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Riflessioni in forma di conversazioni

Riflessioni in forma di conversazioni

di Doriano Fasoli

Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice


Un atto unico

Conversazione con Jannis Kounellis
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it

- agosto 2005
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Quali sono stati i punti di riferimento decisivi per la sua formazione?
Naturalmente il primo atto formativo è quello di partire verso quel Masaccio degli affreschi che, se capito, apre la porta del dialogo, dell'avventura e della costruzione di una mappa con percorsi segreti che portano, Città dopo Città, Caffè dopo Caffè e castelli fiabeschi, a curiosare fra pensatori che giocano con i dubbi e pittori che segnano sulla carta grottesche immagini critiche e liberatorie, e ci ridono e ci bevono e ci fumano sopra.
Quel Masaccio dipinto sulla parete della chiesa porta a capire, nei teatri occidentali, gli estremismi creativi.

Qualcuno, troppo legato forse a un'iniziazione antica, dove gli si diceva che l'artista è colui che racconta in proprio, ritiene che ora, invece, egli sembra murato in un grande Luogo Deputato, molto elastico e protetto, dove anche il gesto ‘off off’ fa parte del gioco... Ma fare e ricevere arte non è mai ideologico, l'arte è sempre e soltanto un momento di subbuglio interiore, dalle finalità incerte…
L'informatizzazione dell'artista, invece - sempre secondo qualcuno -, versa nell'ideologia: si trova in sintonia con questo punto di vista?
Bisogna sapere chi sei e dove vuoi andare. Il Dedalus di
Joyce indica il dramma che diventa con il passare degli anni un'epopea linguistica. Non ci sono incertezze, il caso è esposto sul tavolo da gioco illuminato a regola d'arte, con teatralità ed enfasi, ma è sempre controllato nei minimi particolari dall'artista, regista.

Che cosa vuol dire per lei finire un'opera?
Una volta uscito dalla gabbia del tonale, finire un'opera è quasi un crimine. Il difficile semmai è, settimane dopo settimane, ritrovare il valore dei tempi lunghi e rifiutare l'idea produttivista del quadro come oggetto da finire e da consegnare.


Lei accettò di partecipare alla mostra promossa dall'associazione culturale Zerynthia (nello spazio di piazza Vittorio, a Roma) intitolata "L'ultimo disegno del 1999": che cosa rappresentava il suo?
Il primo o l'ultimo disegno sono la stessa cosa, è come dire di fronte ad uno specchio: cara mamma tuo figlio vuole farsi un buco in testa.

L'artista, secondo lei, deve essere necessariamente colto?
L'artista per quanto artista è sempre colto, quando si parla di cultura per un quadro non s'intende la descrizione letteraria di un'immagine ma il riconoscersi in una struttura linguistica vasta e trovarci l'alimentazione necessaria per continuare a costruire forme espansive con segni che indicano una centralità anche quando, per ragioni storiche, sei costretto alla frammentazione.

Cinema, teatro, fotografia... qual è il suo rapporto con queste altre forme espressive?
Appartenendo in fondo al cuore all'antica famiglia degli artigiani, la mia condizione è la trasformazione della materia e le miriadi di giochi che permette; in questo senso sono legato al teatro perché quell'orchestrazione di respiri vissuta durante la rappresentazione fra attori e pubblico è ogni volta diversa e qualsiasi incidente di percorso viene ad aggiungere motivi di novità. Devo poi confessare che non ho mai personalmente fatto una fotografia perché mi terrorizza l'idea che sia la luce a disegnare e che io non possa intervenire per cambiare il destino. Naturalmente da sempre ho visto molti film e il cinema ha un suo grande peso nella modernità.

Con che cosa coincide (o vorrebbe che coincidesse) per lei la Bellezza?
Nei paesaggi di
Cézanne il bello è il giusto. La prospettiva per quel che riguarda il divenire della forma è limpida. Per me il bello è una presenza polarizzante, senza effetto per quanto le sfumature che sottolineano la luce nei quadri del Caravaggio possono sembrare di effetto, ma in verità appartengono all'Olimpo delle cose dette con precisione.

Con quale spirito decise di stabilirsi in Italia?
Sono arrivato a Roma per il capodanno del 1956, ed ho scelto io di arrivare per quella data. Non parlavo italiano ed è oggi la lingua nella quale scrivo. Attraverso i maestri Rinascimentali dei quali avevo intuito la vitalità, ho cominciato i preparativi di un lunghissimo viaggio di avventure che non voglio finire mai.

 

Doriano Fasoli


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