Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Albert Camus, Sole ed Ombra
Conversazione con Roger Grenier
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- Agosto 2010
Dopo aver pubblicato, nell’87, tutta l’opera di Albert Camus, con introduzione e apparato critico di Roger Grenier (in collaborazione con Maria Teresa Giaveri), la casa editrice Bompiani mandò qualche tempo dopo in libreria i Taccuini (in tre volumi) con prefazione dello stesso Grenier. Il quale, a suo tempo, aveva già curato l’edizione francese dell’Opera omnia di Camus per il «Club de l’honnête homme». Fine esegeta e per lunghi anni amico dell’autore del Mito di Sisifo, al quale ha dedicato un prezioso saggio che ne racchiude la biografia intellettuale (Albert Camus, Soleil et Ombre, Gallimard 1987), Roger Grenier vive a Parigi. L’occasione per incontrarlo e porgli alcune domande proprio su colui che – morto in un incidente automobilistico a Sens il 4 gennaio 1960 - «per strada, non nei libri», aveva imparato la miseria, ci fu offerta dall’uscita, nei primi anni Novanta, e sempre per Bompiani, di Tutto il teatro di Camus. Il volume (con introduzione di Guido Davico Bonino) comprende: Il Malinteso, Caligola, I Giusti, Lo Stato d’Assedio.
Grenier, a quando risale precisamente la sua amicizia con Albert Camus?
Ho conosciuto Camus alla Liberazione. Mi ha assunto nel suo giornale, Combat. Combat era un giornale povero che non poteva pagarsi giornalisti affermati. Ma, soprattutto, Camus aveva conservato un grande disgusto verso la stampa d’anteguerra e preferiva lavorare con gente nuova. In seguito Camus ha pubblicato il mio primo libro, Le rôle de l’accusé, nella collezione «Espoir» che dirigeva da Gallimard. E, fintanto ha vissuto, egli si è occupato dei miei libri.
Secondo lei, era proprio il teatro la vera vocazione, l’autentica passione di Camus?
Il teatro è stata la passione più costante di Camus. Ciò che più stupisce è che nella sua gioventù non poteva vedere teatro ad Algeri, e nemmeno ascoltarlo alla radio. La sua conoscenza ed il suo amore per il teatro venivano dagli scritti di Jacques Copeau, il fondatore del Vieux Colombier. Nel ’36, all’età di 23 anni, egli fonda il Théâtre du Travail, e, alla fine del ’37, il Théâtre de l’Equipe. Camus è anche membro della compagnia di Radio Algeri, che fa delle tournées nell’entroterra con vecchie pièces di repertorio popolare. Ogni qualvolta viene attaccato dai suoi avversari o quando attraversa un periodo difficile egli si rifugia nel teatro, scrive degli adattamenti. (Ha adattato, tra l’altro, Un caso clinico di Dino Buzzati, «commedia di genere sinistro», diceva). Alcuni mesi prima della sua morte mette a punto la regia del suo adattamento de I demoni (tratto dal romanzo di Dostoevskij), alla Fenice. Al momento della sua scomparsa stava quasi per vedersi attribuire un teatro a Parigi e avere una compagnia tutta sua.
Che rapporto stabiliva con gli attori? E qual era il suo attore prediletto, quello con cui aveva più confidenza?
Attore egli stesso e regista, Camus si divertiva molto in compagnia degli attori. Penso che tra gli interpreti delle sue opere bisogna dare un’importanza particolare a Maria Casarès, prima interprete del Malinteso, e a Catherine Sellers, prima interprete del Requiem pour une nonne. D’altra parte, Camus era molto legato a Paul Oettly, che era lo zio di sua moglie e del quale ha interpretato e messo in scena più volte i lavori.
È al corrente dell’incontro che Camus ebbe, a Roma, con Carmelo Bene quando questi portò in scena, nel ’59, il «Caligola»?
Non sono al corrente di questo incontro. È bene ricordare che nel 1983 il Teatro di Roma di Maurizio Scaparro ha creato una versione del Caligola (che è del 1941) sensibilmente diversa da quella che conosciamo. Il Teatro di Roma ha ripreso la versione nel 1984 al Festival d’Angers, dove Camus stesso, 27 anni prima, aveva messo in scena la versione definitiva della sua opera.
Qual è, secondo lei, l’opera teatrale più riuscita, quella che meglio lo rappresenta?
