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Filosofia della Medicina

Filosofia della Medicina

di Federico E. Perozziello
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Dove si spiega perché Filosofia e Medicina non si possono separare

Maggio 2011

 

“…La pratica della medicina appare come un esercizio così gratificante da mettere in secondo piano la riflessione sui motivi che hanno promosso l’azione del medico. Questa professione preferisce sovente arrestarsi, nella riflessione sui motivi e le condizioni di fondo della sua essenza, al livello auto-giustificativo della sua componente ideologica, tanto importante, gratificante e socialmente utile  appare alla visione comune il lavoro del medico.
In questo modo si genera un rapporto dinamico tra l’azione medica e il pensiero medico dai connotati francamente tautologici. L’agire giustifica sé stesso, mentre non appare necessario soffermarsi troppo a riflettere sul perché si effettuino determinate valutazioni e si prendano certe decisioni e soprattutto da dove provenga e come si sia formato questo habitus mentis che regola e promuove ciò che siamo soliti chiamare medicina moderna …”

 

Da Storia del Pensiero Medico I Volume, Antichità e Medioevo, di Federico E. Perozziello, Mattioli 1885, Fidenza (Parma), 2007.

 

 

Ho iniziato a scrivere di Storia della medicina un po’ di tempo fa, anche per finalizzare l’interesse per gli studi storici. La storia è sempre stata una parte importante della mia visione culturale, un modo per comprendere il presente, uno strumento per viaggiare attraverso il mondo con consapevolezza, la possibilità di conoscere  persone di altri luoghi e paesi e di entrare in sintonia con loro, conservando la mia identità e rispettando la loro unicità e diversità.
Tuttavia, con il passare degli anni, mi sono reso conto di come il lato puramente descrittivo della storia della medicina fosse insoddisfacente a spiegare le cose che cercavo. In molti testi l’evoluzione della medicina stessa appariva un semplice progresso tecnico, più o meno casuale, più o meno geniale, a volte completamente svincolato dal contesto culturale del tempo che l’aveva prodotto.
Eppure, se si leggevano con attenzione le biografie di molti celebri medici del passato, ci si accorgeva che non era così, che non ci trovavamo affatto di fronte a dei tecnocrati puri, chiusi in torri d’avorio, anzi. In alcune personalità la medicina appariva come una chiave di comprensione del reale, come uno strumento più vantaggioso di altri per aprire la porta sui significati profondi dell’esistenza, senza magari trovarne una soluzione radicale, ma traendone comunque la forza e la possibilità di accettarla, l’esistenza appunto, come un significato epistemico, complesso e consolatorio, grazie alla capacità di ridurre, praticamente e per un qualche momento, l’umana sofferenza.
Penso in particolare ad una personalità affascinante come quella di Avicenna, in cui la distinzione tra anima e corpo poteva perdere ogni tipo di significato, senza abbandonare il rigore conoscitivo. Tuttavia molte di queste riflessioni sembravano essersi perdute durante l’evoluzione della medicina. Pareva che il prezzo da pagare per ogni salto incrementale della conoscenza medica e quindi della capacità di intervenire in modo efficace nei confronti della malattia, fosse costituito dal dovere abbandonare sempre di più il tentativo di una comprensione unitaria della realtà costituita dal trinomio salute/malattia/persona.
Sono riandato con la memoria agli studi di medicina degli anni giovanili per accorgermi di come non ci fosse stato nessuno che mi avesse mai spiegato da che parte arrivasse la “diagnosi”, quasi che la mente fosse un contenitore in cui dovevano essere inserite quantità considerevoli di nozioni, per poi essere agitata come uno shaker, perché queste venissero assimilate e divenissero interreagenti e attive. Infine, come per miracolo, la diagnosi sarebbe scaturita davanti agli interrogativi della pratica quotidiana. Mi sono accorto che non potevo accettare una soluzione del genere e, quel che era peggio, che l’avevo accettata acriticamente in tanti anni di lavoro da clinico, prima in ospedale, poi come specialista sul territorio, senza pormi delle domande scomode.
In questi ultimi anni si è verificato il trionfo non troppo ostacolato, più per comodità, acquiescenza e ignoranza, che per effettiva aderenza ideologica, della Medicina Basata sull’Evidenza (Evidence Based Medicine). Non mi sembrava possibile accettare in modo acritico certe verità come rivelate e consolatorie, basate unicamente sulle revisioni statistiche di migliaia di casi clinici, quasi che l’aumentare del numero dei soggetti indagati presenti in una coorte sperimentale fosse una garanzia sicura di riproducibilità dell’evento. Il tutto senza chiedersi, neppure per un istante, dove avrebbe portato una visione così totalmente priva di qualsiasi dimensione epistemica della medicina.
Per comprendere e cercare di spiegare tante domande, ritengo che sia necessario ripercorrere il cammino iniziato tanto tempo fa, quando qualcuno si accorse che il dolore e la morte potevano essere affrontati senza ricorrere alla magia come unica forma di rimedio e consolazione. In questa ricerca è necessario rinvenire tracce e segnali che possano indicare dove i percorsi della medicina e quelli della filosofia si intersechino con maggiore influenza reciproca. A volte questo processo appare più chiaro, a volte sicuramente più confuso. Rimane però sempre forte la necessità di riappropriarsi e di condividere con altri la consapevolezza di una maggiore dignità del processo conoscitivo della medicina medesima, di illuminare certe regioni del territorio della ragione e dell’esperienza dei sanitari, magari con l’inadeguatezza e la tenue luce della candela di John Locke, ma di provarci comunque. Negli ultimi due secoli i rapporti tra Filosofia e Medicina sono divenuti ancora più confusi e intricati. Sembra quasi esistere una legge non scritta, che descrive e teorizza un maggior progresso nelle conoscenze biologiche inversamente proporzionale alla riflessione e al programma etico e morale che dovrebbe sottenderle. Le cose oggi non sembrano andare affatto bene, perché la concretezza disperata di questi nostri tempi, il rinchiudere ogni senso dell’esistenza nel recinto della maggiore durata temporale della vita stessa, costi quel che costi e soprattutto per tutti (per tutti gli appartenenti al ricco Mondo Occidentale, naturalmente), non fa che ostacolare le indagini e le riflessioni sulla natura  del sapere medico.
Che dire…? Continuare a studiare e a scrivere e soprattutto a desiderare di comunicare questi dubbi, queste valutazioni, senza arrendersi. In fondo, come dicevano i filosofi medievali, l’uomo non è che un viator, un viaggiatore che attraversa l’esistenza alla ricerca di Dio e di sé stesso, utilizzando le sue azioni e i pensieri. Il senso di tutto sembra essere, ancora una volta, una ragione dinamica, una verità  che ci sfugge di mano ogni volta che cerchiamo di afferrarla, come il gabbiano che svolazzava beffardo sull’ultimo pennone emerso della nave di Achab, prima che il Pequod sprofondasse nell’abisso, dietro a Moby Dick e alle illusioni di potenza illimitata del suo capitano.

 

Federico E. Perozziello

 

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