Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
"Clarel", il poema di Herman Melville
Conversazione con Ruggero Bianchi
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- luglio 2005
Secondo l'anglista Gabriele Baldini (scomparso nel '69), autore di un fondamentale studio intitolato "Melville o le ambiguità", "opere come 'Clarel' - e come l' 'Excursion' del Wordsworth e l' 'Itinéraire' dello Chateaubriand alle quali, in varia misura, 'Clarel' deve qualcosa, sia per quel che riguarda la concezione generale, come per alcuni particolari dell'esecuzione - furono sempre destinate all'impopolarità, a mantenere per lunghe stagioni inviolato il loro segreto". È d'accordo?
Di questo concetto Herman Melville, come risulta in molte pagine del suo scarno epistolario, era assolutamente consapevole. Per tutta la vita, dovette scegliere se compiacere un pubblico rozzo o compiacere se stesso. In opere come Omoo, Typee, White Jacket, Israel Potter, Redburn, si rassegnò, anche se non senza vigorosi colpi d’ala, a privilegiare il pubblico, costretto com’era a guadagnarsi da vivere con la scrittura e dunque a rendere omaggio al "maledetto dio Dollaro". Poi, dopo Pierre e The Confidence Man, decise di non cedere più ai compromessi. Contro i critici e i lettori, amanti dell’esotico, contro i gusti popolari e le tendenze dell’epoca, scelse il silenzio. Fu allora che scrisse Clarel e Billy Budd, pubblicando il primo in edizione limitata grazie al lascito di uno zio e lasciando inedito il secondo. Fu allora, anche, che decise di creare minuscoli volumi di poesie pagati di tasca propria e tirati in meno di cinquanta esemplari: il numero massimo, a parer suo, di persone in grado di capirli e di apprezzarli.
Quali sono le maggiori difficoltà incontrate nel corso della traduzione di "Clarel"?
Per due anni interi (ma in realtà già parecchio tempo prima), mi sono sentito dire che tradurre Clarel implicava entrare nel regno della follia, come del resto era toccato a Melville stesso nello scriverlo, stando almeno ad alcune lettere della moglie. E non si trattava di semplice superstizione, visto che il consiglio di rinunciare all’impresa mi giungeva persino da autorevoli studiosi melvilliani. Forse però il regno della follia è quello dominato da quel tipo di vita che in fondo tu senti di volere. Tradurre Clarel (come, del resto, tradurre Mardi o Pierre o Moby Dick) comporta, in un certo senso, un’esperienza psichica e fisica non solo della follia ma anche della morte. Entrare in una scommessa la cui posta non è chiara. Arrivare alla fine non per sapere se hai vinto o se hai perso, ma per scoprire che cosa c’era in gioco. Come trovarsi sott’acqua senza sapere se hai aria sufficiente nei polmoni per raggiungere la superficie del mare. Quanto all'aspetto tecnico, la difficoltà maggiore è stata quella di far apparire affascinanti ai lettori d’oggi versi meravigliosi ma scritti a volte in una metrica orrenda.
Quando "il gotico Melville" (la definizione è dell'ormai dimenticato saggista Glauco Cambon) abbandonò la prosa per la poesia?
Glauco Cambon è un grande maestro, ancor oggi apprezzato e amato. Di lui ho solo splendidi ricordi personali, accompagnati da un profondo senso di riconoscenza per l’aiuto e le illuminazioni che in occasioni per me importanti ha voluto regalarmi. Per tornare alla domanda, non dimentichiamo che quando iniziò a scrivere, Melville era un semianalfabeta che conosceva assai male lo spelling e che, vergognandosi delle correzioni apportate ai suoi manoscritti dagli editori inglesi e americani, si comprò ben due edizioni del Web
ster Dictionary per controllare la sua ortografia. Fu proprio allora, probabilmente, che scoprì che la scrittura va oltre lo spelling e la grammatica e che decise quindi, come Shakespeare, Dante e Goethe, di cimentarsi a tutto campo, a proprio rischio. Forse proprio questa esasperata capacità di rischiare è, alla resa dei conti, il segno ultimo del genio. Quanto al passaggio specifico dalla narrativa alla poesia (che, ai suoi tempi, era ancora in larga misura un’arte orale) è difficile trovarne un’unica o principale ragione. Gioca senz’altro il desiderio (spesso enunciato) di passare dalla parola scritta alla parola parlata. Ma anche la volontà di sottrarsi al mercato editoriale e alle mode letterarie. Ma anche il desiderio di non escludere dal suo arco di esperienza nessun genere. E, a questo proposito, non dimentichiamo che nei suoi romanzi, a cominciare da Moby Dick vi sono sezioni che sono autentici lavori drammaturgici.
