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Vecchio 27-10-2004, 12.04.36   #11
epicurus
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molto interessante neman...
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Vecchio 27-10-2004, 18.40.14   #12
neman1
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Mi fa piacere che l'avete trovato interessante

aggiungo anche questa


Kouan

Termine giapponese che, nella pratica zen, denomina un breve racconto o una sentenza proferita da un maestro per favorire il risveglio spirituale (satori) dei discepoli. Si tratta solitamente di un paradosso logico che trascende la coscienza e il senso comune, creando uno stato di vuoto mentale adatto alla meditazione.
I kouan più famosi sono quelli di Hakuin Zenji (1685-1768), fra cui è memorabile il seguente:

Questo è il battito di due mani. Qual è il suono del battito di una sola mano?

I kouan possono basarsi sul metodo della domanda e risposta (mondou).

Chiese un monaco: "Cosa diresti se venissi senza portarti niente?".
Egli rispose: "Gettalo a terra".
Protestò il monaco: "Ho detto che non avrei portato nulla. Cosa dovrei gettare?".
"Allora portalo via" gli rispose.

Il kouan permette anche di avere diverse prospettive di uno stesso fenomeno.

Tre monaci osservano una bandiera che si agita nella brezza. Un monaco osserva: "La bandiera si muove". Il secondo ribatte: "Ma è il vento che si muove". Allora dice il terzo: "Sbagliate entrambi, è la vostra mente che si muove".
Un altro celebre kouan:

Qual è il significato della venuta di Bodhidharma dall'Occidente in Cina?".
La risposta fu un calcio.

Spesso il kouan contiene un elemento umoristico insieme ad una verità mistica.

Un cane partecipa alla natura del Buddha?"
"Wu!

Questo kouan del maestro cinese Chao-chou (778-897) gioca sulla parola wu (in giapponese mu), che significa nulla, cioè quello che un cane avrebbe detto in risposta alla domanda.
Lo scopo autentico del kouan è abbandonare il ragionamento sillogistico e sottrarci alla tirannia della logica e alla unidirezionalità della fraseologia quotidiana.
Secondo Suzuki Daisetsu lo zen dichiara che le parole sono parole e nulla più. Quando esse cessano di corrispondere ai fatti, è tempo per noi di separarcene e tornare ai fatti. Nella misura in cui la logica ha un valore pratico, essa va usata. Ma quando fallisce il suo scopo o si mostra incapace di superare i propri limiti, dobbiamo gridare basta.


Ciao
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Vecchio 01-11-2004, 16.15.10   #13
epicurus
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neman, però Wittgenstein non era certo un soggettivista.

In 'Della Certezza' egli scrive:

15. Che non fossero possibili errori, dev’essere dimostrato. La rassicurazione: “Io lo so” non è sufficiente. Infatti essa è soltanto la rassicurazione che non posso sbagliarmi (qui): e che qui non mi sbagli deve poter essere stabilito oggettivamente.

16. “Se so qualcosa, allora so anche di saperlo, ecc.” equivale a: “Io lo so” vuol dire: “In questo sono infallibile”. Ma se io lo sia, deve potersi stabilire oggettivamente.


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Vecchio 02-11-2004, 15.16.11   #14
neman1
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Ciao Epicurus

Ehm si, ti volevo punzicchiare un pò replicandoti nell'altro forum quando dicevo >>...non scarterei il soggettivismo<<.

Citazione:
neman, però Wittgenstein non era certo un soggettivista.

...e nessuno l'ha detto. Si parlava di un pluralismo del doppio nell'altro forum accenando altrove ancora la tendenza al sentimentalismo dei nipponici, non il soggettivismo.

Citazione:
Che non fossero possibili errori, dev’essere dimostrato.

Concordo. La dimostrazione dipende comunque dal consenso altrui nella situazione, contesto in cui uno si trova coinvolto o immerso. Che senso avrebbe "avere" la verità tutta per sè, stando in mezzo agli altri? La domanda è: come ottenere il consenso? Qui andrebbe bene una risposta obbiettiva. Ciao

Ultima modifica di neman1 : 02-11-2004 alle ore 15.32.46.
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Vecchio 02-11-2004, 23.40.47   #15
epicurus
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neman, diciamo che non avrebbe senso credere che la verità sia una cosa misteriosa e occulta, ma non è certo problematico pensare che una persona abbia ragione e tutte le altre no.

All'interno di un gioco linguistico si è stabilito che criteri adottare per dimostrare la verità di un'affermazione, ma questo non indica la relatività della verità, ma solo che le parole sono state create da noi. Ad esempio: se nel gioco linguistico l'acqua è un elemento con la struttura chimica H2O, allora basterà verificare se la sua struttura è proprio quella o no, ed il gioco è fatto.

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Vecchio 04-11-2004, 07.43.34   #16
neman1
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x Epicurus

Il misterioso non è tanto lontano dalla curiosità per il nuovo.

Nishitani Keiji: Sulla relazione io-tu nel Buddhismo Zen

Kyôzan Ejaku chiese a Sanshô Enen (1):
«Come ti chiami?».
Sanshô rispose: «Ejaku».
Kyôzan disse allora: «Ma Ejaku sono io!».
E Sanshô: «Bene, allora il mio nome è Enen».
Kyôzan scoppiò in una grossa risata.

Daitô Kokushi commentò:
Dove va ciò?

e
Il sole splende caldo, la neve primaverile si scioglie.
I fiori del susino e l’amento del salice fanno a gara con la loro fragrante freschezza.

