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Vecchio 20-07-2009, 11.02.48   #1
emmeci
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lo scienziato ottimista

Umberto Veronesi pubblica sul Corriere una convinta difesa dell’idea, che potremmo definire del “gene altruista”, in opposizione a quella del “gene egoista” resa celebre da Richard Dawkins in un libro che mirava a correggere la teoria darwiniana, affermando che l’unità di selezione non è l’individuo ma il gene, scaricando così l’individuo – e con esso la società – del peso di una millenaria condanna.
Dunque Veronesi conclude, citando antropologi e genetisti, oltre che Jean-Jacques Rousseau, che l’uomo è stato per natura sempre animato da generosità e altruismo, e quando le condizioni non erano idonee alla vita - soprattutto alla vita dei più deboli, donne e bambini - le ha trasformate, creando ricoveri e scorte di cibo che hanno rappresentato sfide lanciate alla selezione naturale. Così Veronesi rivede in senso ottimistico se non addirittura idillico il concetto di evoluzione, con un parere che forse piacerà alle anime pie, anche se è probabilmente diverso da quello che avranno nutrito i milioni di uomini e donne rinchiusi nei lager o nei gulag del Novecento come pure nei villaggi o nelle città dove oggi esplodono bombe di eserciti e di kamikaze.
Non so, ho paura che ci sia un difetto di visione o di messa a fuoco delle lenti in uno scienziato così prestigioso, che applica ai geni concetti come cattiveria o bontà senza porre differenze fra ciò che può rappresentare una direzione meccanica inconscia e il sorgere di qualcosa che presuppone una scelta, addirittura una scelta di vita e di morte. E se Veronesi cita antropologi e psicologi nel sostenere che i principi morali sono pre-programmati nel nostro cervello, "quasi esistesse un sesto senso o un organo della morale che può essere attivato o disattivato al pari di un interruttore" - forse il filosofo può essere più prudente, ricordando che è difficile applicare a cellule materiali concetti che hanno richiesto milioni di anni di errori e di pene per arrivare a qualcosa di simile a una civiltà, con quella possibilità di scelta fra il male ed il bene che sembra ancora difficile da riconoscere in questo ventunesimo secolo. Talvolta un po’ meno di ottimismo, sì, un pizzico di senso tragico, sembrerebbe condurci più prossimi alla verità.
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Vecchio 20-07-2009, 12.51.00   #2
nexus6
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Guarda caso ne ho accennato in una discussione parallela e solo per questo intervengo: il punto è che l'evoluzione di cui stai parlando e di cui credo parli Veronesi (non ho letto l'articolo in questione) non è quella biologica darwiniana che, fino a prova contraria, è “a-teleologica”, cioè senza fini generali, ma quella culturale che è dotata di significati e direzioni, visto l'uomo è culturalmente fatto così. Dunque Veronesi non “rivede” il senso dell'evoluzione biologica, che può essere rivisto solo a livello empirico in quanto teoria scientifica, ma di quella culturale. Dice, come sembra dalle tue parole, che prevalgano di gran lunga le spinte “positive” su quelle negative. Giustificato o no che sia, il suo discorso sta a livello filosofico, argomentativo, non propriamente scientifico. L'evoluzione darwiniana non è né "buona" né "cattiva"... pare essere "cieca", come dicono.

Non so se questa mia precisazione sia utile, comunque anch'io credo che (in generale) il filosofo, proprio per mestiere, debba essere molto più prudente dello scienziato il quale, quando si arrischia in territori che non gli sono propri, capita che non si renda conto della problematicità delle proprie affermazioni. In questi casi, Veronesi non è che sia più qualificato dell'uomo della strada: bisogna valutare le argomentazioni che porta a suo favore.

E, sicuramente, entrando nel merito, ce ne sono e tante, credo. Solo qualche secolo fa praticamente tutta l'umanità era rinchiusa in un immenso gulag. Ora parte di essa si è emancipata creandosi dei gulag (mentali) un poco meno costrittivi. La mutazione è molto lenta rispetto le nostre singole vite, ma sembra visibile. Anch'io sono in questo senso ottimista, anche perché se il miglioramento non continuasse ad avvenire, visto che il mondo è diventato piccolo piccolo, l'uomo non avrebbe grandi speranze di sopravvivere a se stesso.
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Vecchio 20-07-2009, 13.00.59   #3
Il_Dubbio
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Ciao emmeci

Da qui darò la spiegazione anche del perché potrebbe estinguersi l'umanità per colpa della "sensazione" di libertà
https://www.riflessioni.it/forum/filo...a-liberta.html


La casualità ha fatto nascere un gene altruista ed un gene egoista. La lotta tra le due è vinta a seconda che l'uomo scelga uno dei due geni come modello per la sua vita. Siccome quello egoista porta ben presto a non fare più figli, il gene egoista scomparirà, e solo chi sarà portatore e selezionatore (libero) del gene altruista, vivrà e sopravviverà (questo credo sia conforme con la teoria evoluzionista).

