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Riflessioni in forma di conversazioni

Riflessioni in forma di conversazioni

di Doriano Fasoli

Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice


Nel cielo alto

Conversazione con Paolo Lagazzi
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it

- giugno 2005
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Arcangeli, alla fine, mi propose di fare la tesi con lui (mi sarei laureato, invece, con Anceschi), e mi disse: "lei assomiglia un po’ a Dino Campana". Devo interpretare questa frase come un complimento, o come qualcos'altro? Arcangeli aveva forse intuito in me un pizzico di follia?

E quelle di Cristina Campo?
Tutto ciò che ha scritto
Cristina Campo è prezioso e affascinante, ma non mi sembra che i suoi versi raggiungano la stessa forza, lo stesso straordinario carisma di quelle "piccole gemme toscano-orientali", come le ha definite Citati, che sono le sue prose. Nelle prose la Campo "ragiona a rovescio, capovolge le maschere, discerne nella trama il filo segreto, nella melodia l’inspiegabile gioco d’echi", per usare le sue stesse parole (cito dal saggio sulla fiaba). Sebbene nutrite da un implacabile desiderio di perfezione formale, le prose irradiano il pensiero verso ciò che lo trascende: il pensiero è la fiamma capace di bruciare le proprie scorie per farsi gemma mistica, soglia d'accesso all'impensabile. Invece le poesie mi sembrano non immuni dalle tentazioni di una maniera, come se in esse il passo formale e rituale (il lato "bizantino" dell'anima della Campo) pretendesse di ipotecare preventivamente la salvezza (parlo di salvezza poetica, di salvezza dall'estetismo). Non è forse vero che ogni vero poeta può salvarsi nella poesia solo salvandosi, in un certo senso, dalla poesia? Questo non avviene sempre nei componimenti della Campo, forse perché in essi gioca, a tratti, un'idea aprioristica del poetico. Nonostante ciò, anche in questi testi ci sono dei versi sfolgoranti (uno, a memoria: "poiché tutti viviamo di stelle spente") e dei passi struggenti. Ma nell'ambito poetico gli esiti più alti raggiunti dalla Campo sono senz'altro le traduzioni (soprattutto quelle di John Donne).

Lei stesso, ha mai scritto versi?
Ahimè, sì: devo confessare che anch'io non sfuggo al cliché dell'italiano facitore di versi. Alcuni dei miei versi, forse meno peggiori di altri, li feci anche leggere, anni fa, a Bertolucci, e lui mi offrì di pubblicarmeli in rivista. Ma io ho sempre preferito tenerli nel cassetto, convinto che, in realtà, non valgono niente. Molti critici d’oggi cedono volentieri alla tentazione di scrivere romanzi o poesie: io ho preferito, finora, restare nel mio ambito. Solo una volta ne sono uscito scrivendo e pubblicando un piccolo libro di fiabe dedicato a mia figlia Viviana.

Quando si chiedeva ad Ungaretti a cosa servisse la poesia, rispondeva perentoriamente: “A niente!” Lei cosa risponderebbe?
Condivido assolutamente l'opinione di
Ungaretti, anzi, personalmente, ne amplierei la portata. Lo zen, infatti, mi insegna che non c'è niente che "serva": le cose, semplicemente, "esistono": l'universo è mushotoku, "senza scopo". Liberarsi dall'idea dello scopo, del fine, dell'obiettivo è il passo necessario per chiunque aspiri a liberarsi dall'ansia e da tutte le forme (consce e inconsce) della volontà di potenza. Noi occidentali abbiamo nel DNA la volontà di emulare Dio nel plasmare il mondo a nostra immagine e somiglianza: è questo il nostro peccato fondamentale: su questo peccato è fondata tutta la civiltà tecnologica. Nemmeno la poesia sfugge alla nostra volontà di possesso e di dominio: troppe volte, seppure inconsciamente, chiediamo alla poesia di essere "utile", cioè di illuminarci, di migliorarci, di renderci più aperti, più tolleranti e intelligenti. La poesia, invece, non dà risposte: un maestro come Ungaretti ci invita a riconoscere l'irriducibilità di ogni autentica poesia alle nostre domande. Il miracolo, poi, è questo: che se alla poesia non chiediamo niente, essa ci dà tutto. Attraversare la poesia ci "migliora" davvero, ma questo processo non può avvenire che spontaneamente e liberamente, fuori da qualsiasi richiesta che parta dal nostro io.

Qual è il titolo di una poesia che più le sta a cuore?
Mi è molto cara una poesia di
Bertolucci che è, però, senza titolo. Mi permetta di citarla integralmente:

 

Come lucciola allor ch’estate volge
all'ardore di luglio, stanca posa
sull'erba che la vide errare quando
più temperate sere il celo invia,

dov'è caduta luce tramortita
e fioca, e così sola nella notte,
così l'anima giace poi che il curvo
giro degli anni a suo fine declina.

Una stellata notte allor consoli
nostra tremante quiete, quale questa
che s’apre dolce e silente
su te, lucciola morente.


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