L’occasione della poesia e del divertimento spirituale contiene un significato senza limiti,concesso solo all’uomo che vaga nei campi e strenuamente compone poesia.

I. L’incontro tra Kyôzan e Sanshô è un antico e noto Kôan (2), incluso nella raccolta Bi-yän-lu (3) con il titolo "Kyôzan scoppia in una grossa risata". Il racconto mostra il vero significato dell’incontro tra esseri umani.

Noi continuamente incontriamo gli altri: in famiglia, le nostre mogli e i nostri figli; al lavoro, i nostri colleghi; per strada e sul tram, gli estranei; e nella storia riusciamo ad incontrare persone vissute cento, anche mille anni fa. Eppure, non vediamo nulla di straordinario in tali incontri e certo non ce ne meravigliamo. Tuttavia, cosa c’è nel profondo dell’incontro tra uomo e uomo? Cos’è che fondamentalmente rende possibile un tale evento? Questo mondô (4) sonda questi problemi e svela quale immenso orrore e quale infinita bellezza si nascondano nelle profondità di questo evento quotidiano.

Tali problemi non li si può risolvere dall’esterno, tenendosene a distanza, o con gli strumenti della biologia, della sociologia, dell’antropologia o dell’etica, che non sono in grado di sondarli in profondità. Ad esempio, si può dibattere in quel modo di diritti umani ad infinitum, senza affrontare il problema di ciò che è implicato nell’incontro di due esseri umani, restando impotenti davanti ad immagini come l’hobbesiano "homo homini lupus" o l’"uomo lupo" del mistico tedesco Heinrich Seuse. Né la posizione kantiana circa il mutuo riconoscimento degli uomini in quanto persone può offrire un aiuto alla soluzione dell’enigma dell’incontro umano. In generale, né le indagini filosofiche né quelle teologiche raggiungono gli abissi che là si celano. Ad esempio, non si può resistere all’impressione che, considerando il problema della relazione interumana nella prospettiva della "communio sanctorum" della Chiesa cristiana, ci si gratti il piede attraverso la scarpa (come recita un antico proverbio cinese): si tocca il punto che prude, ma solo indirettamente… Da Martin Buber in poi l’incontro interumano è stato considerato come una relazione personale "Io-Tu" (5). Un tale approccio ha una sua indubbia validità, ma rimane ancora lontano dalle profondità della relazione personale Io-Tu. Proprio dal punto in cui esso si ferma prende avvio l’approfondimento Zen.

Due punti devono rimanere ben saldi. Primo, sia l’Io che il Tu sono assoluti, ciascuno nella propria rispettiva soggettività; secondo, sia l’Io che il Tu, per la loro reciproca relazione, sono nel contempo assolutamente relativi.

L’assolutezza del soggetto è stata finora concepita in vari modi: ad esempio, che ogni uomo sia un lupo per gli altri uomini; ancora, il concetto kantiano di personalità, secondo il quale la volontà morale è autonoma e non ammette alcuna disposizione che provenga dall’esterno, neanche da Dio; nell’ordinaria prospettiva religiosa, poi, l’Io sta in relazione con Dio come con un Tu assoluto, un assoluto Altro. In ciascuna di queste tre prospettive l’assolutezza della soggettività individuale non ammette alcuna sua sostituzione. E tuttavia, in ciascuna di esse scorgiamo, sia nell’uomo in quanto individuo sia al di sopra di esso, un qualcosa di universale, di legale. Grazie a questo Universale la relazione di un individuo con un altro viene istituita e, nel contempo, parzialmente relativizzata; ossia, le leggi universali come una sorta di ostacolo nei confronti dell’assoluta individualità.

L’Universale può assumere varie forme. Per gli uomini che s’incontrano reciprocamente come lupi, è lo Stato e l’autorità della sua legge; per l’uomo etico, è la Ragione pratica e la sua legge morale; per la personalità religiosa, è l’"Altro assoluto" e la sua legge divina. Ma in ciascun caso la struttura generale di queste relazioni – la relazione tra singoli individui fondata sull’Universale – ha sempre un carattere di compromesso. Mentre l’individuo ha un’insostituibile soggettività e quindi una piena libertà, nel contempo è subordinato a qualche sorta di Universale. Essendo tutti subordinati, tutti gli individui sono uguali; il che vuol dire che un qualsiasi individuo può prendere il posto di chiunque altro. Ad esempio: c’è un funerale nel vicinato e un capofamiglia vuole porgere le condoglianze in nome della sua famiglia. Forse è, però, impedito dal farlo e sua moglie va in sua vece; o sono entrambi impossibilitati e può sostituirli il loro figlio maggiore. Ciascuno dei familiari, insomma, può rappresentare la famiglia e, nel farlo, sostituire ciascun altro; dando prova così del principio della sostituzione o delega. Ora, mentre l’uguaglianza implica la possibilità di tale sostituzione, la libertà implica la sua impossibilità. Una mescolanza di libertà e uguaglianza implica una libertà imperfetta. Laddove l’individuo è soggetto ad un Universale, egli è relativizzato e perde la sua assolutezza. Tutti i problemi concernenti i rapporti tra libertà ed uguaglianza sono di questo tipo.

