lo Spirito, di cui fa parte anche il suo io, possa in lui specchiarsi e riconoscersi, prendendo così autocoscienza di sé.
In altri termini: come potrebbe un individuo prendere coscienza della forma del suo corpo se non avesse uno specchio in cui riflettersi?
Allo stesso modo, lo Spirito, essendo il Tutto e non esistendo quindi nulla al di fuori di tale Tutto se non Lui, come poteva contemplarsi entro un qualcosa di esterno a Sé? Doveva creare le condizioni affinché parte della sua stessa sostanza, potesse contrapporsi alla sua Presenza, onde così “specchiarsi” in essa e fare l’esperienza dell’autocoscienza di Sé.
Ciò non fu sempre necessario allo Spirito; in altri tempi, antecedenti a questa evoluzione, la Saggezza operava in Potenza al di là di tale necessità, perché tale identificazione non è una norma indispensabile per la vita dello Spirito. Ma ora invece lo è: l’evoluzione si dirige verso una meta, la quale richiede Esseri recanti in sé la facoltà dell’autocoscienza, quali futuri operatori dello Spirito entro una nuova futura evoluzione cosmica.
L’uomo è quindi lo specchio delle Forze universali, e tale specchio è più precisamente il suo cervello fisico.
Quando l’uomo percepisce un oggetto, essendo la percezione più un “inspirare” che un vedere, tramite la percezione egli “inspira” il pensiero insito nell’oggetto, il quale entra così in lui .
Egli, per poter conoscere l’oggetto che gli si presenta, deve a tal punto pensare il pensiero che ora penetrato in lui, era prima nell’oggetto; per far ciò l’uomo, invia lungo i canali neuro sensoriali gli impulsi elettrici e chimici codificati dagli organi sensori al suo cervello, i quali sono stati suscitati dall’impressione scaturita dalla percezione del pensiero insito nell’oggetto.
Tale impressione “cozza” contro la sostanza fisica neurologica; lo Spirito s’incontra con Sé stesso: si attua una contrapposizione, nella quale l’Io dell’uomo, ossia lo Spirito, si specchia in sé stesso; da quest’incontro fra spirito e materia, l’Io dell’uomo riesce coscientemente a cogliere un riflesso, ma che è solo un’ombra, o meglio un frammento dell’intero mosaico che gli è di fronte; è ciò che può conoscere dell’oggetto che è là, fuori di lui: il cadavere dell’idea insita nell’oggetto.
Ma ora, il Mare non è più solo un oceano indifferenziato, bensì un mosaico, fatto di milioni di pezzi, che se sommati e ordinati insieme daranno la vera forma all’opera d’arte.
Si invera il principio del piano divino: avviene un primo oscuro Conoscersi, fra Spirito e Spirito.
Dal “Suono della luce” di Tiziano Bellucci
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