
Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Su Georges Bataille e Antonin Artaud
Conversazione con Carlo Pasi
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- luglio 2005
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Del resto lo stesso Artaud, nel suo primo scritto che dovrebbe avere una funzione iniziatica per qualsiasi tipo di approccio con la sua opera, ci indica il cammino...
La Corrispondenza con Jacques Rivière (1924-5) infatti, in cui Artaud analizza di fronte ad un interlocutore sensibile e reattivo il suo dramma personale - "soffro di una terribile malattia della mente, il mio pensiero mi abbandona a tutti i livelli..." -, costituisce una sorta di autoanalisi, in cui una scansione di carattere dialogico - la lettera - Artaud scopre ed elabora la possibilità di un'espressione stratificata e plurale che, rotti gli argini dei generi convenuti, si proiettasse su di una dimensione di carattere spaziale. Allestiva così una nuova specie di comunicazione estremamente coinvolgente, irraggiata, di tonalità essenzialmente teatrale. Ma si trattava, nel suo caso, di un teatro reinventato dalle fondamenta, proprio perché scaturito da una forza visionaria che aveva dovuto scontrarsi con lacerazioni traumatiche, rimuovendo pesanti blocchi di silenzio.
Anni fa lei pubblicò, per Bulzoni, un libro intitolato “Sade Artaud”: qual è precisamente il filo che lega questi due autori?
Ritornando col pensiero a quel mio saggio, ormai lontano nel tempo, quel che oggi, a posteriori, mi colpisce è la straordinaria continuità che lo lega all'attualità dei miei studi proprio nel segno della comunicazione crudele. "Sotto il segno della crudeltà" intitolavo il primo capitolo sottolineato da questa epigrafe di Georges Bataille "La comunicazione profonda vuole il silenzio". È infatti il problema della comunicazione presa nella morsa del silenzio ad innescare una violenza espressiva che finisce per sboccare in una nuova apertura visionaria che si risolve per contrasto in una invenzione di linguaggio. Naturalmente la crudeltà di Artaud mi permetteva di leggere Sade in una nuova ottica che potrei definire "teatralizzata". Così, ad esempio, le Cento Venti giornate di Sodoma venivano analizzate come la costruzione di una scena di carattere mentale o meglio fantasmatico, sottesa dalla crudeltà: "l'atto erotico in Sade è di essenza teatrale", scrivevo. Per quel che riguarda Artaud, la vitalità dell'accostamento stava nella possibilità di mettere a fuoco sia l'oralità sottesa alla sua scrittura, che la corporeità e la gestualità iscritta nel verbo che si espande e devia su grandi irregolarità di linguaggio.
Temi ripresi poi nei suoi scritti successivi su Artaud che presentano anche "esercizi di traduzione" degli ultimi testi dopo l'internamento al manicomio di Rodez...
Sì, e che avrei voluto integrare a questo mio saggio su Artaud attore ma che per motivi di diritti editoriali ho dovuto tralasciare. Ci sarebbe tutto un capitolo piuttosto intricato e certamente polemico da aprire sul problema dei diritti delle opere di Artaud che, in Francia, ha dato luogo a processi non ancora esauriti (e l'edizione delle sue opere complete non è ancora ultimata), e in Italia ci costringe a confrontarci con un'opera monca, formata da spezzoni usciti nel disordine più disorientante. Manca ad esempio una traduzione delle lettere di Artaud, forse la parte più "teatralizzata" e percussiva della sua produzione, con delle punte eccessive rappresentate dalle lettere ad André Breton.
Parlare dei rapporti di Antonin Artaud con il cinema forse significa evocare una fase esaltante e dolorosa della sua attività espressiva, perché sentita sostanzialmente come uno scacco. È così?
Sì. Pur avendo partecipato come interprete a ben ventisette realizzazioni cinematografiche, Artaud non riuscì ad ottenere attraverso il cinema quella risonanza che aveva sperato all'inizio. In definitiva ci restano di lui soprattutto due immagini, queste sì straordinarie. Quella che si coglie in alcune sequenze del capolavoro di Karl Theodor Dreyer La passion de Jeanne d'Arc, del 1927 in cui sostenne la parte del monaco Massieu e quella del personaggio di Marrat nel Napoléon di Abel Gance del 1925.
Ma è soprattutto la prima a rimanerci impressa...
Lì è la forza maieutica di Dreyer ad astrarre dalla rete di emozioni, una morbidezza fondamentale. Lo sguardo di Artaud, di un candore celestiale, sembra aspirato e levigato dalla luce e la limpidezza della sua espressione è scavata da un obiettivo che ha come cancellato l'ossatura dei lineamenti, le angolature, le penombre. Lo stesso Artaud era molto soddisfatto di tale interpretazione ed espresse parole di gratitudine nei confronti di Dreyer: "Ho trovato in Dreyer un uomo esigente, non soltanto un regista ma un uomo nel senso più sensibile, più umano, più completo di tale parola".
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