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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 04-05-2008, 17.45.53   #1
z4nz4r0
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Meriti e fedi

Siamo così abituati a sentirci giudicati dagli altri che abbiamo perso gran parte della nostra onestà.
Il vero problema è che spesso scegliamo di evitare l’autocritica, scansando così il rischio di dover riconoscere che non siamo come avremmo voluto essere, perché in questo caso saremmo costretti a degli sforzi per avvicinarci al nostro ideale di noi stessi. L’altrui giudizio, non potendo essere altrettanto profondo, è molto meno oneroso; e una volta ascoltato ci fa sentire assolti da noi stessi. Ma ci rende mediocri: il nostro scopo pare prima passare dall’ “essere come io voglio” al più vago “essere come tutti vorrebbero essere” per poi confondersi e deviare al surrogato “essere ciò che piace agli altri” o addirittura “essere come gli altri vogliono che io sia”. Peccato che, mediamente, gli altri abbiano su di me aspettative inferiori rispetto a quelle che ho io.

Se io voglio fare una cosa ma qualcuno me lo vieta dicendo che non devo assolutamente farla, io pretendo spiegazioni; perché solo comprendendo i motivi del divieto posso essere appagato: appagato dal merito di aver compreso.
Se, al contrario, ho tanta fede in quel qualcuno che la sua parola mi basta e non ho alcun desiderio di comprendere il motivo del divieto, di che cosa sono meritevole? Di niente, a meno che non m’inventi un nuovo merito di sana pianta: il merito di avere fede.
Da quando, dunque, questo nuovo merito? Da quando ho rinunciato a comprendere. E perché ho rinunciato? Perchè la conoscenza si ottiene con impegno e una volta scoperto che non si può conoscere tutto, non bastandomi una conoscenza parziale, tanto vale avere fede. Ma fede in che cosa? Nella propria incapacità di comprendere?
In pratica, questo tipo di persona raggiunge la più grande illuminazione quando si accorge che non esiste un traguardo definitivo della conoscenza e, consapevole che nessuna conoscenza parziale può appagare l’umana sete di assoluto, è colta dall’orrore quando pensa alla frustrazione che proverebbe nell’interminabile ricerca in cui i poveri scienziati e filosofi s’imbattono.
Costui trae merito dall’assoluta fedeltà nelle proprie arbitrarie credenze, le quali assumono una forma definitiva in Dio.
In sintesi: poiché per lui la strada della conoscenza è solo una strada di tormento e frustrazione, egli inventa un merito per resistere alla tentazione di conoscere.
Così rinuncia e rinnega a priori la conoscenza. E la sua è meritata ignoranza.

Ora, è certo che nei primi anni di vita è auspicabile avere una fede pressoché assoluta nei propri genitori poiché non si ha sufficiente esperienza per evitare i pericoli e quindi la propria aspettativa di vita sarebbe di molto inferiore se già a quella età si dubitasse di loro e si trasgredisse. Così la fede in chi riconosciamo essere più esperto è un prodotto dell’evoluzione.
In ogni caso è natura dei bambini chiedere: perché? E più sono intelligenti, più spesso chiedono spiegazioni; e via via che la loro conoscenza aumenta continuano a chiedere spiegazioni, anche solo per confrontarle con le loro prime ipotesi. Questo può risultare estenuante per i genitori, ma è compito di questi ultimi fornire ai propri figli le spiegazioni più chiare possibili e sempre più dettagliate man mano che essi acquisiscono le capacità per comprenderle. In questo modo i bambini coltiveranno fiducia nella propria capacità di comprendere.
Viceversa se i genitori non forniscono spiegazioni dei propri ordini e divieti (o perlomeno non ne forniscono di logiche), mi pare chiaro che i loro figli non saranno incoraggiati ad avere fiducia nella propria capacità di comprendere e crescendo di età continueranno a riporre la loro fede in “autorità” che li guidano nel loro smarrimento dicendo loro per filo e per segno come comportarsi; e non pretenderanno di comprendere i motivi perché tanto non ce ne è bisogno dato che “l’autorità” è sempre con loro, pronta a guidare (al posto del cervello naturalmente).