Ma da un’altra visuale, questa libertà imperfetta implica anche un’imperfetta uguaglianza. La subordinazione all’Universale non può del tutto assorbire o distruggere la libertà dell’individuo in quanto individuo. Per riottenere quella libertà, impedita dalla legge, può darsi che egli evada dalla prigione dell’Universale. Il potere della legge statale non può trasformare completamente il lupo in una pecora e di tanto in tanto il lupo agirà come un lupo. Solitamente, questo ha luogo solo in una sfera limitata, ma in larga scala, l’individuo può diventare l’incarnazione della Volontà di Potenza. In modo analogo, il rigore della legge morale non può estinguere completamente l’amor proprio; anzi, l’amor proprio può portare a darsi al "male radicale" di cui parla Kant. La sacertà della legge divina non può dominare gli ostinati appetiti dell’uomo né impedirgli di voltare le spalle a Dio e cedere alle tentazioni di Satana. Il cittadino che ha appena rappresentato la sua rispettabile famiglia al funerale del vicino può, a completamento del suo dovere, prendere un taxi e correre dalla sua amante; il figlio, che ha preso il posto del padre, può poi andare al cinema con i soldi rubati dal borsellino della madre. In breve, negli individui relativizzati dal qualche Universale, sono imperfette sia l’uguaglianza che la libertà. Tutto ciò significa che non è possibile alcun incontro autentico tra esseri umani dove le relazioni umane sono subordinate ad un qualche Universale e dove, quindi, libertà ed uguaglianza sono obbligate ad andare di pari passo nella loro incompletezza. Nella prospettiva dello "stato di natura" dell’uomo lupo il carattere originario dell’incontro umano rimane celato sotto le leggi, siano esse civili, morali o divine.
Laddove la subordinazione ad un Universale si mostra incapace di assorbire completamente la libertà del privato, individuale Sé, l’Universale può soffocare la libertà individuale nell’irato tentativo di imporre l’uguaglianza. È quel che accade, ad esempio, quando il socialismo si trasforma in totalitarismo. Ma un’uguaglianza imposta in questo modo non può essere genuina ed assoluta. Per essere realizzata, l’Universale deve essere capace di assorbire completamente la libertà privata ed individuale. Ma allora, non restando più nulla dell’individualità dell’individuo, non resta neanche chi potrebbe relazionarsi in una comune uguaglianza, con il risultato che il concetto di uguaglianza diventerebbe privo di senso. In qualche modo un’emancipazione, una reinvenzione dell’individuo con una qualche libertà personale sarebbe necessaria e si dovrebbe trovare un modo per cui l’assoluta negazione dell’individuo e della sua libertà sia nel contempo una loro assoluta affermazione – e viceversa. In altre parole, una condizione di uguaglianza nella quale la negazione dell’individuo e della sua libertà divenga la loro assoluta affermazione. Ciò è assolutamente inconcepibile, a meno che non si consideri dal punto di vista del Niente assoluto [absolute nothingness], sûniatâ – non-ente, nel senso buddhista del termine.

Un Universale, che si ponesse in relazione all’individuale, e divenisse così un Universale che è – sia esso in quanto Stato, Ragione pratica, Dio, e così via – in ogni caso medierebbe, secondo la sua legge, tra individuo ed individuo e li porterebbe così all’unità. In tale unità mediata della legge, l’Universale si manifesta come ente, come qualcosa dotato di una sua auto-identità, come "sostanza". La relazione tra uomo e uomo, allora, è tale che l’individuo lascia metà di se stesso nella relazione. Non è più un’assoluta individualità, come una totalità indipendente. D’altra parte, l’Universale rimane più o meno insito negli individui, e sostiene dal loro interno la loro relazione reciproca. Nella sua immanenza, esso non può trascendere completamente l’individuo e non può privarlo delle sue radici. Quindi, più si accentua la libertà dell’individuo, più l’unità posta con la legge viene erosa e infine dissolta. Questa tendenza si manifesta nel collasso del liberalismo nell’anarchia. Si potrebbe chiamare "anarchia" uno "stato di natura" elevato al massimo livello, sebbene nessuna reale libertà vi si possa mai conquistare.

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Vecchio 04-11-2004, 07.46.53   #17
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C’è solo una situazione in cui la completa libertà può essere ottenuta senza cadere nell’anarchia, la situazione nella quale libertà ed uguaglianza – essenzialmente contraddittorie – possano co-esistere in un modo paradossale. Questo può accadere solo quando il Luogo della Vacuità si realizza come Luogo della libertà. Questo Luogo della Vacuità è ottenuto quando attraverso l’uguaglianza, che tende a negare la libertà, si irrompe nel suo fondamento immobile della negazione assoluta o Niente. La vera libertà si compie solo quando la sua assoluta negazione è la sua assoluta affermazione. Tutte le altre posizioni oscillano necessariamente sempre solo tra i poli del totalitarismo e dell’anarchia. Qui non intendo totalitarismo ed anarchia in un senso non solo politico, ma li estendo a tutte le categorie delle relazioni umane. Il totalitarismo reca sempre in sé la possibilità di trasformarsi improvvisamente in anarchia, e viceversa; la via all’anarchia e quella al totalitarismo spesso corrono vicine.



II. Il lettore, stupito, si è forse chiesto quale connessione abbia questo lungo discorso su una realtà che fa parte della nostra esperienza quotidiana con quello strano mondô zen tra due monaci zen dell’antica Cina. Il fatto è che questo mondô racchiude tutto ciò di cui ci siamo occupati. Torniamo allora al problema iniziale, quello di compiere una ricognizione completa e senza scorciatoie della doppia condizione nella quale sono coinvolti l’Io e il Tu come soggetti: assoluti e nel contempo assolutamente relativi. Se non torniamo a questo punto, non saremo capaci di comprendere né una vera libertà individuale né una vera uguaglianza universale.