Ma come si manifestano questi geni? Attraverso i nostri comportamenti. Ora l'uomo è cosciente ed è razionale. Quindi l'uomo ha bisogno di una manifesta spiegazione cosciente e razionale del perché dovrebbe seguire il gene altruista. Non basta sapere che ce ne uno altruista per far si che l'uomo si comporti da altruista. Spero che questo venga compreso sino in fondo!

Siccome non esiste alcuna spiegazione razionale che metta d'accordo tutti nel seguire il gene altruista, l'uomo non è destinato a raccogliere in se il gene altruista.
L'unica arma che ha la natura è quella di fornire geni non di fornire spiegazioni!
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Vecchio 21-07-2009, 11.36.26   #4
emmeci
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Nexus6: hai ragione riguardo al pensiero di Veronesi, e del resto lui stesso si appella ad antropologi piuttosto che a biologi per sostenere una prospettiva fondamentalmente positiva dello sviluppo umano. Ma, d’altra parte, questa sfumatura culturale-moralistica potrebbe rappresentare non una distorsione ma un tentativo di correzione della teoria, un ampliamento rispetto alla sua gravità riduttiva, in quanto affrontando il lato biologico della specie-homo non recide gli aspetti superiori e presumibilmente più evoluti, che io ho sintetizzato nello snodo neurone-pensiero e pensiero-moralità.
Tu dici che l’evoluzionismo è cieco – ma chi lo obbliga ad essere cieco cioè a mettersi i paraocchi di fronte a uno sviluppo che evidentemente è consentito dalla natura?
Quanto al giudizio – al quale mi richiama il Dubbio - sulla positività piuttosto che sulla negatività di questo sviluppo, preferirei essere, come dicevo, prudente, non solo perché è difficile dimenticare quanto ci presentano giornalmente i media, ma perché è inconfutabile che abbiamo l’inconveniente di dover maturare su un’animalità che non si limita a mantenere le funzioni necessarie alla vita ma costituisce il fondo della grande storia, tanto che è vano pretendere che scompaia, oggi come oggi, in tutti i regimi politici.
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Vecchio 21-07-2009, 12.40.21   #5
Noor
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L'evoluzione darwiniana non è né "buona" né "cattiva"... pare essere "cieca", come dicono.
Questa conclusione può significare tante cose,tra cui:
che è cieco l'uomo che non sa osservare (es. ponendo dei parametri di valutazione errati a priori) e chiama cieca l'evoluzione,
oppure che non ci sia nessun fenomeno che si possa chiamare realmente "evoluzione" e che aggiustiamo con l'etichetta di "cieco".
Siamo soltanto certi che vi sia una modificazione continua dei fenomeni osservabili,ma se si comincia a pensare che si possa modificare anche colui che osserva,ecco che salta qualsiasi veridicità dell'osservazione..
Infine la domanda è:esiste una costante che osserva o si evolve anch'essa?
Scusate l'OT..
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Vecchio 21-07-2009, 14.28.26   #6
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Nexus6: hai ragione riguardo al pensiero di Veronesi, e del resto lui stesso si appella ad antropologi piuttosto che a biologi per sostenere una prospettiva fondamentalmente positiva dello sviluppo umano. Ma, d’altra parte, questa sfumatura culturale-moralistica potrebbe rappresentare non una distorsione ma un tentativo di correzione della teoria, un ampliamento rispetto alla sua gravità riduttiva, in quanto affrontando il lato biologico della specie-homo non recide gli aspetti superiori e presumibilmente più evoluti, che io ho sintetizzato nello snodo neurone-pensiero e pensiero-moralità.
Tu dici che l’evoluzionismo è cieco – ma chi lo obbliga ad essere cieco cioè a mettersi i paraocchi di fronte a uno sviluppo che evidentemente è consentito dalla natura?
Ripeto, credo sia molto utile ed opportuno distinguere l'evoluzione biologica, la cui teoria più accreditata a spiegarla è l'evoluzionismo darwiniano (più la genetica), dall'evoluzione culturale. La teoria di Darwin può essere intesa come riduttiva, solo se si ammette l'identificazione tra questi due piani in uno solo. Se invece si considera che i principi darwiniani parlino di biologia e non di altro, come effettivamente è, allora non vedo in cosa consista la sua “gravità riduttiva”. Sarebbe come dire che la fisica delle particelle è particolarmente riduttiva perché non affronta le problematiche adolescenziali. Naturalmente se qualcuno afferma che esse possano essere risolte studiando i quark, allora sì che possiamo parlare di “gravità riduttiva”.

