Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Contro la comunicazione
Conversazione con Mario Perniola
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- ottobre 2005
Molto del mio lavoro teorico può essere considerato come lo sviluppo di problematiche e di tendenze presenti ed attive nella filosofia, nella psicoanalisi e nelle scienze umane: non è difficile del resto trovare assonanze tra la sua dinamica teorica e alcuni aspetti del poststrutturalismo contemporaneo. Il nomadismo di Gilles Deleuze , la critica del platonismo condotta da Jacques Derrida, il rifiuto dei miti teorizzato da Jean-François Lyotard costituiscono uno scenario di fondo all’interno del quale si collocano i suoi cammini speculativi. Tuttavia questa impressione di consonanza si attenua non appena si guardi alle aree culturali a cui si rivolge l’attenzione del mio lavoro: per esempio l'interesse verso la Roma antica mi proviene da Klossowki, che mi ha fornito alcuni strumenti concettuali fondamentali per comprendere quel mondo. Del resto il mio orizzonte culturale che in origine era incardinato sull'asse franco-tedesco si è andato successivamente spostando verso la cultura austriaca e verso quella brasiliana. Il secondo elemento che conferisce una specificità particolare alla mia ricerca è l’interesse verso quei “tempi forti” dell’esistenza intorno ai quali da sempre ruotano i riti: la sessualità, la morte e il mondo. Esse costituiscono il “nocciolo duro” dell’esperienza, perché sono effettualità opache ed impenetrabili, indifferenti ed estranee alle intenzioni soggettive e ai buoni propositi: esse ci appaiono come “cose” irriducibili alla vita dello spirito e alle sue aspirazioni ideali. In particolare, nell'attenzione nei confronti del mondo, mi sento radicato nella sensibilità culturale italiana: da cosa dipende la riuscita o il fallimento delle nostre imprese? È a partire dal Rinascimento che la nozione di “mondo” ha acquistato nella riflessione teorica un rilievo sempre più grande prendendo il posto della “provvidenza”, della “volontà di Dio”. Come dice Quevedo: “Nulla mi disinganna! Il mondo mi ha stregato”!
A distanza di quasi quarant’anni dalla sua pubblicazione (per l’editore Silva), come le appare il suo primo libro “Il metaromanzo”? Come fu accolto allora dalla critica?
Ho sempre voluto pubblicare una seconda edizione di quel libro e mi è venuto anche in mente di riscriverlo. Ma finora non ne ho avuto il tempo. L'idea di portare l'attenzione sul processo creativo era giusta! Ciò che allora non sapevo è che la vera fonte era stoica: l'esercizio autofinalizzato della virtù porta ad un'arte di tipo autoreferenziale, come è stato mostrato dal mio amico Gianni Carchia, prematuramente scomparso. Quanto alla ricezione, sono molto riconoscente a Walter Pedullà, a Eugenio Montale e a Angelo Sabatini, che hanno pubblicato su giornali molto importanti tre grandi articoli elogiativi tra il settembre e l'ottobre del 1966.
Qual era precisamente in quegli anni il ruolo di un critico militante?
Ricollegandomi alla risposta precedente, tendo a pensare che allora la critica letteraria svolta sui quotidiani avesse una grande importanza e fosse un elemento essenziale per il successo di un libro e di un autore.
“Ma in Italia basta voltarsi un attimo e non si è più. Non si è più stati”. È già così per Carmelo Bene, a pochi anni dalla sua scomparsa? E negli anni ’60, quando apparve sulla scena, lei si considerò uno dei suoi primi estimatori?
Questo vale non solo in Italia, ma ovunque. Inoltre la globalizzazione ha mutato la percezione e la dinamica dei valori simbolici, i quali ora si formano e si mantengono attraverso un incastro molto complicato, precario e anche casuale di fattori eterogenei. Di Carmelo Bene mi colpirono i suoi film, la sua sensibilità barocca e la sua collaborazione (sfortunata) con Klossowski. Non mi sembra che sia un autore dimenticato Le sue opere sono state raccolte in un solo volume e la sua Vita ha raggiunto recentemente una seconda edizione. Dal punto di vista estetico, mi sembra che stia nel filone dei nipotini di Pirandello (Giorgio Colli, Carla Lonzi, Giorgio Cesarano, Manlio Sgalambro, Aldo Gargani, Adriana Cavarero, Giorgio Agamben). Sono coloro che considerano ogni forma culturale e sociale come una manifestazione di falsità, di inautenticità e di sclerosi.
“Tutti diventano creatori, c’è una mobilitazione generale che porta al paradosso per cui non c’è più un destinatario, tutti sono trasmettitori. Ognuno crea la propria espressione e non ha più il tempo di ascoltare gli altri. E’ una forma eccessiva in cui l’arte scompare per eccesso, non per mancanza, creando un cortocircuito al senso stesso”: sono parole di Jean Baudrillard. Anche secondo lei, se la poesia, l’arte, sono ovunque, allora cessano di esistere?
La soggettività in Occidente ha perduto qualsiasi riferimento ad un ordine simbolico: ne deriva il dilagare di una patologia narcisistica che finisce col murare le persone dentro se stesse. Il narcisismo contemporaneo implica una totale negazione della propria identità sentimentale. La vita affettiva è vuota. Ne deriva una amplificazione iperbolica dell'immagine di sé a detrimento della sua realtà. Insomma c'è una catastrofe psichica che è stata studiata già negli anni Sessanta-Settanta da Heinz Kohut, da Alexander Lowen e poi resa popolare da Christopher Lasch.
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