Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Un atto unico
Conversazione con Jannis Kounellis
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- agosto 2005
"Pochi artisti sanno, come lui, dare valore di immagine al dinamismo che è nel cuore stesso della materia: dare il sentimento tangibile della tensione, del peso, della proporzione, del rapporto tra le forme come ritmo e come numero, della sensibilità della superficie, della trasparenza, del confine tra il vuoto e la piena concretezza delle cose": così il critico d'arte Giuliano Briganti commentò l'ampia esposizione di Kounellis ospitata nel '91 ad Halifax, in Inghilterra, negli spazi di una vecchia struttura industriale.
"Bisogna vedere chiaramente che cosa si vuole raggiungere costruendo una mostra personale" - mi dice Jannis Kounellis (uno dei maggiori artisti, a livello mondiale, d'arte contemporanea, nato al Pireo in Grecia nel 1936 e oggi cittadino italiano) riferendosi, nel corso della nostra conversazione, ad una sua grande mostra antologica inaugurata a Città del Messico e che girò tutta l'America del Sud.
Dunque, Kounellis, per lei quale significato assume precisamente?
È un atto unico, un affresco che narra e vive la forma con drammaticità in uno spazio pubblico come il museo, la galleria, oppure uno spazio pre industriale, e serve per riunire delle persone per assistere alla presentazione di un avvenimento legato come logica e come conseguenza alla storia della pittura. Non si può pensare parlando di mostre ad un'immagine commemorativa oppure affermativa o apologetica, ma invece bisogna investire l'esposizione con una prospettiva di viaggio partendo dal porto più vicino per raggiungere un altro continente e con tutto l'amore possibile esprimere, instaurare un rapporto dialettico fino a che l'immagine disegnata con volontà e determinazione sia visibile e risulti per miracolo bella.
In quest'occasione lo spazio era la ex chiesa di San Agostino nel cuore del centro storico di Città del Mexico, costruita nel 600 e la cui navata misura sessanta metri di lunghezza.
Didier Eribon, biografo di Michel Foucault, disse, durante un'intervista allo storico dell'arte Ernst H. Gombrich (pubblicata da Einaudi con il titolo “Il linguaggio delle immagini”), che il più delle volte chi oggi impiega la parola "arte" intende qualcosa di più che la semplice evocazione di un'attività disinteressata e priva di funzione sociale: si percepisce quasi una sorta di esaltazione mistica. È d'accordo con l'osservazione di Eribon?
Partiamo dalla crocifissione del Pisano, il Cristo morente con la testa inclinata, con pathos e dolore, e poi sulla stessa parete la crocifissione del Masaccio, il Cristus in gloria questa volta con la testa fieramente eretta, ed è lì che si vede, per quel che riguarda la nostra sensibilità occidentale, la volontà anche ideologica che corre all'interno della forma.
Il problema non è psicologico anche se esiste la psiche, ma in tutto l'immaginario artistico, dalla profonda antichità dei greci fino all'estrema modernità delle "Demoiselles d'Avignon" c'è, nel costruire l'immagine, una volontà di sottolineare con pelle e ossa un'indicazione filosofica, e questo da quando l'opera è costruita mettendo l'accento su una diversità intellettuale ed è poi datata e firmata.
Lei fu allievo, negli anni Cinquanta, del pittore e poeta Toti Scialoja (scomparso nel 1998): fu molto influenzato da lui? E che ricordo ne conserva?
In quel paesaggio piatto e dolcemente provinciale com'era Roma alla fine degli anni '50, dove si discuteva a non finire se era più bravo Savinio o De Chirico, le lezioni di Toti Scialoja nel suo corso del bianco e nero, erano per noi giovani artisti una piacevole diversità che ci ha insegnato il senso dello spazio, l'abolizione della prospettiva, tutto affrontato sulla superficie, un'idea nuova della libertà con lo sfondo di un'America uscita vittoriosa dalla guerra e vibrante intellettualmente, con grandi protagonisti come Pollock, De Kooning o Franz Kline, letterati come Faulkner e grandi jazzisti. Gli argomenti per innamorarsi di quell'Ameica violentemente creativa non mancavano, poi più tardi siamo rimasti in parte delusi.
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