Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Elias Canetti. Metamorfosi e identità
Conversazione con Andrea Borsari
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- dicembre 2005
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Ma il “motivo orientale” cos’altro riguarda ancora?
Riguarda anche la direzione di pensiero che sfugge ai dualismi della tradizione occidentale, presta attenzione ai dettagli e al particolare, sa porre lo sguardo all’altezza di ciò che è umiliato e marginale e auscultare il respiro minuto della vita, conosce la via che attraverso le immagini mette in questione la volontà sistematizzante del concetto senza cadere nella dispersione e nell’indicibile.
Quale luce nuova getta questo libro sull’opera complessiva di Canetti (a più di dieci anni dalla sua scomparsa)?
È lo stesso Canetti a sottolineare gli aspetti per i quali si sente finalmente compreso dal libro, tra gli altri: l’apprezzamento della “Storia di una vita”, il grande affresco autobiografico in tre volumi che ripercorre le tappe della sua formazione e della sua metamorfosi; l’importanza di “Le Voci di Marrakesch”, dell’incontro con la nostalgia per la pienezza dei nomi, e con la possibilità, che resta tuttavia incompiuta, di adesione pacificata alla propria comunità di origine; il rilievo della figura del dottor Sonne…
Che costituisce una sorta di contravveleno all’influsso di Karl Kraus, la ‘dittatura’ intransigente delle invettive alle quali Canetti aveva sottoposto la propria giovinezza.
Infatti. Mentre le conversazioni con Sonne seppero indicargli una volontà di comprensione che non si confonde mai con un esercizio del potere, che accoglie e conserva le cose, non si abbatte sul proprio oggetto come un uccello da preda ma riconosce la santità del vivente. Il libro ha però anche il grande pregio di proporre una presentazione di tutte le opere di Canetti, di valorizzarne i singoli risultati e, insieme, l’originalità di pensiero.
Perché il romanzo “Auto da fé”, pubblicato nel 1936, venne riconosciuto dalla critica solo nel 1963?
Il romanzo che Canetti scrisse abitando di fronte allo Steinhof, il manicomio di Vienna, ha la straordinaria capacità di metterci a diretto contatto con l’orrore, di farci toccare il male e la ferocia in tutte le loro pieghe. Questo libro è stato pensato per farci l’effetto di una catastrofe violenta, di una scure che spezza in noi la superficie gelata del mare, e ci riesce.
Da ciò dunque la sua grandezza e le difficoltà che ha incontrato per affermarsi.
Grazie a passi come quello in cui assistiamo allo spegnersi del mondo dal punto di vista del nano Fischerle brutalmente ucciso da un energumeno, e per via negativa avvertiamo il rispetto estremo per la creaturalità violata anche e proprio nel più umile degli esseri, Auto da fé raggiunge la potenza dei grandi romanzi del Novecento.
Come definirebbe quella che all’unanimità è stata considerata la sua principale opera teorica: “Massa e potere”?
Un’opera abissale, incompiuta e inimitabile, che raccoglie centinaia di storie, resoconti etnografici, casi psichiatrici, episodi dalla storia, dalle religioni, e dal folklore di tutti i popoli della terra. E lo fa in maniera così abbagliante e incessante da sviare qualche interprete che ha saputo vederci soltanto una sorta di via indiretta e differita alla narrazione.
Quale doveva essere invece, secondo lei, il vero obiettivo di questo libro nelle intenzioni di Canetti?
Con esso Canetti si è proposto di “afferrare alla gola” il proprio secolo, l’ambivalente irrompere delle masse, il nazismo e, più in generale, il potere nelle loro radici antropologiche.
In cosa consiste la mossa geniale che ancora spiazza i cultori delle discipline cui pure attinge?
Consiste nel contrapporre al collasso della civilizzazione, all’emergere dell’arcaicità nel cuore stesso della modernità, una ricostruzione dei meccanismi elementari del potere e della massa nella loro concretezza, dalle fauci spalancate che afferrano la preda del livello animale, alla muta di caccia delle prime società, attraverso le metafore del bosco, del fuoco, dei granelli di sabbia del deserto e delle gocce del mare…
Fino all’idea del livello preconscio e automatico della spina del comando inflitta nelle carni con i comandi subiti che per tutta la vita si tenta di espellere con le angherie imposte agli altri e a sé.
Si potrebbe proseguire a lungo, ma già così dovrebbe essere chiaro che “Massa e potere” andrà letto innanzitutto come invito metodico ad adottare questo campo lungo antropologico e, diremmo oggi, biopolitico nella comprensione dei fenomeni della nostra epoca, nonché – esplicitandone l’istanza etica – come stimolo a interrogarci sui mutamenti profondi che richiede l’attenzione alla singolarità plurale che ne emerge.
“Canetti è stato maestro dell’unica resistenza che non conosce limiti né tregue: la resistenza contro la morte”: è d’accordo con queste parole di Roberto Calasso, presidente dell’Adelphi, principale editore italiano dell’opera canettiana?
Canetti ha fatto dell’odio per la morte il motore palese del proprio compito di scrittore, e molti hanno espresso dubbi su questa sua pretesa. Lungi dal configurarsi come un ingenuo rifiuto di prendere atto della sua realtà, la coscienza della morte significa per Canetti il rifiuto irremovibile di scaricare la spinta mortifera sulla massa o attraverso il potere della messa a morte. Qui sta semmai la sua carica utopica, la sua portata innovativa e la sua ansia di liberazione.
Doriano Fasoli
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