Che l’Io e il Tu siano ciascuno assolutamente assoluti vuol dire che entrambi, nella loro reciproca relazione, sono assolutamente relativi. Questo suona come una perfetta contraddizione, un puro nonsense. Ciò implica una totale ostilità, un’assoluta animosità reciproca, nella quale non si può vivere sotto lo stesso cielo, come recita un antico detto cinese. E dove entrambi non possono condividere lo stesso cielo, l’uno deve uccidere l’altro. Questa è la relazione dell’homo homini lupus, mangiare o esser mangiato. In una tale situazione, la relatività sarebbe interamente eliminati. Ossia, conservando la relazione, gli assoluti sono inammissibili. Inoltre, non c’è alcun motivo perché l’uno dei due sia accettato e l’altro respinto; sono entrambi perfettamente uguali. Per questa ragione, i due nemici acerrimi, che sono incapaci di vivere insieme sotto lo stesso cielo, ciononostante coesistono in un modo totalmente efficace. Quando ciò diviene impossibile, essi devono accontentarsi di raggiungere un compromesso per mezzo di un Universale e della sua legge. Un tale compromesso sarà costantemente gravido di contraddizioni; esso genererà conflitti e sarà sempre esposto al pericolo di collasso, come si riscontra negli eventi storici di qualunque epoca. Si tratta dell’infinita sofferenza che, secondo il Buddha, segna la via del mondo. La radice di questa sofferenza sta nella relazione interumana, nel semplice fatto che esseri umani esistono fianco a fianco, nonostante l’impossibilità teorica che coesistano fianco a fianco due assoluti. Questa impossibilità, che da tempo immemore ha mostrato la sua possibilità ed è ancora la nostra realtà quotidiana, è stata la fonte di infinite complicazioni e sofferenze. In che modo lo zen vede questa situazione? In che modo esso riesce a dimostrare possibile l’assurda nozione che l’assoluta inimicizia è, nel contempo, assoluta armonia?

Kyôzan chiese a Sanshô quale fosse il suo nome. Andando indietro nella storia dell’umanità, troviamo che il nome aveva un significato molto profondo. Esso simboleggiava la persona stessa, era una sua manifestazione e gradualmente divenne uno con la stessa. Questa considerazione del nome giocò un grande ruolo nella magia, nella religione e negli altri campi della vita sociale. Ad esempio, il fatto che una donna rivelasse il proprio nome ad un uomo, significava che gli stava offrendo se stessa. Successivamente, espressioni come "il nome di Amida" e "in nome di Gesù Cristo", indicano che Buddha e Dio rivelano e annunciano se stessi, offrendo se stessi all’umanità. Più tardi, il nome diventa sempre più un "mero nome". Arriviamo al momento in cui l’uomo comincia a vantarsi del proprio "intelletto risvegliato" e l’inizio del moderno spirito scientifico e l’apparizione di nominalismo ed empirismo. Rimane da vedere, però, se considerare il nome come uno con l’esistenza possa semplicemente esser confinato in un qualche epoca mitica anteriore all’emancipazione dell’intelletto. Forse è vero l’esatto contrario; forse gli uomini di quell’epoca vivevano a contatto con la realtà in un modo veramente reale e sentivano di essere all’interno della realtà. Forse il nome era percepito realiter perché la realtà era concretamente vissuta, intimamente sentita e direttamente ‘realizzata’ [realized]. Ciò potrebbe indicare che la successiva interpretazione del nome come un "mero nome" mostri un intelletto isolato dalla realtà. E questo non nasconde forse il declino dell’"intelletto risvegliato" in una cecità ancora più profonda? Non potrebbe darsi che il nostro orgoglio per la cosiddetta "età della scienza" sia un’espressione di follia, dell’inconsapevolezza della nostra profonda cecità?

In ogni caso, Kyôzan e Sanshô non sono uomini di un’epoca mitologica. Lo zen è una religione totalmente "demitologizzata", con la sua ingiunzione ad "uccidere il Buddha e tutti i patriarchi!". Potremmo presumere che in questo In oonsia richiesto solo il "mero nome". Ma Sanshô era un maestro zen molto noto e senza dubbio Kyôzan ne conosceva il nome; Kyôzan non ha quindi chiesto il nome a Sanshô al livello d’intelletto. Piuttosto, la domanda indica l’inizio di un evento zen – il semplice incontro tra due uomini – per penetrare ed approfondire quel che accade ogni giorno tra due uomini qualsiasi. Kyôzan e Sanshô stanno rappresentando la situazione di due uomini le cui nature rendono impossibile vivere insieme sotto lo stesso cielo e che, ciononostante, devono vivere sotto lo stesso cielo; l’impossibilità diventa una possibilità, o piuttosto un fatto, nella nostra realtà quotidiana. Con la domanda di Kyôzan comincia l’approfondimento della realtà all’interno della nostra realtà quotidiana.

Engo (Yüan-wu, 1062-1135, autore del Bi-yän-lu) commenta così la domanda di Kyôzan "Come ti chiami?": «Egli rapisce nel contempo il nome e la cosa». Chiedere il nome significa quindi prendere anche la cosa. Nel XVIII secolo il maestro zen Hakuin (6) disse di quella domanda: «È come un guardiano che interpella un tipo sospetto che si aggira nel buio». Ciò non vuol dire necessariamente che Kyôzan abbia dato questo senso alla sua domanda, ma essa assume proprio un tono del genere. Quando ciò che ha il carattere dell’assoluto agisce nel mondo relativo, la sua azione viene da sé ad escludere tutta la relatività. Le cose che gli si oppongono come "altro" devono essere tutte fermate nei loro percorsi, tirate dalla propria parte ed infine annesse ad esso. Poiché il Sé è completamente padrone di se stesso e conserva la sua piena soggettività – ossia, poiché esso è il Sé in senso pieno – questo accadrà naturalmente. Ciò significa che Kyôzan è Kyôzan. Tuttavia, dalla prospettiva del Tu come soggetto, lo stesso accadrà per quest’ultimo. L’essenza di questa relazione Io-Tu è caratterizzata da nient’altro che dal problema di mangiare o esser mangiato.