Ma per quanto poco introspettivi si possa essere, ognuno è inevitabilmente giudice di se stesso.
Riconoscere questo è già un bel traguardo; perché eseguire gli ordini di chi ci dice che cosa è giusto e che cosa no significa lasciare che questi decida per noi: suo, in tal caso, è il merito delle nostre azioni e nostra l’ammissione d’incapacità nel discernere.

Quali sarebbero le estreme conseguenze dell’esistenza di un giudice esterno, divino, che sapesse indicarci il comportamento più adatto per ogni situazione? Per cominciare renderebbe superfluo il nostro intuito e le nostre capacità di comprendere e valutare, poiché basterebbe fidarsi di lui per fare sempre la cosa migliore. Renderebbe superflua anche la nostra memoria e persino la nostra diretta esperienza, in quanto non sapremmo cosa farcene di informazioni grezze (cioè non elaborate) sul mondo. In pratica renderebbe superfluo il nostro cervello, basterebbe che il nostro corpo ricevesse le informazioni direttamente dal divino giudice e noi somiglieremmo molto a delle marionette tutte mosse da questo stesso Dio che avrebbe la funzione di cervello universale. A questo punto chi sarebbe a fare esperienza?

Se invece, tale divino giudice volesse che noi capissimo… quale sarebbe la spiegazione migliore (ossia quella più adeguata alla nostra capacità di comprendere) che potrebbe fornirci? L’esperienza diretta! L’esperienza come dispiegarsi del mondo. Ma in questo modo non ci sarebbe alcuna differenza tra questo Dio e il mondo stesso!
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Vecchio 04-05-2008, 18.37.57   #2
Noor
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Originalmente inviato da z4nz4r0
basterebbe che il nostro corpo ricevesse le informazioni direttamente dal divino giudice e noi somiglieremmo molto a delle marionette tutte mosse da questo stesso Dio che avrebbe la funzione di cervello universale. A questo punto chi sarebbe a fare esperienza?
Già..chi?
Ma che bel paradosso eh?
E dove finisce tutta la nostra bella identità?
E se riusciussimo pure a vederla quella benedetta marionetta?
Chi sarebbe ad osservarla?
Un corpo da una parte..un osservatore dall'altra..

PS: la Fede non è mai da confondere con la credenza.
La prima è apertura all'Ignoto al quale ci affidiamo e ci lasciamo andare senza paura (è quest'ultima che blocca ogni comprensione..)
...é il bambino che si affida alla madre..che prende così coraggio ed inizia a conoscere il mondo,sicuro di quella guida che l'accompagna..
Altra cosa è la credenza:seguire rigidamente dei precetti,degli ordini perchè abbiamo paura di osservare con i nostri Occhi..
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Vecchio 04-05-2008, 20.52.01   #3
Emanuelevero
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Originalmente inviato da z4nz4r0
Siamo così abituati a sentirci giudicati dagli altri che abbiamo perso gran parte della nostra onestà.
Il vero problema è che spesso scegliamo di evitare l’autocritica, scansando così il rischio di dover riconoscere che non siamo come avremmo voluto essere, perché in questo caso saremmo costretti a degli sforzi per avvicinarci al nostro ideale di noi stessi. L’altrui giudizio, non potendo essere altrettanto profondo, è molto meno oneroso; e una volta ascoltato ci fa sentire assolti da noi stessi.

Veramente l'altrui giudizio è più affidabile del mio giudizio
circa cosa sono in questo momento. Perchè l'osservatore è esterno
rispetto al sistema inerziale di riferimento, cioè dell'oggetto da giudicare, Io.
Diversi osservatori possono darmi un'idea decisamente più affidabile
di cosa io sono in questo momento, ovvero di "come sono".
La mia forma attuale nell'esistente.

Se voglio sapere cosa sono, ovvero la mia volontà, che è la vera
conoscenza di sè, allora solo io posso saperlo scavando nel profondo.



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Originalmente inviato da z4nz4r0
Ma ci rende mediocri: il nostro scopo pare prima passare dall’ “essere come io voglio” al più vago “essere come tutti vorrebbero essere” per poi confondersi e deviare al surrogato “essere ciò che piace agli altri” o addirittura “essere come gli altri vogliono che io sia”. Peccato che, mediamente, gli altri abbiano su di me aspettative inferiori rispetto a quelle che ho io.

