Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
"Clarel", il poema di Herman Melville
Conversazione con Ruggero Bianchi
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- luglio 2005
Ruggero Bianchi, che nel passato già curò per Mursia tutte le opere narrative di Herman Melville (1819-91), ha affrontato oggi con passione e rigore la traduzione dell'intero romanzo in versi Clarel. Poema e pellegrinaggio in Terrasanta (Einaudi) che lo scrittore statunitense pubblicò a sue spese all'età di 55 anni. E così ce ne svela la genesi: "A parlare dell'esistenza (e dell'esistere nel mondo contemporaneo) Melville aveva iniziato fin dai tempi della sua prima 'narrative' Typee, contrapponendo il modello di una possibile civiltà a quello di un primitivismo affascinante ma feroce, dove il pericolo 'esotico' era rappresentato dal tatuaggio (si pensi, oggi, al piercing e al branding). In seguito, cercò di dar forma organica alla propria angoscia irrisolta con Mardi, Moby Dick, Pierre e The Encantadas. Ma senza che i suoi lettori lo capissero. Scelse allora il silenzio e in quel silenzio maturò Clarel, un tentativo di capire pubblicato per caso o per fortuna, ma destinato non ad astratti lettori assenti bensì a se stesso". Il tutto, come spiega Bianchi nell'introduzione, grazie a un viaggio in Terrasanta che fu, come tutto nella sua vita, voluto e insieme volutamente casuale.
Bianchi, qual è lo spirito che informa il poema "Clarel"?
Clarel, un giovane studente americano di teologia, insoddisfatto degli insegnamenti dogmatici ricevuti in patria e ansioso di elaborare una propria risposta personale al senso della vita e della sua stessa vita, decide di recarsi in Palestina per scoprire dall'interno il significato dell’esistenza; novello Ishmael, l’”aspirante suicida” di Moby Dick, oscillante tra la terra e il mare, due mondi egualmente amati ed egualmente odiati perché solo apparentemente estremi e contrapposti, solo formalmente emblematici della dialettica tra accettazione e rifiuto. Naturalmente, come i grandi eroi dei romanzi melvilliani (da Mardi a Pierre a The Confidence Man) e soprattutto di Moby Dick (non solo Ishmael, ma Achab, Starbuck, Fedallah, ecc.), anche Clarel non riuscirà a risolvere il suo problema, cercando invano di superare le soglie dell’esperienza e della conoscenza. Nemmeno lui riuscirà a dare risposta alle grandi questioni del sapere e dell’amore, del rapporto tra il fisico e il metafisico, della verità e del senso ultimo della vita.
Elémire Zolla, il quale si disse sedotto dalla "robustezza stilistica e profetica di Melville", tradusse (nel 1965) 14 dei 150 canti di "Clarel" e li ristampò nel '93 con una lunga introduzione presso Adelphi: come le parve la versione che egli ne offrì?
Elémire Zolla è stato il primo a far conoscere in Italia frammenti sparsi e mirabili di questo poema più sconosciuto che misconosciuto. Un merito straordinario, e non soltanto per il taglio illuminante delle sue introduzioni e per la sofferta ricerca di un modo di rendere un poema fortemente ottocentesco nel ritmo e nella struttura in versi che non ne penalizzassero il senso ma anzi ne spalancassero la segreta bellezza. Anche per questo, spero che gli sia giunta la mia traduzione, pur temendo parecchio i suoi esperti commenti "interni". Lo ritengo infatti l'unico studioso italiano in grado di apprezzare appieno questo incredibile poema, frainteso per convenzione più che per convinzione. Inutile sottolineare che la cultura, le conoscenze e l’impianto filosofico che sta alla radice di tutta la riflessione e l’opera di Zolla è quanto di più utile esista per cogliere la vitalità e la grandezza (nemmeno troppo segreta a chi la sappia e la voglia vedere) del poema melvilliano.
Come si pone quest'opera (di diciannovemila versi ottosillabici) nel grande "corpus" dei libri melvilliani?
Ne è forse (anche se un’affermazione del genere è sempre pericolosa) il culmine più angoscioso e poetico. Forse più ancora di Billy Budd, tradizionalmente ritenuto lavoro emblematico ed epitome perfetta. Socraticamente, fedele a uno gnosticismo sofferto e non certo di maniera, Melville butta nelle fiamme di questa sua scrittura convulsa tutto il peso e il dolore di una ricerca irrisolta. Irrisolta non soltanto a livello ideologico, ma pure in sede formale. È Clarel, il tentativo ultimo di dare solidità a una poetica modernissima e per certi versi ancora inaccettata, costruita sull’enunciazione del diritto dell’artista di cambiare idea e linguaggio di momento in momento, nel corso e nel corpo stesso dell’opera che sta scrivendo, in nome del supremo diritto all’errore. Chi ama i suoi capolavori - Mardi, Moby Dick, Pierre, The confidence Man, Bartleby, Benito Cereno, Billy Budd, The Encantadas – è costretto a percepire Clarel come un apice e un picco della sua produzione letteraria, anche se non necessariamente come il suo capolavoro formale.
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