Engo aggiunge il seguente jakugo (letteralmente, "commento post-scritto) a quel dialogo: «Egli (Kyôzan) lo aveva intrappolato e credeva di essersene impossessato; ma, con suo grande stupore, Sanshô si rivelò a sua volta un ladro: rovesciò la situazione e derubò Kyôzan di ogni cosa».

Quando gli fu chiesto il nome, Sanshô rispose "Ejaku", ma Ejaku era il nome di chi glielo aveva chiesto, Kyôzan. Con la sua risposta, Sanshô prende tutto per sé: la natura assoluta di Kyôzan, quello che Kyôzan stesso è, ossia colui che non vuole ammettere che un Tu gli stia in opposizione e che prenderebbe tutti gli altri per sé. Simultaneamente, Sanshô afferra da dietro tutte le azioni e la vera esistenza di Kyôzan, aggirando le difese ostili e issando lo stendardo del proprio Sé alle sue spalle. Così facendo, egli toglie a Kyôzan il terreno sotto i piedi e ne conquista l’esistenza.

Inoltre, dato che tutto ciò accade in sintonia con il genuino Sé di Sanshô, Engo osserva che con la sua risposta Sanshô taglia la lingua a Kyôzan: «Egli gli porta via bandiera e tamburo». Tagliandogli la lingua – ossia la disputa e il Sé di Kyôzan che osava interrogarlo – egli porta via i segni della vittoria. Sanshô si rivela in quanto Sanshô.

Tornando a quell’aspetto del Sé di Kyôzan che in origine poneva la domanda, notiamo che esso sorge su quello stesso fondamento originario. Kyôzan deruba Sanshô del nome e dell’essere, gli sottrae il Sé. Quindi Kyôzan e Sanshô restano in una relazione di inimicizia mortale. Ma il punto essenziale è che la relazione soggettiva tra uomo e uomo non è più quella dell’Io e del Tu ordinariamente intesa. Quando Sanshô chiama se stesso con il nome di Kyôzan (Ejaku), egli è Kyôzan. L’Io è il Tu e il Tu è l’Io. E lo stesso si verifica se considerato dalla prospettiva di Kyôzan. In breve, l’Io non è semplicemente un ordinario Io; esso è l’Io (Sanshô) che nel contempo è il Tu (Kyôzan). Il Tu non è un semplice Tu; esso è il Tu che è nel contempo un Io: l’Io e il Tu si mescolano completamente l’uno nell’altro.

Qui si potrebbe pensare all’assoluta In-differenza, all’assoluta Identità o all’assoluto Uno. Nel pensiero occidentale essa è stata espressa come Uno (ad esempio, in Plotino), o come Identità assoluta (ad esempio, in Schelling). È il punto in cui cessa ogni relazione. Non c’è né Sé né Altro, né persona né relazione personale.

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Vecchio 04-11-2004, 07.49.37   #18
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Questo mondô sembrerebbe indicare che la realtà della relazione Io-Tu è, nell’essenziale, proprio un simile approdo al tema della non-discriminazione. È invece l’esatto contrario. Mentre ogni pura non-discriminazione si tiene separata dalla realtà, qui si tratta della realtà dell’Io e del Tu, anche della realtà dell’incontro tra uomo e uomo e dell’assoluta opposizione che vi è contenuta. Solo che questo Io e questo Tu non sono semplici Io e Tu. Poiché l’Io è il Tu e il Tu è l’Io, entrambi sono assolutamente in-differenti. Per l’Io quest’assoluta in-differenza appartiene all’Io stesso – e lo stesso è per il Tu. Grazie a questa assoluta in-differenza, l’Io è un vero Io e il Tu è un vero Tu. Questa è la genuina relazione Io-Tu. Potremmo formulare questo paradosso nella maniera del Sutra del diamante (7): la relazione Io-Tu è una relazione Io-Tu perché non è una relazione Io-Tu. Questo rivela anche la necessità di un’assoluta opposizione. L’Io e il Tu, che si contendono l’assoluta in-differenza – ciascuno asserendo che essa appartiene a sé – sono di conseguenza assolutamente relazionati l’uno all’altro, e quindi relativi. Essi sono un Io e un Tu che, come autentici soggetti, sono assolutamente differenti l’uno dall’altro. Qui non c’è alcuna relazione tra l’Io e il Tu. Ma non è una non-relazione nel senso di una mera in-differenza. Essa è non-relazione come assoluta opposizione e relativa opposizione su un piano in cui tutte le relazioni sono state trascese. In effetti, la realtà dell’incontro Io-Tu nella vita quotidiana è una realtà nella quale esiste una tale assoluta relatività e una tale assoluta opposizione. Al fondo di un tale incontro vi è uno sconfinato orrore.

Tuttavia, considerata dall’altro lato, l’assolutezza nell’assoluta relatività deriva dal fatto che l’assoluta non-discriminazione appartiene sia all’Io che al Tu; e l’Io può essere il Tu e il Tu può essere l’Io, come individui assoluti, poiché ciascuno di loro è fondato sull’assoluta identità nella quale io sono tu e tu sei io, ed ogni forma di relazione e relatività è superata. Qui, io sono con te non essendo in alcun modo discriminato rispetto a te, e tu sei con me ugualmente non discriminato rispetto a me.