Infatti, perchè trarre giudizi sull'essere nostro a partire da giudizi esterni
è trarre Qualità dalla Quantità il che è assurdo, tradisce l'essere e porta
al livellamento della personalità.
Gli altri ci conoscono non per ciò che siamo ma per quanto siamo
rispetto certi parametri. Ad es. siamo più o meno simpatici, più o meno
socievoli e così via.


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Originalmente inviato da z4nz4r0
Se io voglio fare una cosa ma qualcuno me lo vieta dicendo che non devo assolutamente farla, io pretendo spiegazioni; perché solo comprendendo i motivi del divieto posso essere appagato: appagato dal merito di aver compreso.
Se, al contrario, ho tanta fede in quel qualcuno che la sua parola mi basta e non ho alcun desiderio di comprendere il motivo del divieto, di che cosa sono meritevole? Di niente, a meno che non m’inventi un nuovo merito di sana pianta: il merito di avere fede.
Da quando, dunque, questo nuovo merito? Da quando ho rinunciato a comprendere. E perché ho rinunciato? Perchè la conoscenza si ottiene con impegno e una volta scoperto che non si può conoscere tutto, non bastandomi una conoscenza parziale, tanto vale avere fede. Ma fede in che cosa? Nella propria incapacità di comprendere?
In pratica, questo tipo di persona raggiunge la più grande illuminazione quando si accorge che non esiste un traguardo definitivo della conoscenza e, consapevole che nessuna conoscenza parziale può appagare l’umana sete di assoluto, è colta dall’orrore quando pensa alla frustrazione che proverebbe nell’interminabile ricerca in cui i poveri scienziati e filosofi s’imbattono.
Costui trae merito dall’assoluta fedeltà nelle proprie arbitrarie credenze, le quali assumono una forma definitiva in Dio.



Ti ricordo che Gesù ha detto:
perdonate ai vostri nemici perchè se amate solo chi vi fa del bene
che merito ne avete? Quello lo fanno già i pagani.

La fede è sempre vincolata a un fare, o norma morale.

Quindi il merito con la sola fede non esiste.
Infatti la fede senza le opere è vana (S.Giacomo apostolo).

Citazione:
Originalmente inviato da z4nz4r0
In sintesi: poiché per lui la strada della conoscenza è solo una strada di
tormento e frustrazione, egli inventa un merito per resistere alla tentazione di conoscere.
Così rinuncia e rinnega a priori la conoscenza. E la sua è meritata ignoranza.


Qui sei in contraddizione, e questo è importante.
Se prima dicevi che la conoscenza che possiamo ottenere di noi stessi
(cosa siamo, cosa vogliamo) è falsificata in pratica dal giudizio esterno
allo stesso modo la conoscenza della verità è falsificata dalla conoscenza
di dati assolutamente esteriori, incerti e mai definitivi che vengono
dalle scienze.

Se dici che la fede in Dio limita fino anegare la conoscenza del mio essere
allora affermi che la conoscenza del tuo essere puoi ottenerla solo
dalle scenze che studiano il mondo esterno.
Non si vede perchè allora la scienza che altre persone hanno di te
dovrebbe limitare o negare la conoscenza del tuo essere!
Anzi dovresti ammettere di poter conoscere te stesso solo da una scienza
rigorosamente statistica facendo accurati e frequenti sondaggi su campioni
di conoscenti per decidere cosa fare...





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Originalmente inviato da z4nz4r0
Ora, è certo che nei primi anni di vita è auspicabile avere una fede pressoché assoluta nei propri genitori poiché non si ha sufficiente esperienza per evitare i pericoli e quindi la propria aspettativa di vita sarebbe di molto inferiore se già a quella età si dubitasse di loro e si trasgredisse. Così la fede in chi riconosciamo essere più esperto è un prodotto dell’evoluzione.

No. Caso mai è l'evoluzione che è il frutto della fede del bambino nei genitori!

Perchè se è chiaro che dato che essendo esperienza dei genitori che tale
fede è efficace viene coltivata è anche chiaro che l'evoluzione ha bisogno
di questo a-priori altrimenti potrebbe anche farne a meno e si sarebbe
data altri a-priori.
La fede è un dato rafforzato dall'evoluzione ma non originato.
Altrimenti ammetteremmo che la natura fa cose non indispensabili
il che è assurdo.




