Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Nel cielo alto
Conversazione con Paolo Lagazzi
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it - giugno 2005
Altre predilezioni poetiche?
Un poeta che amo moltissimo, ma su cui ho scritto poco (mi piacerebbe, però, tornare a occuparmene), è Sandro Penna. In lui trovo delle qualità che lo avvicinano proprio ai maestri giapponesi dello haiku e del tanka: la limpidezza sognante e incantata della lingua; il sentimento mistico della bellezza racchiusa nella povertà (quello che i giapponesi chiamano wabi); la struggente "patina del tempo" (il sabi); il senso del mistero insondabile della vita (lo yûgen). Al convegno nazionale penniano di alcuni anni fa ho proposto una rilettura del poeta in questa chiave, forse sconcertando un po' qualcuno. Fra i poeti italiani dal Novecento a oggi amo molto alcuni che ritengo grandi, benché outsider, benché troppo spesso ignorati o sottovalutati: penso in particolare a Fernanda Romagnoli, a Paolo Bertolani, a Elio Fiore e a Pier Luigi Bacchini. Su tutti loro (e su altri) ho cercato di richiamare l'attenzione con un'antologia "alternativa" che ho curato insieme a Stefano Lecchini qualche anno fa. Amo molto anche Franco Loi, Raffaello Baldini e Umberto Piersanti: le due raccolte più recenti di Piersanti (I luoghi persi e Nel tempo che precede, entrambe pubblicate da Einaudi) sono fra i testi più intensi usciti in Italia negli ultimi vent’anni. E poi mi piacciono alcuni giovani già ben noti tra i lettori di poesia, come Davide Rondoni e Gian Ruggero Manzoni, e altri del tutto ignoti, ma più che interessanti: tra questi vorrei ricordare almeno Rosalia Zabelli, secondo me la più originale autrice operante oggi in Italia di poesie ispirate allo haiku, e Tiziana Fumagalli, che ha scritto, fra l'altro, un singolare poemetto su alcune antiche figure di astronomi arabi. Ma non amo, ovviamente, solo i poeti italiani. Mi dovrei soffermare a lungo sui classici giapponesi (tra essi sono un po' follemente innamorato di Bashô, Ryôkan e Issa) e sui poeti inglesi (anzitutto Wordsworth e Hardy, che proprio Bertolucci mi ha insegnato ad amare). Fra gli europei dell'est adoro l'ungherese Attila József e la polacca Wislawa Szymborska: il primo per il suo radicamento in un destino di assoluta tragicità (un destino che si può paragonare solo a quello di Marina Cvetaeva), e per la sua forza di trarne una parola bruciante, arsa di vento e di polvere, tutta carne e anima; la seconda per la sua sapienza ironica e profonda, per la qualità filosofica ma insieme lirica e musicale delle sue poesie (delle bellissime, insuperabili riflessioni sulle aporìe della storia: dei veri e propri saggi in versi, ma senza la durezza dell'altro grande "saggista" della poesia novecentesca, Auden).
“Poesia è la voce, il testo la sua eco”: è d’accordo con quest’affermazione di Carmelo Bene?
Non conosco l'occasione in cui Carmelo Bene ha detto queste parole, ma credo di poterle capire. Bene (con cui ho parlato, una volta, in camerino dopo un suo spettacolo al Regio di Parma) era tra i pochissimi attori in grado di fare della voce uno strumento musicale, un medium vibrante e flessibile, una cavità di profonde risonanze interpretative. Attraverso i suoi timbri vocali (così particolari) la poesia circolava davvero. Questo suo puntare sulla voce non poteva non nascere da una consapevolezza autentica del valore primario dell'oralità nella genesi della poesia. In Italia, a partire da Castelporziano, è scoppiata, con grande ritardo rispetto alla beat-generation, la moda dei reading poetici: ma quanti, tra i nostri attori e i nostri stessi poeti, sapevano e sanno recitare o leggere la poesia? Quando sentiamo qualcuno che sa far viaggiare la poesia in forma orale, non possiamo che essergliene grati: attraverso il gesto vivo dell'oralità la poesia ritrova la sua origine: il suo respiro, il suo sangue, la sua linfa, il suo batticuore: tutto ciò che l’ha animata per tempi incalcolabili prima dell'avvento della scrittura, e che continua ad animare anche molti poeti moderni e contemporanei (da Bertolucci a Dylan Thomas) la cui lingua è irriducibile a un puro fatto mentale. Questi poeti, come ha detto benissimo Zumthor, vivono nello spazio della scrittura come in esilio, e attendono sempre qualcuno (un Bene, un Cucciolla, un Benigni) in grado di liberarli, di restituire le loro parole al respiro del mondo, agli spazi ariosi e concreti dell'ascolto diretto.
Le piacciono le poesie di Dino Campana?
Non sono tra coloro (come Saba, come lo stesso Bertolucci) che ritenevano Campana "solo matto". Mi sembra che alcuni suoi testi siano splendidi, ricchi di un'autentica forza ipnotica e incantatoria. Ma non è tra gli autori che ho più portato dentro di me, che ho più riletto. Vorrei, comunque, raccontarle un piccolo episodio che trovo curioso, anche se non c'entra molto con la sua domanda. Durante il mio tirocinio universitario a Bologna, sostenni un esame di storia dell'arte col mitico Francesco Arcangeli (erano gli anni in cui Arcangeli stava disegnando il suo tragitto critico dal Romanticismo all'Informale). Siccome, in realtà, la sessione d'esame era finita il giorno prima, quella mattina tutta la commissione (Arcangeli con colleghi e assistenti vari ) si riunì solo per me. Fu un esame molto sui generis: durò quasi tre ore, ma dopo mezz'ora non era più un esame: era una chiacchierata molto libera sui temi più diversi, dalla letteratura alla musica, dalla filosofia alla religione al cinema.
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