Che l'evoluzione culturale umana sia studiabile con concetti analoghi a quelli darwiniani, non vuol dire che l'evoluzione biologica pretende di occuparsi della cultura umana. Tant'è che, se non sbaglio, la maggior parte dei tentativi di spiegazione considerano almeno questi due piani (come scissi, anche se profondamente in rapporto), senza eliminarne uno a scapito di un altro.

In effetti quando si dice che “l'evoluzione biologica è cieca” si vuol soltanto affermare uno dei principi alla base della teoria darwiniana, cioè che non paiono esserci fini generali nelle modificazioni -biologiche- di una popolazione, ma solo una continua risposta alle mutevoli condizioni ambientali. Non si afferma che è cieca alla cultura, alla morale, semplicemente poiché questi sono concetti che esulano dalle sue dirette spiegazioni. Tutto ciò certamente ha prodotto (o meglio: ha ampliato) la frattura tra natura e cultura e la necessità di spiegare il nodo “neurone-pensiero”.
L'uomo, in effetti, si dota eccome di fini e scopi e vede la sua vita piena di direzioni e tensioni morali: tutto ciò non viene certo negato dall'evoluzionismo darwiniano quando correttamente considerato. Ciò che viene ipotizzato, per spiegare un'ampia messe di dati sperimentali, è che tali fini e tensioni “progettuali” non siano presenti nell'evoluzione biologica. Esistono ipotesi evolutive che prevedono finalità (e non sto parlando del "disegno intelligente"), del tipo "tensione al perfetto adattamento", ma per vari motivi sono considerate peggiori della teoria darwiniana.

Ribadisco, dunque, che Veronesi penso stia parlando dell'evoluzione culturale in connessione con quella biologica, argomentando la sua tesi, come solitamente si fa, con analogie darwiniane (appellandosi, come dici, a biologi e genetisti).
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Vecchio 21-07-2009, 14.29.04   #7
nexus6
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Questa conclusione può significare tante cose,tra cui:
che è cieco l'uomo che non sa osservare (es. ponendo dei parametri di valutazione errati a priori) e chiama cieca l'evoluzione,
oppure che non ci sia nessun fenomeno che si possa chiamare realmente "evoluzione" e che aggiustiamo con l'etichetta di "cieco".
Siamo soltanto certi che vi sia una modificazione continua dei fenomeni osservabili,ma se si comincia a pensare che si possa modificare anche colui che osserva,ecco che salta qualsiasi veridicità dell'osservazione..
Infine la domanda è:esiste una costante che osserva o si evolve anch'essa?
Scusate l'OT..
Certo, pure l'osservatore (quello con la 'o' minuscola... ), cioè l'uomo, muta (biologicamente e culturalmente), ma come incide questo sulla “veridicità” delle osservazioni? E che si intende con “veridicità” delle osservazioni? (Questa domanda apre uno dei vasi di Pandora del pensiero moderno...)
Comunque potrei risponderti con qualche strumento dei “moderni”, appunto: ovvero già ci si è resi conto da tempo che l'osservazione, il dato, è “carico di teoria” cioè è sempre più o meno mediato dall'uomo, anche per coloro che si considerano realisti. Assumendo questa premessa, sembra conseguente che tutte le spiegazioni siano contingenti e non solo nel senso che possono essere mutate se sopravvengono nuove cose, ma anche perché è l'uomo stesso a mutare. Certo si parla di mutabilità su scale quasi geologiche. Insomma sembra chiaro che se mutano gli “occhi” (il cervello, la mente), muta in un certo senso pure ciò che si osserva. In che modo è davvero difficile stabilirlo, se non impossibile: l'osservazione di un tavolo come possiamo pensare muti, se non conosciamo altri punti di vista, altri schemi concettuali oltre al nostro?
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Vecchio 21-07-2009, 15.05.20   #8
emmeci
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Quante domande nexus, noor, e quanti dubbi! Ma val la piena di continuare a cercare?
Forse l’evoluzione è buona o cattiva, forse la catena dei dubbi non avrà fine – ma ecco, io torno al principio di tutti i principi, cioè alla certezza che la verità assoluta c’è e noi la stiamo cercando. Può darsi che sia fatica sprecata, può darsi che lo sforzo porti non verso la verità ma verso l’errore, ebbene non abbiamo altro che questo cui aggrapparci, questo gioco che è la ricerca del vero, tanto che rinunciare vorrebbe dire gettare alle ortiche computer e barba filosofale. Ma se una verità assoluta senza dubbio c’è (anche se potrebbe essere una verità orripilante), perché non tentare? perché non sborsare l’ultimo ducato e farlo rotolare sul tappeto verde? Forse non è disonorevole giocare per questo scopo, anche se questo vuol dire dimenticare la teoria evoluzionistica che, come dite, è cieca e non ammette fini. E anche se ci tocca di rinunciare al titolo di scienziato ottimista e diventare come quell'ingenuo fanciullo di fronte alla statua velata della dea di Sais: pronto a togliere il velo con la prospettiva, come dice Novalis, di non vedere nulla.
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Vecchio 21-07-2009, 16.22.41   #9
Il_Dubbio
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Ho trovato l'articolo su internet e lo ricopio, controlla emmeci se corrisponde a quello sul giornale (non ce l'ho).
La mia impressione è che Veronesi non contrapponga alcun gene altruista contro quello egoista di Darkins...anzi! Non so perché l'hai interpretato così, forse magari è possibile chiarire questo punto?

