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Hannah Arendt

 

Biografia

Hannah Arendt (1906 - 1975) ha avuto una vita ed un destino abbastanza singolari. Nata da famiglia ebrea benestante, con lunga tradizione mercantile, a Königsberg, formatasi filosoficamente tra Berlino, Marburgo, Friburgo e Heidelberg negli anni venti (tra i suoi maestri Heidegger, Husserl e Jaspers) è costretta alla fuga dalla Germania per motivi politici nel 1933, rifugiandosi in Francia come apolide. Nel 1941 si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti e dal ‘51 diventa cittadina americana. Negli U.S.A. scrive su riviste ebraiche, tiene conferenze, insegna in diverse università, riceve riconoscimenti sempre più importanti fino alla morte che l’accoglie mentre sta per scrivere l’ultima parte della “Vita della mente”.

Risale al 1925 l’inizio della frequentazione con Heidegger, col quale concorda, essendo egli suo maestro, una tesi di dottorato sul concetto di amore in Sant’Agostino, che è pubblicata in ambito strettamente accademico nel ‘29 e il cui motivo centrale riguarda l’argomento della temporalità in relazione al concetto chiave dell’amore. L’autrice distingue due tipi di amore in Agostino: cupiditas e caritas. Il primo, che nasce dal desiderio per gli oggetti e per la nostra sopravvivenza, si costituisce come amore di una vita senza paura e ha come orizzonte finale la morte, che ne segna i limiti ferrei; il secondo è anch’esso fondato sul desiderio, questa volta della vita eterna, ed è quel tipo di amore che ci mette in contatto con Dio: la cupiditas ha a che fare col tempo (nascita - vita - morte), la caritas con l’eternità. Altri temi presenti nella tesi sono quelli della libertà e della volontà umana, temi che ricorreranno nella successiva riflessione della Arendt.

Dopo la tesi vi è una prima svolta negli interessi dell’autrice; dal mondo cristiano studiato in uno dei suoi massimi protagonisti, passa al mondo ebraico, studiato in una delle sue più sconosciute rappresentanti. Si tratta infatti dello studio su una intellettuale ebrea vissuta a Berlino tra fine Settecento e primo Ottocento, Rahel Vernhagen: una donna che cerca di evitare sia la ghettizzazione nel mondo ebraico, separato dal mondo tedesco-cristiano circostante, sia l’integrazione, con la perdita della propria identità ebraica in questo mondo cristiano-borghese.

Nella sua mansarda berlinese si riunivano, tra gli altri, Schlegel, Tiech, Schleiermacher e Novalis, cioè la prima intellettualità tedesca. Attraverso l’esame delle lettere e della documentazione diretta e indiretta su questa figura di intellettuale da lei sentita così vicina, la Arendt trae ispirazione non solo per la composizione di un libro, terminato nel ‘33  e pubblicato molti anni dopo (1957), ma per la conferma di una scelta di vita abbastanza simile a quella di questa figura. E’ la scelta in seguito alla quale Hannah Arendt non si sentirà mai a suo agio né tra i Sionisti, con i quali rimarrà in contatto per decenni ma in rapporto molto tormentato, né tra gli Ebrei integrati completamente nel mondo borghese o comunista di quei decenni. Un’autonomia assoluta rispetto a queste posizioni caratterizzerà sia la biografia, sia la produzione politica e filosofica.

Da queste prime opere intorno al 1930 all’opera che la lancerà verso il pubblico, non solo statunitense ma mondiale, passano vent’anni. I primi dieci, trascorsi soprattutto a Parigi, vedono la Arendt in contatto con antinazisti, ebrei e comunisti (nel 1936 conosce Heinrich Blücher, comunista tedesco che sposerà prima di partire per l’America e col quale vivrà in rapporto di collaborazione e affinità intellettuale molto strette), impegnata nella produzione pubblicistica semiclandestina, fino all’internamento dal quale uscirà fortunatamente per raggiungere gli Stati Uniti.

Nella nuova patria (dove consegna ad Adorno la valigia dei manoscritti lasciati da Benjamin prima di morire) collabora frequentemente alla pubblicistica ebraica, ma non condivide le scelte di molti ebrei americani, in particolare quella che porta alla decisione di costruire lo stato di Israele nel 1948.

Nel 1951 pubblica l’opera che la rende famosa, Le origini del Totalitarismo, frutto di diversi anni di lavoro e di collaborazione con il marito.

La Arendt non si considera una filosofa, ma una teorica della politica; la filosofia in senso largo, però, dopo la pubblicazione di questa opera, la sollecita a riprendere le tematiche, legate all’insegnamento di Heidegger e Jaspers, abbandonate nel 1930. Frutto di questo rinnovato interesse per temi filosofici connessi ai dibattiti esistenzialistici sono alcuni scritti (in particolare quello del ’54 sull’interesse per la politica nel recente pensiero filosofico europeo, nel quale prende posizione sugli esistenzialisti francesi e tedeschi) e soprattutto l’opera del 1958 su La condizione umana. È questa l’opera filosofica più nota della Arendt, un’opera che non suscitò grande interesse quando apparve, ma che negli anni ‘70 e ‘80 avrebbe avuto nuova vita, in quanto vicina agli interessi teorici allora affermatisi in Europa e in America per la filosofia della pratica, anticipati di oltre un decennio dall’autrice.

Dopo la pubblicazione de La condizione umana abbiamo nella vita della Arendt l’episodio più noto e discusso nel mondo ebraico: quello della partecipazione come osservatrice, a Gerusalemme, al processo contro Adolf Eichmann, il “burocrate” nazista che aveva mandato al forno crematorio centinaia di migliaia di Ebrei. Le corrispondenze della Arendt, e poi il volume del 1963 La banalità del male - Eichmann a Gerusalemme, scatenano un putiferio tra gli Ebrei, che vedono negli scritti della Arendt quasi un assoluzione per Eichmann e un’accusa agli Ebrei per la loro complicità, in qualche modo, nel massacro nazista del loro popolo. La Arendt non intendeva affatto assolvere Eichmann, ma voleva sottolineare il fatto tremendo che, per fare il male (mandare i propri simili al forno crematorio), non è necessario essere malvagi. Un buon padre di famiglia, un burocrate ordinato e meticoloso, una persona normale, “banale”, può fare il male, fa’ il male, se si trova in un meccanismo politico-sociale o fa’ parte di un apparato amministrativo e poliziesco che lo spingano ad agire “senza pensare”. E’ questo agire con assenza di pensiero il fatto tragico dei nostri tempi, quello che spinge la Arendt ad affrontare, nell’ultimo decennio della sua vita, la tematica di cosa significa pensare. E’ un tema che la riporta in contatto con l’insegnamento dei suoi maestri (Heidegger, Jaspers), con le tesi di Agostino, e più in là di Platone e Aristotele, oltre che con le tesi di alcuni grandi scolastici (da Tommaso a Scoto) e soprattutto con quelle di Kant. A Kant, infatti, si ispira l’ultima riflessione della Arendt, a Kant e alla sua tripartizione delle funzioni della ragione nel pensare, volere, giudicare. L’opera nella quale la Arendt consegna le sue ultime riflessioni è, in sostanza, il contraltare della “Vita attiva” del 1958; ora è la “vita contemplativa”, o come dice il titolo la Vita della mente l’oggetto delle riflessioni dell’autrice.

Fonte www.biblio-net.com

 

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