Il fatto che Sanshô chiami se stesso con il nome di Kyôzan vuol dire allora che egli svuota se stesso e mette Kyôzan al proprio posto. Dove l’altro è al centro del Sé e dove l’esistenza di ciascuno è allocentrica, regna l’assoluta armonia. Questa potrebbe essere chiamata "amore" nel senso religioso del termine. Sottolineo "nel senso religioso", poiché è una condizione di Vacuità o muga (non-Sé) che ha assolutamente separato il Sé e l’Altro dal loro senso ordinario. L’assoluta opposizione è quindi nel contempo assoluta armonia. Entrambe sono una e medesima. Qui l’assoluta opposizione è, così com’è, un gioco e l’assoluta armonia non è una mera In-differenza. Sé e Altro non sono uno e non sono due. Essere "non-uno e non-due" vuol dire che ciascun Sé conserva la sua assolutezza, pur essendo relativo all’altro; e che in questa relatività essi non sono separati neanche per un istante (8). Mentre l’Io riconosce al Tu, in relazione all’assoluta in-differenza propria del Tu, di essere un Io, permettendogli così di diventare assolutamente un Tu, nel contempo assume per sé il Tu. Situato in questa assoluta in-differenza che si apre nell’Io, l’Io è l’Io stesso – io sono io. Se si vuole chiamare "amore" l’armonia di quest’assoluta non-relazione, esso è comunque del tutto diverso dall’eros o dall’agape.

Comunque sia, quando Sanshô disse di essere Ejaku, Kyôzan rispose: «Ma Ejaku sono io!»; e allora Sanshô diede il proprio nome, Enen. A proposito di questa risposta, Hakuin commenta: «Ha cambiato se stesso dalla testa ai piedi. Sempre più furba con l’avanzare dell’età, la vecchia volpe ha molti trucchi nella manica». Ed Engo dice: «Entrambi sono tornati a tenere la propria posizione di partenza. Dopo tante trasformazioni ciascuno dei due è tornato "a casa sua"».

Ciò che accade non è altro che l’armonia e la sintonia – un’armonia pervasa da infinita bellezza. Hakuin paragona questo incontro ad una lotta tra un drago e un elefante che «si scalciano l’un l’altro» e dice che là «non c’è posto per cavalli azzoppati e asini ciechi». Ma poi aggiunge: «Il loro cantare e battere il tempo, suonare il tamburo e danzare; è come se i fiori nella calda primavera facessero a gara tra di loro con i loro rossi e porpora». Qui ciascun Sé ritorna alla sua posizione originaria, dove ciascuno è se stesso. Sebbene ciascuno di noi dovrebbe trovare in mezzo ai suoi incontri quotidiani il Luogo in cui, a dispetto di se stesso, conservare la sua posizione originaria, di fatto noi non approfondiamo e ‘realizziamo’ un tale Luogo. Il solo modo per farlo è penetrare attraverso [pierce through] il fondamento dell’incontro: dal "mangiare o essere mangiato" o, meglio, dal "mangiare e essere mangiato" fino a che il piccolo Io di ciascuno si dissolva, al Luogo nel quale il Sé e l’Altro non sono due cose differenti e la lotta si trasforma in gioco. Allora sarà come i fiori che fanno a gara con i loro rossi e porpora nel tepore primaverile. Finché le relazioni tra individuo ed individuo, tra nazione e nazione, tra tutte le fazioni e i gruppi non ritorneranno in questa condizione, non rimarrà che la lotta dei lupi.



III. Alla luce di quanto è stato detto, torniamo ora alla poesia del maestro zen giapponese Daitô Kokushi (1282-1337), composta come commento al precedente mondô. Insieme al mondô, essa è inclusa nel Kwaiankoku-go, un’opera in cui Hakuin commenta i detti e le poesie di Daitô.

Dei primi due versi Hakuin dice: «Se tu batti i piedi e scalci nell’oscura vallata dell’ottava coscienza, il sole della Sapienza del Grande Specchio brillerà immediatamente e dissolverà i cumuli di neve stantìa dell’aspetto persistente di tutti i fenomeni» e «Egli spezza la lastra di ghiaccio dell’uniformità del Tathatâ, scioglie il ghiaccio dell’unica essenza del Dharma».

Potremmo chiamarlo semplicemente il trascendimento dell’attaccamento, dell’attaccamento a sé e di ogni altro attaccamento, compreso quello al dharma o Legge. La condizione dell’uomo lupo, come pure la fonte dei conflitti che oggi separano in due l’umanità, hanno le loro radici nell’attaccamento a sé, che pone il Sé al centro e così discrimina tra sé e altro da sé.

In definitiva, questo attaccamento a sé è radicato nella cosiddetta Ignoranza (9), ossia nell’ottava coscienza o "coscienza-deposito" (âlaya-vijñâna) (10), il fondamento sul quale è basata la coscienza umana. Indicavo appunto questa Ignoranza, quando prima dicevo che c’è un fondo di profonda cecità proprio alla radice dell’intelletto umano. Là hanno la loro fonte illusione e sofferenza. Per soggiogarle, sono state escogitate varie teorie e ideologie e sono state istituite svariate "leggi" – leggi civili, morali, divine. Ma tali leggi sono incapaci di spezzare la robusta radice dell’attaccamento a sé; l’attaccamento a sé rimane proprio sotto la copertura di queste leggi. Si cade nell’orgoglio per la propria terra, per la propria morale, per il Buddha e per Dio. Giustificare questi "attaccamenti alla legge" è solo un attaccamento a sé ad un livello più alto. Così stanno le cose anche con le teorie e le ideologie.