Direi Caligola, che è anche l’opera il cui successo è più costante. Il linguaggio del Malinteso è forse un po’ invecchiato. Viene meno rappresentato I giusti e per quello che ne so non è mai stato ripreso Lo stato d’assedio, questa specie di autosacramental alla spagnola, molto affascinante ma che fu un fiasco strepitoso.
Vede una qualche affinità tra il teatro di Camus e quello di Sartre?
Il teatro di Camus e quello di Sartre non si somigliano affatto. Quello di Sartre è più dimostrativo e utilizza dei procedimenti collaudati. Quando Camus arriva a Parigi, alla fine del ’43, Sartre gli chiede di fare la regia e di interpretare A porte chiuse. Poi, per varie ragioni, il progetto è andato a monte.
Quali erano le sue predilezioni teatrali?
Camus ha dichiarato, nel 1958: «Sono per la tragedia e non per il melodramma, per la partecipazione totale e non per l’atteggiamento critico. Per Shakespeare e il teatro spagnolo, e non per Brecht». Ha inoltre dichiarato: «Ho tradotto Otello ma non ho mai osato rappresentarlo, per ora sono soltanto in possesso del diploma teatrale… Shakespeare, è la laurea!».
E i rapporti di Camus col cinema?
Meursault va al cinema ne Lo Straniero. Camus, con il suo eterno impermeabile, si divertiva all’idea che gli si trovasse una rassomiglianza con Humphrey Bogart. Ma l’unico suo contributo al cinema è, credo, un progetto di adattamento de La princesse de Clèves di Madame de La Fayette per un film di Robert Bresson, che però non è mai stato portato a termine.
Che ricordo conserva lei, profondamente, del suo amico?
Camus era talmente caloroso, raggiante e nello stesso tempo disponibile, sempre pronto a prendere su di sé una parte dei problemi altrui, che, fintantoché ha vissuto, è l’uomo che ha contato per me, più dell’opera.
Quali sono stati i rapporti di Camus con gli intellettuali italiani?
Il suo grande amico italiano fu Nicola Chiaromonte. Ebbe degli scambi abbastanza stretti con Silone. Conobbe Buzzati, di cui – come ho già ricordato - ha adattato per le scene francesi del Théâtre La Brusére Un caso clinico. Buzzati dirà poi di Camus, ricordando il loro incontro: “Grazie a Dio non aveva una testa da intellettuale, ma da sportivo, chiaro, da uomo del popolo, solido, ironico con bonomia, in un certo senso una testa da garagista”. Credo che l’interesse degli italiani si sia molto focalizzato su L’uomo in rivolta e sul dibattito ideologico e filosofico suscitato da quel libro. Ma è importante dissipare certi equivoci: Camus non si è mai considerato un filosofo, né un professore di morale. La morale, scrive in uno dei Carnets ancora inediti, porta all’astrazione e all’ingiustizia. È madre di fanatismo e cecità. Non è mai stato un esistenzialista, e questo lo sottolineò anche Sartre, che lo considerava un classico. Fu indubbiamente un grande romanziere, oltre che un eccellente giornalista, e un uomo di teatro completo – drammaturgo, regista, attore – che si sentiva rinascere sulla scena. Ho già accennato, nel corso di quest’intervista, che poco prima della sua morte, André Malraux gli aveva promesso di affidargli la direzione del teatro Récamier: fu la sua ultima gioia. Direi che Camus si considerava, e va considerato anzitutto, un artista.
Camus amava molto l’Italia? Che posto occupava il nostro Paese nella sua “mistica mediterranea”?
Amava molto l’Italia moderna. Ma non amava affatto, invece, i romani dell’antichità. Per lui il Mediterraneo è la Grecia, in ciò che essa ha di più orientale. Si sentiva più greco che latino… Dell’Italia – dove fece parecchi viaggi – amava i paesaggi, la luminosità, l’allegria. “Mi pare che la mia giovinezza mi attendesse in Italia, e forze nuove, e la luce perduta…”, scrive nel 1954 questo nostalgico del cielo e del mare algerino. La giocosità degli italiani gli fa avvertire maggiormente il peso del suo esilio a Parigi in mezzo al perpetuo malumore dei francesi. In Italia Camus segue le tracce di Nietzsche, da Genova a Torino, o ripercorre l’itinerario di Piero della Francesca, per il quale aveva una vera passione, peregrinando tra chiese e musei. La Toscana era la sua regione prediletta, e vorrei ricordare una sua frase quasi profetica: “Desidererei morire sulla strada fra Monte San Savino e Siena”. Morirà in effetti in un incidente d’auto, ma su una strada francese.
Doriano Fasoli
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