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Originalmente inviato da z4nz4r0
In ogni caso è natura dei bambini chiedere: perché? E più sono intelligenti, più spesso chiedono spiegazioni; e via via che la loro conoscenza aumenta continuano a chiedere spiegazioni, anche solo per confrontarle con le loro prime ipotesi. Questo può risultare estenuante per i genitori, ma è compito di questi ultimi fornire ai propri figli le spiegazioni più chiare possibili e sempre più dettagliate man mano che essi acquisiscono le capacità per comprenderle. In questo modo i bambini coltiveranno fiducia nella propria capacità di comprendere.
Viceversa se i genitori non forniscono spiegazioni dei propri ordini e divieti (o perlomeno non ne forniscono di logiche), mi pare chiaro che i loro figli non saranno incoraggiati ad avere fiducia nella propria capacità di comprendere e crescendo di età continueranno a riporre la loro fede in “autorità” che li guidano nel loro smarrimento dicendo loro per filo e per segno come comportarsi; e non pretenderanno di comprendere i motivi perché tanto non ce ne è bisogno dato che “l’autorità” è sempre con loro, pronta a guidare (al posto del cervello naturalmente).

Questo è quello che io definisco il delirio di onnipotenza dell'ego.

L'Autorità non serve alla conoscenza serve al fare.

Spesso prima di arrivare a una conoscenza ci occorre una soluzione pratica.

L'autorità funge da vigile quando una necessità di dare una risposta
incalza regola il semaforo e ci costringe a operare. O è l'autorità
esterna o siamo noi con la nostra autorità a farlo.

L'idea che il Super-io freudiano sia una sovrastruttura marxianamente
rimovibile dalla storia dell'individuo è il delirio dell'ego.
Il frutto della filosofia soggettivista che pone dubbi si tutto quanto esterno
al sè.

Da qui la crisi dell'uomo occidentale.

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Originalmente inviato da z4nz4r0
Ma per quanto poco introspettivi si possa essere, ognuno è inevitabilmente giudice di se stesso.
Riconoscere questo è già un bel traguardo; perché eseguire gli ordini di chi ci dice che cosa è giusto e che cosa no significa lasciare che questi decida per noi: suo, in tal caso, è il merito delle nostre azioni e nostra l’ammissione d’incapacità nel discernere.

L'importante non è quanto siamo capaci a discernere ma quanto siamo efficienti a risolvere i problemi.
La guida di chi è più esperto è un evidente vantaggio.
l'Uomo ha costruito il suo successo biologico sulla capacità di trasformare
le esperienze in dati trasmissibili col linguaggio, ovvero coi simboli.
L'idea di Dio quindi è un magazzino di esperienza.


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Originalmente inviato da z4nz4r0

Quali sarebbero le estreme conseguenze dell’esistenza di un giudice esterno, divino, che sapesse indicarci il comportamento più adatto per ogni situazione? Per cominciare renderebbe superfluo il nostro intuito e le nostre capacità di comprendere e valutare, poiché basterebbe fidarsi di lui per fare sempre la cosa migliore. Renderebbe superflua anche la nostra memoria e persino la nostra diretta esperienza, in quanto non sapremmo cosa farcene di informazioni grezze (cioè non elaborate) sul mondo. In pratica renderebbe superfluo il nostro cervello, basterebbe che il nostro corpo ricevesse le informazioni direttamente dal divino giudice e noi somiglieremmo molto a delle marionette tutte mosse da questo stesso Dio che avrebbe la funzione di cervello universale. A questo punto chi sarebbe a fare esperienza?

Infatti non essendoci continuità tra Dio e mondo, non siamo marionette,
c'è il libero arbitrio e la fede è un merito perchè non è passiva visione.
Il costo della libertà però è il male.


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Originalmente inviato da z4nz4r0
Se invece, tale divino giudice volesse che noi capissimo… quale sarebbe la spiegazione migliore (ossia quella più adeguata alla nostra capacità di comprendere) che potrebbe fornirci? L’esperienza diretta! L’esperienza come dispiegarsi del mondo. Ma in questo modo non ci sarebbe alcuna differenza tra questo Dio e il mondo stesso!