Dannosa non è la legge. Dannoso è quel fissare il Sé su qualcosa di universale posto come ente, il suo modo di attaccarsi alla legge – in forma eteronoma, autonoma o "teonoma". Il comune modo d’essere di tutti questi tipi di attaccamento alla legge è precisamente l’"aspetto persistente di tutti i fenomeni". Tutte le varie leggi coinvolte in questi attaccamenti sono il cumulo di neve che li nasconde. Solo se trascendiamo il piano dell’Universale, inteso come non-dualità di Sé e Altro, ossia Vacuità e muga (non-Sé), per la prima volta la luce del sole dello Specchio della Grande Sapienza brillerà sull’Ignoranza la spezzerà. Essa è la luce della Grande Sapienza o mahâprajñâ. Ma se questa non-dualità di Sé e Altro venisse considerata come una semplice non-discriminazione, essa diventerebbe solo il concetto di non-discriminazione, che è ancora un’altra forma di attaccamento alla legge. La "lastra di ghiaccio dell’uniformità della tathatâ" (11), il "ghiaccio dell’unica essenza del dharma", l’"assoluto Uno ricoperto di ghiaccio o assoluta Identità" e così via indicano il più elevato attaccamento alla legge e al Sé, che rimane nascosto ad un livello che sta oltre gli ordinari attaccamenti alla legge e al Sé. Quando s’irrompe al di là di questo stesso livello, per la prima volta è raggiunta la vera realtà, nella quale il Sé come Sé, l’Altro come Altro e la legge come legge fanno a gara tra di loro nella loro fragrante freschezza. Allora gli incontri quotidiani tra tutti gli uomini sono qualcosa di un’infinita freschezza e pervasi di un’infinita fragranza.
Nel terzo verso incontriamo le parole "poesia" e "divertimento spirituale". Qui, neanche a dirlo, il perfetto incontro di un uomo con un uomo diventa un’occasione per la poesia, proprio come il bel paesaggio di susini e salici. Ma questa poesia non consiste di immagini formate dalla coscienza umana né è una composizione che coinvolge il linguaggio umano. Qui la poesia prende come sue immagini le cose reali stesse ed è composta di parole recitate dalle cose stesse.

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Il "divertimento spirituale" non è quello che della coscienza umana, ma qualcosa che nasce dalle profondità dell’essere reale dell’uomo e di tutte le cose. Il poema non è fondato in un romanticismo ispirato, ma in un radicale realismo. Attraverso un radicale approfondimento della realtà come essa è, la realtà si mostra come pura e semplice poesia. È lo stesso della lotta che, al suo fondo, diventa gioco. E la Poesia che appare nel Luogo che trascende ciò che ordinariamente si riferisce all’ambito della poesia, quella Poesia che non è creata dall’uomo, ma alla quale l’uomo partecipa e che fa parte dell’uomo come tale? A quale ambito apparterrebbe? Ora, quando un uomo abbandona il suo piccolo Sé e devotamente entra nella realtà, la Grande Sapienza (prajñâ) si apre come il Luogo originario di tutte le cose, il Luogo dove esse emergono e ‘realizzano’ se stesse come esse sono – il Luogo della realtà stessa. L’apertura a questo Luogo della realtà non è altro che la ‘realizzazione’ che l’uomo fa della realtà nel suo "esser così". La luce della Sapienza, nella quale la realtà brilla ed è vista nel suo "esser così", è la luce propria della realtà. La luce di questo "sole della Sapienza" è quindi, così com’è, l’intuizione nella quale l’uomo vede il suo "volto originario" (12). E la poesia che spontaneamente nasce dalla prajñâ è ciò che qui chiamiamo Poesia. In quella prajñâ la realtà di ciascuna cosa reale, così com’è, diventa l’"occasione della poesia e del divertimento spirituale", che contiene un "significato infinito".

Al terzo verso Hakuin aggiunge come jakugo il seguente passaggio di Confucio: «Nella tarda primavera, quando è già pronto l’abito estivo, andrei con cinque o sei ragazzi neo-incoronati e sei o sette fanciulli senza corone, mi purificherei nel fiume Hain, prenderei aria presso gli altari della preghiera e poi andrei a casa cantando».

La prajñâ è il Luogo in cui si origina non solo la poesia ma anche la religione, la filosofia e la moralità – il Luogo dove sono tutte forse inseparabilmente unite tra di loro poiché esso è prima di loro. Se è così, la Poesia alla quale mi riferisco è l’ambito in cui ha origine tutta la poesia composta dall’uomo e al quale essa ritorna come al proprio luogo natìo. È quasi impossibile parlare di tali aree segrete dell’esistenza umana. Qui dobbiamo contentarci a sollevare il problema.

