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Quale amore? Quale felicità?

di Domenico Pimpinella – luglio 2007

- Capitolo 2 - Come migliorarci

Paragrafo 4 - Avere chiaro lo sviluppo su cui puntare

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Per convincerci maggiormente di qual è la predisposizione d’animo dettata dall’emotività e come poi essa cambia in seguito all’avvento della razionalità, dovremmo guardare con maggiore attenzione al mondo animale. E’ lì che possiamo prendere esempio di come opera una pura emotività, o quanto meno un’emotività non così eccessivamente influenzata dalla visione  preconcetta della razionalità.
A ben osservare, nel mondo animale non notiamo quasi mai quella belluinità intraspecifica che caratterizza invece l’uomo. Le contese sfociano quasi sempre in lotte rituali dove non si eccede in violenza. Com’è naturale la soggettività è certamente presente, proprio perché necessaria, ma non si radicalizza in egoismi, tanto meno  così conclamati come quelli umani.  Solo nell’uomo c’è il trionfo dell’egoismo. Nell’animale, come giustamente hanno messo in evidenza Maturana e Varela, sembrerebbe esserci invece una lenta, e tuttavia incessante, filogenetica, progressione verso  un trascendimento dell’attuale unità pluricellulare. Se questa tendenza potesse essere catalizzata e potenziata dalla conoscenza razionale, invece di essere bloccata e sovvertita come è accaduto finora, apriremmo un capitolo completamente nuovo nella storia dell’uomo e del mondo vivente.
Importante, dunque, sarebbe pervenire ad un’idea razionale di individualità il più possibile vicina e fedele a quella emotiva. Per questo occorre stabilire, se c’è, e qual è l’idea emotiva  che guida gli esseri viventi e, insieme ad essi, anche l’uomo.
Dovremmo cioè stabilire se è meglio seguire l’esempio degli Arapesh o quella dei Mundugumor.
Emotivamente nessuno, credo, sceglierebbe la via seguita dai Mundugumor, quasi tutti si dichiarerebbero disponibili per costruire una società come quella Arapesh, ma poi in pratica, allorché occorrerebbe valutare con la razionalità quali azioni compiere si finiscono per scegliere quasi sempre quelle azioni che portano verso la soggettività, verso l’egoismo. Un modo reale di essere molto distante da quello Arapesh.
Questo succede perché chiaramente la nostra mente razionale quando va a comporre il quadro di riferimento futuro da sovrapporre a quello attuale per derivarne le azioni, (i verbi), da mettere in atto, lo costruisce immancabilmente intorno all’Io, cominciando da esso. E finisce così per confrontare due realtà, quella vecchia e quella nuova, che non riportano una struttura sociale, se non come sfondo, come terreno di sviluppo.
Per andare consapevolmente nella direzione degli Arapesh, per migliorarci come esseri amorevoli, dovremmo invece, partire da un’entità diversa: il Noi. Ma mettere al centro un Noi, anche minimo, significherebbe non riuscire più a distinguere cosi nettamente il proprio Io dagli altri Io che gli sono a fianco. Significa saper cogliere con gli occhi della mente quanto di ancora abbozzato si trova nella coscienza emotiva. Ci vuole indubbiamente una grande fantasia!
Certo gli scienziati hanno aperto il varco, hanno fatto un piccolo buco in cui mettere l’occhio per aiutarci a migliorare la nostra fantasia, ma devono ancora fare molto. Devono allargare il buco e rendere visibile la compattazione temporale che si sta aggregando in una dimensione più grande delle tre a cui siamo abituati a muoverci.
Così quando ci si chiede su quale sviluppo puntare, bisognerebbe innanzi tutto escludere un’ulteriore sviluppo della soggettività che ci farebbe piombare in un egoismo ancora più sterile. La nostra risposta decisa deve essere la socialità! Si noi dobbiamo riuscire a puntare anche con la nostra razionalità sulla socialità autentica che è rimasta come un pezzo di carbone sotto le ceneri. La razionalità può soffiarvi sopra, può ravvivarla ed inondare di calore e di gioia le nostre attuali miserabili vite.
Occorre bloccare a tutti i costi un ulteriore sviluppo dell’egoismo! E bloccarlo significa innanzi tutto poterlo visualizzare in tutta la sua devastante aridità; senza addosso il velo pietoso di una falsa socialità che cerca di coprirlo per mantenerlo nascosto, non visibile. Ma l’egoismo non si blocca agendo isolati. Pretendere di farlo è una pazzia. Non si blocca da soli e non si blocca riversando le nostre attenzioni sugli altri, ma sui legami che dovrebbero legarci a loro. Sono questi legami che vanno coltivati, che vanno potenziati, resi tenaci.
Dopo aver compreso in quale assurda e pericolosa situazione siamo andati a ficcarci, usando in malo modo la razionalità, occorre che ci sediamo un attimo e ragioniamo con calma sul da farsi. A questo punto ogni azione diventa difficile perché non si hanno a disposizione compagni con cui tentare immediatamente nuove soluzioni.  I nuovi compagni di viaggio occorre che ce li troviamo cercando di far sorgere la nostra stessa consapevolezza nelle persone che ci stanno abitualmente vicino. Un cambiamento, una svolta si può avere solo quando un certo numero di individui, gettando la maschera che la cultura gli ha messo sul volto, riescono a smettere di essere persone irrigidite nei loro schemi e diventano plastici a possibili aperture verso l’esterno.

 

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Bibliografia

Questo saggio è un testo in fieri, l’autore offre ai lettori l’occasione di partecipare alla sua composizione e quindi al suo sviluppo. Per proporre correzioni, miglioramenti o altro, scrivere a suggerimenti@riflessioni.it verranno presi in considerazione solo scritti sostenuti da valide spiegazioni.

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