Scriveva il critico Richard Chase ne “Il romanzo americano e la sua tradizione” che la fantasia di Melville nasce “dal suo potente senso della irrazionalità e contraddittorietà dell’esperienza”. Lei cosa ne pensa?
Chase non ha scoperto con questa affermazione nulla più di quanto un normale lettore scopra leggendo Melville o un qualsiasi grande artista. Il problema dell’arte e della vita, alla resa dei conti, è tutto qui: cercare di dare un senso a qualcosa che sembra sottrarsi a ogni senso. In termini più sottili, questo è d’altronde il senso più autentico e riposto di ogni scelta gnostica. È un concetto, insomma, che deve stare alla base di ogni lettura di Melville “colta” o “plebea” che sia.
È ben noto quanto la vita di Melville (terzo di otto figli) sia stata avventurosa (impiegato di banca, maestro di scuola, mozzo su una nave per un viaggio a Liverpool e ritorno, baleniere, disertore, ispettore doganale...). Come scrittore, quando raggiunse la piena maturità espressiva?
Probabilmente quando decise di scrivere e dunque, in fondo, già con Typee. È questa, in una certo senso, la bellezza e la grandezza più intima e genuina dello spirito americano: la capacità di cogliere in un balenìo, nel frullare di un attimo, che si è finora vissuti nell'assenza di senso e che la ricerca di senso è l'unica cosa (mi si perdoni il bisticcio verbale) che ha davvero senso. Probabilmente è appunto per questo che tutti oggi ci innamoriamo degli scrittori latinoamericani: per questo frullìo di un nulla che di colpo ci rivela il tutto di un'esistenza rimasta, fino all’istante prima, incompresa.
Si sa che Herman Melville dedicò alla poesia in versi circa 35 anni della sua vita, gli anni della maturità, pubblicando o lasciando manoscritte diverse centinaia di poesie. Le sembra che ancora oggi, tuttavia, una parte rilevante della sua opera – la sua poesia, appunto – sia completamente sconosciuta ai lettori e – come osservò Alfredo Rizzardi – “quasi totalmente ignorata dalla critica che la degna appena, poiché opera di un siffatto narratore, di qualche commento incidentale”?
Tutti viviamo di miti. Vi sono, per citare un esempio un po’ eccentrico, alcuni autori americani che il pubblico italiano continua ad associare a Fernanda Pivano, anche se nel frattempo sono stati ritradotti e magari con maggior esattezza filologica.
Per chiunque e a prescindere da ogni considerazione critica, Moby Dick in Italia resta associato a Pavese, che pure l’ha almeno in parte trasformato in un proprio romanzo, rendendo cupo e oscuro quanto nel testo è gioioso e strabordante di vita. Così è per la poesia di Melville e persino per Clarel. Per i lettori (italiani, ma anche francesi, inglesi, americani) Herman Melville resta un narratore. Anche se, soprattutto in Italia, non sono mancati in questi ultimi anni studiosi che si sono cimentati con i suoi versi, traducendoli, analizzandoli, commentandoli, mostrandone il valore. Ma, per il momento, ogni tentativo risulta vano: far entrare nella coscienza comune che Melville possa essere anche un grande poeta non è facile; come non lo è nel caso di Schiller e, in fondo, dello stesso Goethe e forse persino di Shakespeare.
Doriano Fasoli
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