Non è che il giiudice divino fa le cose per un motivo o per un altro.
Le fa e basta perchè è causa efficiente di se stesso.
Se avesse uno scopo Dio avrebbe anche un limite, il che è assurdo.

Se fosse in continuità cmq con il mondo non ci sarebbe alcun merito.
Emanuelevero is offline  
Vecchio 07-05-2008, 16.26.51   #4
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Originalmente inviato da Noor
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Originalmente inviato da z4nz4r0
basterebbe che il nostro corpo ricevesse le informazioni direttamente dal divino giudice e noi somiglieremmo molto a delle marionette tutte mosse da questo stesso Dio che avrebbe la funzione di cervello universale. A questo punto chi sarebbe a fare esperienza?
Già..chi?
Ma che bel paradosso eh?
E dove finisce tutta la nostra bella identità?
E se riusciussimo pure a vederla quella benedetta marionetta?
Chi sarebbe ad osservarla?
Un corpo da una parte..un osservatore dall'altra..

Non so con quale intento, ma tu sembri alludere all’ormai palesemente falso dualismo cartesiano.

In quel pezzo volevo evidenziare la fallacia dell’idea che possa esistere un tale “giudice divino” che ci dà delle “dritte”, in quanto l’esistenza di questo giudice è in antitesi con l’esperienza. (E non intendo che è in antitesi con la nostra esperienza ma con la possibilità che ci sia esperienza in assoluto). (Forse non mi ero spigato molto chiaramente).

Ma proviamo una variante un po’ più complessa della stessa ipotesi.
Ipotizziamo nuovamente l’esistenza di tale divino giudice che ci da i consigli guida sul comportamento più meritevole per ogni situazione, ma questa volta dividiamo in due categorie le persone alle quali i consigli sono diretti: i fedeli che credono di trovare il merito seguendo i consigli del divino e i non fedeli che credono di poter trovare merito solo nella propria comprensione.
I fedeli li ho già discussi prima, concludendo che la loro esperienza sarebbe superflua e dunque non avrebbero motivo di esistere. (Vale a dire che l’esistenza dei fedeli è incompatibile con l’esistenza del giudice divino).
Gli unici esseri che potrebbero dunque esistere sarebbero non fedeli; ma questi ultimi avrebbero molto meno interesse sulla “la retta via” di quanto ne avrebbero se questa fosse celata dal mistero (come effettivamente è). Per loro sarebbe un po’ come dover risolvere un problema matematico di cui hanno già la soluzione (che gli è stata indicata dal divino); ma dovrebbero risolverlo nel modo in cui lo avrebbero risolto se non avessero già la soluzione! Cioè dovrebbero riuscire ad ignorare completamente ciò che già sanno perché quello che già sanno ostacola una loro più profonda comprensione. Ergo un tale giudice del bene e del male sarebbe l'incarnazione del paradossale e ostacolerebbe la comprensione, e quindi il merito, di tutti gli individui possibili. Una vera iattura!


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Originalmente inviato da Emanuelevero
Vorrei rispondere anche a te ma non sono riuscito a seguire il filo delle tue argomentazioni.
Se vuoi riprovare…
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Vecchio 07-05-2008, 18.05.35   #5
Emanuelevero
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Citazione:
Originalmente inviato da z4nz4r0
Non so con quale intento, ma tu sembri alludere all’ormai palesemente falso dualismo cartesiano.

In quel pezzo volevo evidenziare la fallacia dell’idea che possa esistere un tale “giudice divino” che ci dà delle “dritte”, in quanto l’esistenza di questo giudice è in antitesi con l’esperienza. (E non intendo che è in antitesi con la nostra esperienza ma con la possibilità che ci sia esperienza in assoluto). (Forse non mi ero spigato molto chiaramente).