Il racconto dell’incontro si conclude con la "grande risata" di Kyôzan, dopo che Kyôzan e Sanshô si sono chiamati ognuno con il proprio nome. Il suono di questa risata è l’essenza dell’intero colloquio. È qui che finiscono la lotta – che in realtà è un "samâdhi giocoso" – e quel "battere il tempo e cantare, suonare il tamburo e danzare". Quel che era un terreno di battaglia e poi un luogo dove si cantava all’unisono, ora è tornato ad essere il Luogo d’origine. Esso è come l’antico campo di battaglia di cui parla il poeta haiku Bashô: «Oh, erbe d’estate… / del guerriero / reliquie di sogni» (13). Gli uomini che combatterono qui, gli uomini che cantarono insieme, quelli che si trovarono faccia a faccia, sono scomparsi da molto tempo. Kyôzan e Sanshô non ci sono più. Ma la grande risata di Kyôzan risuona ancora nell’aria. Daitô Kokushi risponde con: «Dove va ciò?». Naturalmente, non vuole semplicemente informarsi; egli punta al luogo in cui Kyôzan scoppia a ridere. In questo "Campo di risata" la realtà dell’incontro tra un uomo e un altro può essere mutata, come essa è in una super-realtà. Qui, si potrebbe dire, la realtà manifesta se stessa nel suo originario aspetto di super-realtà. Tale è il senso delle parole: «L’occasione della poesia e del divertimento spirituale contengono un significato senza limiti». Di più non possiamo dire. Comprendere quel significato senza limiti è permesso solo all’"uomo che vaga nei campi e strenuamente compone poesie". La figura del poeta che si strugge nel fare poesie per trasmettere questo significato – che egli ha compreso – agli altri, suggerisce quella congiunzione di mahâprajñâ e mahâkarunâ (14) contenuta nella grande risata di Kyôzan. Questo terzo verso, insieme con il commento «Dove va ciò?», è, si potrebbe dire, l’ecce homo dello stesso Daitô Kokushi.

(Traduzione italiana di C. Saviani)





Note

(1) [Nishitani riporta nella lettura giapponese i nomi dei due maestri Ch’an (g. Zen) cinesi Yang-shan Hui-dji (g. Kyôzan Ejaku) e San-sheng Hui-jan (g. Sanshô Enen), vissuti nel IX sec.]

(2) [Nella versione tedesca Nishitani spiega: «Una questione zen (o aporia zen)». Nel Buddhismo Ch’an-Zen il kôan (cin. kung-an) è una questione paradossale che il maestro pone al discepolo, coinvolgendone l’intera esistenza nella sua aporeticità e facendogli "saltare" l’impianto rappresentativo e oggettivistico del pensiero. Sulla pratica del kôan, centrale nella scuola zen Rinzai (cin. Lin-dji), v. I. Miura - R.F. Sasaki, The Zen Koan, New York 1965, con una nutrita antologia (pp. 79-122) e, in tr. it., D.T. Suzuki, Saggi sul Buddhismo Zen, vol. 2°, Roma 1977, pp. 15-207 e Mumon, La porta senza porta, Milano 1987. Cfr., inoltre, i "detti" di Chao-Chou (g. Jôshû) in (tr. it.) Zen radicale, Roma 1979. Un singolare confronto con la paradossalità dei kôan di Chao-Chou è tentato da F. Masini nel suo Pensare il Buddha, Pordenone 1988.]

(3) [In g. Hekigan-roku; tr. ted. Bi-yän-lu, München 1960-73; tr. ing. The Blue Cliff Records, London 1977; tr. it. La raccolta della roccia blu, Roma 1978-79. Composto nel sec. XI, è tra i più famosi testi zen; raccoglie cento kôan con relativi commenti.]

(4) [Mondô è il conciso, teso e non premeditato scambio di domande e risposte tra maestro e discepolo. Spesso, come in questo caso, nella pratica zen un mondô diventa a sua volta un kôan.]

(5) [M. Buber, Ich und Du, Leipzig-Berlin 1923 (tr. it., Il principio dialogico, Milano 1958; nuova ed., Il principio dialogico e altri saggi, Cinisello Balsamo 1993.]

(6) [Hakuin Ekaku (1685-1768) fu un eminente maestro zen giapponese, oltre che raffinato pittore, scultore e calligrafo. Creò il famoso kôan «Qual’è il suono di una mano sola?».]

(7) [Cfr., in tr. it., E. Conze, I libri buddhisti della sapienza, Roma 1976, pp. 11-66, e Thich Nhat Hanh, Il diamante che recide l’illusione, Roma 1995.]

(8) [Qui Nishitani allude alle parole di Daitô Kokushi: «Esser distanti milioni di eoni e mai separati un solo istante. Insieme tutto il giorno e mai un solo attimo».]

(9) [Per il Buddhismo l’Ignoranza, o oscurità, (scr. avidyâ, g. mumyô) è la causa ultima della sofferenza (scr. dukkha, g. ku).]

(10) [Per la Dottrina della Coscienza sola (Vijñânavâda), della Scuola Yogâcâra, come un grembo, un ricettacolo o un "deposito" (scr. âlaya) è il tipo di coscienza (scr. vijñâna) più profondo, che conserva e mantiene i "semi" (scr. bija), ossia le energie e i contenuti, di tutti i fenomeni; attraverso una profonda pratica di trasformazione dei semi dell’attaccamento e del dualismo, esso è anche il luogo di ogni possibile risveglio o illuminazione. Su questo tema, vd., in tr. it., Thich Nhat Hanh, Una chiave per lo Zen, Roma 1996, pp. 69-97.]

(11) [La nozione di "esser così", "quiddità", "talità" (scr. tathatâ, g. nyojitsu) è in un certo senso il risvolto positivo della Vacuità, oltre ogni affermazione o negazione possibili.]

(12) [Uno dei più famosi kôan è «Qual era il tuo volto prima di nascere?».]

(13) [Tr. it. in M. Muccioli, La letteratura giapponese. La letteratura coreana, Milano 1969, p. 274.]

(14) [Mahâprajñâ e âe aprajñâ, grande sapienza e grande compassione, oltre ogni dualismo ed egoismo.]

dal sito: AA

http://www.ilgiardinodeipensieri.com.../saviani-4.htm

Ciao
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