l'articolo:

L'uomo per sua natura è sempre sta*to animato da un senso di genero*sità e di altruismo. Se gettiamo uno sguardo alle nostre origini, scopriamo che nel processo evolutivo degli es*seri viventi la selezione della specie umana ha rappresentato un elemento di rottura. Quando le condizioni non erano idonee alla vita, so*prattutto alla vita dei più deboli, delle donne e dei bambini, l’uomo le ha trasformate: il fuo*co, i ricoveri, le semine per fare scorta di cibo sono state altrettante sfide che l’uomo primiti*vo ha lanciato alla pura e semplice selezione naturale. Ad animarlo in queste lotte era un senso anche di altruismo verso il prossimo più debole e inerme, la capacità di distinguere ciò che era giusto e ciò che non lo era.

Secondo l’antropologo Donald E. Brown, dell’Università della California, alcune dispo*sizioni d’animo, cioè quella che noi chiamia*mo bontà, come l’empatia, la generosità, il ri*conoscimento dei diritti altrui, la proscrizio*ne di violenze come l’omicidio e lo stupro, hanno sempre albergato nel cuore dell’uo*mo, anche quello delle caverne. Che era fon*damentalmente un animo buono e pacifico. Infatti l’uomo ha scoperto da subito la dimen*sione sociale, che è cosa diversa dall’organiz*zazione comunitaria delle api o delle formi*che, ed è cosa diversa dalle gerarchie che gui*dano i branchi di animali.

La creazione della famiglia, la crescita della prole, la difesa dei deboli sono state fin dall’inizio forme di colla*borazione tra gli individui che poi si sono ag*gregati in clan, quindi in tribù, fino a diventa*re popoli. E anche quella che per me è la for*ma eccelsa di bontà, cioè la ricerca e il mante*nimento della pace, è sempre stata connatura*le alla specie umana. Sì, la specie umana tende per natura alla pa*ce. Il filosofo Jean-Jacques Rousseau ci ricorda che la guerra è un concetto che non concerne direttamente il rapporto degli uomini tra di lo*ro. Tra semplici uomini non c’è guerra, ma so*lo contrasto. Da alcuni decenni, soprattutto dopo la sco*perta del Dna, la scienza della moderna geneti*ca molecolare e l’antropologia delle più avan*zate teorie evoluzionistiche cercano di dare una risposta ad alcune domande fondamenta*li: dove nasce il nostro senso della bontà? per*ché siamo buoni? e come sappiamo discerne*re ciò che è bene da ciò che è male? Sono do*mande a cui anche l’etica, la filosofia, la religio*ne hanno cercato di dare risposte, spesso par*ziali, spesso fideistiche.

Gregory Berns, professore di psichiatria alla Emory University di Atlanta, utilizzando tecni*che di imaging cerebrale ha scoperto che quando le persone mettono in atto comporta*menti altruistici nel loro cervello aumenta il flusso di sangue proprio nelle aree che vengo*no attivate dalla vista di cose piacevoli, siano queste una bella donna, un dolce, il denaro o altre gradevolezze. Come dire che un gesto ge*neroso, il semplice fare la carità, è già suffi*ciente a farci sentire felici. Carlo Matessi, dirigente di ricerca dell’Istitu*to di genetica molecolare del Cnr di Pavia, dà una spiegazione biologica, che si basa sull’evo*luzione della specie: l’altruismo dell’uomo at*tuale sarebbe ancora quello che ha sviluppato l’Homo sapiens sapiens o qualcuno dei suoi discendenti dell’epoca del Paleolitico. Un altru*ismo innato e un’esigenza altrettanto primor*diale di giustizia. Ha una tesi non dissimile Steven Pinker, professore di psicologia dell’Università di Harvard e autore di libri di grande divulgazio*ne (come L’istinto del linguaggio e Come fun*ziona la mente, editi da Mondadori): «Il sen*so morale non deriva dalla religione che ci viene inculcata; i principi morali che ciascu*no sente di rispettare sono pre-programmati nel nostro cervello fin dalla nascita e hanno basi neurobiologiche».