Ma proviamo una variante un po’ più complessa della stessa ipotesi.
Ipotizziamo nuovamente l’esistenza di tale divino giudice che ci da i consigli guida sul comportamento più meritevole per ogni situazione, ma questa volta dividiamo in due categorie le persone alle quali i consigli sono diretti: i fedeli che credono di trovare il merito seguendo i consigli del divino e i non fedeli che credono di poter trovare merito solo nella propria comprensione.
I fedeli li ho già discussi prima, concludendo che la loro esperienza sarebbe superflua e dunque non avrebbero motivo di esistere. (Vale a dire che l’esistenza dei fedeli è incompatibile con l’esistenza del giudice divino).
Gli unici esseri che potrebbero dunque esistere sarebbero non fedeli; ma questi ultimi avrebbero molto meno interesse sulla “la retta via” di quanto ne avrebbero se questa fosse celata dal mistero (come effettivamente è). Per loro sarebbe un po’ come dover risolvere un problema matematico di cui hanno già la soluzione (che gli è stata indicata dal divino); ma dovrebbero risolverlo nel modo in cui lo avrebbero risolto se non avessero già la soluzione! Cioè dovrebbero riuscire ad ignorare completamente ciò che già sanno perché quello che già sanno ostacola una loro più profonda comprensione. Ergo un tale giudice del bene e del male sarebbe l'incarnazione del paradossale e ostacolerebbe la comprensione, e quindi il merito, di tutti gli individui possibili. Una vera iattura!


E' un argomentazione basata tutta sull'assoluto dell'Essere
non sul piano dell'Esistere (o divenire).

Voglio dire, la fede dei fedeli nella vita reale (esistere) non è affatto superflua, poichè essi credono a qualcosa di cui non hanno prove concrete.
Di qui il merito.

La fede non è visione.
Infatti i santi in Paradiso non hanno fede.
Hanno la visione e la fede non serve più.


Il secondo problema dei non fedeli mi pare sia quello della conoscenza.

In realtà i non fedeli in Paradiso non avrebbero una piena conoscenza
di Dio.

Infatti gli angeli pur essendo molto vicini a Dio
non lo conoscono completamente.

Il beneficio per i fedeli, in non fedeli e gli angeli è la contemplazione.

Una contemplazione tanto più vicina a Dio tanto più è il loro grado di perfezione.

Può essere pensato come all'estasi della contemplazione della pura bellezza.



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Originalmente inviato da z4nz4r0
Vorrei rispondere anche a te ma non sono riuscito a seguire il filo delle tue argomentazioni.
Se vuoi riprovare…



Il concetto era che l'onere della prova, della non esistenza di Dio,
spetta all'ateo.

come al monoteista è spettato di convincere il politeista.

così come al religioso politeista è spettato convincere
il mago preistorico.


Altro concetto è che se il relativista pensasse non secondo, "vero o falso"
ma secondo "serve o non serve" non avrebbe alcun contrasto pratico
col credente.
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Vecchio 07-05-2008, 18.15.38   #6
Noor
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Originalmente inviato da z4nz4r0
dovrebbero riuscire ad ignorare completamente ciò che già sanno perché quello che già sanno ostacola una loro più profonda comprensione.
Difatti la Comprensione è un Continuum di un velarsi-Svelarsi,momento per momento.
Non è sapere della mente,o concetti memorizzati,ma un esperire ciò che già E' da sempre,poichè la sua radice non è
figlia del tempo.
Ma chi sono costoro che così si dispongono?
Uomini di fede,credenti un dogma o di un Giudice, oppure atei che credono di voler sapere
(e invece son solo dei credenti mascherati..degli illusi credenti della mente..)?
...unica vera barriera verso l'Ignoto..
Oppure chi sono?

..Mi sa che forse è tempo che tolga le tende..comincio a blaterare da solo nel vuoto..
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Vecchio 07-05-2008, 18.17.27   #7
Emanuelevero
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Originalmente inviato da z4nz4r0

Vorrei rispondere anche a te ma non sono riuscito a seguire il filo delle tue argomentazioni.
Se vuoi riprovare…


Dio ho dato una risposta pensando di essere nel Topic de "l'onere della prova".


Se tu dici che gli altri non ti permettono di conoscere te stesso
perchè limitano il tuo essere prendendo decisioni al posto tuo

e poi dici che allo stesso modo la fede in Dio limita il tuo essere
ed è meglio affidarsi alle scienze.

le scienze sono sempre esterne all'individuo quindi se non ti fidi
del giudizio altrui non ti fidi nemmeno delle scienze.

Evidentemente se non cogli il problema il tuo è un puro soggettivismo.
Se ho capito bene quello che hai detto.
Emanuelevero is offline  

 



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