Altri studiosi, come il biologo Marc Hauser, pure lui professore ad Harvard, e Richard Dawkins, biologo ma anche etologo dell’Uni*versità di Oxford, per citare solo quelli più no*ti al grande pubblico grazie ai loro libri di affa*scinante divulgazione, sostengono la stessa idea a cui anch’io, seppur non sperimental*mente ma intuitivamente, ho sempre creduto e cioè che alcuni principi morali sono univer*sali, scavalcano le barriere geografiche e cultu*rali e religiose. Nel loro metodo di ricerca sperimentale gli studiosi usano sondaggi statistici su vasta sca*la (anche con questionari via Internet), in cui vengono proposti dilemmi morali (per esem*pio: «È giusto sacrificare la vita di una perso*na per salvarne molte»?).

Le risposte sono pressoché univoche, indipendentemente dal*la fede religiosa o meno degli intervistati, dal loro grado di cultura e dallo stato economico, dall’età e dal sesso. A dimostrazione, come so*stiene Hauser, che alla guida dei nostri giudi*zi morali c’è una grammatica morale univer*sale, una facoltà della mente che si è evoluta per milioni di anni fino a includere un insie*me di principi che tutti ritengono giusto ri*spettare. Esiste insomma un sesto senso, quello della morale, un organo complesso con precise basi neurologiche che può essere attivato e disattivato al pari di un interrutto*re.

Quando è acceso, il nostro modo di pensa*re viene guidato da una specifica predisposi*zione mentale, che ci porta a considerare al*cune azioni come immorali («uccidere è sba*gliato »), anziché solo discutibili. Gli impulsi della moralità si manifestano fin dall’infanzia. Secondo gli psicologi Elliot Turiel e Judith Smetana, i bambini dell’asilo conoscono già la differenza tra convenzioni so*ciali e principi morali. Sanno che non è lecito indossare il pigiama a scuola (una convenzio*ne) e anche che non è lecito picchiare un com*pagno senza ragione (un principio morale). Ma quando si chiede loro se queste azioni sa*rebbero lecite se il maestro le permettesse, la maggior parte dei bambini risponde che in*dossare il pigiama sarebbe lecito, ma non prendere a pugni un compagno. Ed esiste una grammatica morale anche ne*gli animali.

Secondo lo psicologo-filosofo Jo*nathan Haidt dell’Università della Virginia (Sta*ti Uniti), l’istinto a rifiutare la violenza è pre*sente anche nelle scimmie reso (il cui genoma è identico per il 98 per cento al nostro), le qua*li, piuttosto che tirare una catena che dà loro il cibo ma provoca una scossa alla scimmia vici*na, rinunciano al cibo. È vero che il gene della bontà non è stato ancora scoperto, ma il senso del bene e dell’al*truismo è iscritto nei nostri geni.

Umberto Veronesi
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Vecchio 21-07-2009, 18.14.18   #10
Noor
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Ma val la piena di continuare a cercare?
Forse l’evoluzione è buona o cattiva, forse la catena dei dubbi non avrà fine – ma ecco, io torno al principio di tutti i principi, cioè alla certezza che la verità assoluta c’è e noi la stiamo cercando
C’è come un grande struggimento in questa ricerca,come una nostalgia di qualcosa che si conosceva e al quale ci si vuole ricongiungere,riabbracciare... è difficile volerlo ammettere,ma è sovente così.
La verità è questo stesso amore per il vero che imperversa come un mare in tempesta a cui non ci si può sottrarre.
Chiedi se ne vale la pena cercare..rispondo che se anche tu lo decidessi..non ne potresti fare a meno poiché è superiore a qualsiasi forza immaginabile.
Già questo immane sforzo,è il vero.
Il punto è che si vuole sbirciare alla fine del libro per vedere come finisce..
Anche a leggerlo non ci si crederebbe.
Dunque non abbiamo scelta:ci tocca sfogliarlo,pagina per pagina.
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