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Quale amore? Quale felicità?

di Domenico Pimpinella – luglio 2007

- Capitolo 2 - Come migliorarci

Paragrafo 3 - Arapesh e Mundugumor: lo spettro delle individualità possibili

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A questo proposito vale sicuramente la pena rovistare tra le pagine di un libro interessante per capire come l’uomo può culturalmente arrivare ad esprimersi con individualità opposte, proprio in virtù di quell’ambivalenza di fondo,  emotiva e istintiva, a cui abbiamo già accennato. La testimonianza di una studiosa come l’antropologa M. Mead a questo proposito appare quanto mai illuminante. Il libro in questione è Sesso e innamoramento. In esso si citano tre tribù dall’organizzazione sociale molto diversa: gli Arapesh, i Mundugumor e i Ciambuli del lago. Tralasciando di proposito questi ultimi, soffermiamo volutamente la nostra attenzione sui primi due che, come la stessa studiosa ci dice, sono popoli aventi in comune molte condizioni economiche e sociali, appartenenti a una stessa area culturale e separati da non più di un centinaio di miglia che offrono un contrasto etico e sociale così forte, di per sé stesso interessantissimo. Già nell’introduzione ella sostiene di essersi “imbattuta” in tre tribù nella prima delle quali uomini e donne si comportavano come noi ci aspettiamo che si comportino le donne, cioè in modo materno e sensibile; mentre nella seconda tutti si comportavano come ci aspettiamo che si comportino gli uomini, cioè in modo intenso e attivo; e nella terza gli uomini si comportavano in maniera femminile, facendo i dispettosi, portando i riccioli e andando al mercato, mentre le donne erano delle compagne energiche, disadorne  e tenevano l’atteggiamento di chi dirige.
E’ chiaro che già dal titolo del libro e da queste prime battute l’antropologa  ha voluto cogliere soprattutto le differenze tra maschi e femmine, approdando alla convinzione che nei due popoli vi sarebbe stata una cristallizzazione di caratteri femminili per gli Arapesh e maschili per i Mundugumor.
Un’indicazione interessante che se ne può ricavare è la cristallizzazione di caratteri sociali da una parte e soggettivi dall’altra, che testimonierebbero la possibilità innata di ogni essere vivente pluricellulare di caratterizzarsi a secondo dell’aspetto interno che arriva a predominare. Potrebbe essere la prova della natura fondamentalmente ambivalente dell’individualità.
Che poi le femmine siano in quasi ogni epoca e cultura caratterizzate da una maggiore socialità credo dipenda da un loro ruolo connaturato alla figura di genitrici e di madri. Sostenere, quindi,  che i maschi Arapesh siano più “femminili” di quelli Mundugumor appare più che altro una forzatura.
Procediamo, quindi, con la nostra chiave di lettura nella disamina di quanto ci riferisce la studiosa.
Parlando degli Arapesh, viene messo in evidenza come l’essenza della collaborazione, del desiderio di intessere rapporti, è finalizzata a costituire una struttura che arriva a trascendere l’individuo; sia essa la famiglia, il clan o l’intera tribù. Colpisce particolarmente che nessuno aspiri ad essere un capo:“un grande uomo” come essi stessi sottolineano. Colpisce il modo come dispongono il villaggio, il modo di collaborare in tutte le attività, la cura che essi hanno nel crescere i bambini, come essi collochino all’ultimo gradino della scala sociale l’uomo che mangia ciò che egli stesso uccide, si trattasse anche di un uccellino, di un solo boccone; con quell’uomo non vale la pena di ragionare, tanto è fuori dalle leggi della convivenza sociale.
L’idea di uno sviluppo preponderante dell’aspetto sociale, che si è andato affermando a scapito della soggettività, appare chiara e indubitabile. Nella società Arapesh, sembrerebbe essere in fase avanzata la realizzazione di un’unità autopoietica di terzo ordine, anche se sicuramente la loro struttura sociale appare più dettata dalla conoscenza emotiva, sui sentimenti, che  non da  specifici ragionamenti organizzati dalla razionalità. Il fatto, poi, che non vi sia una rilevante differenza di temperamento tra maschi e femmine ci sembra proprio indicativo di un maggiore sviluppo dell’aspetto sociale intrinseco. Questo perché la soggettività, per contro, essendo naturalmente complementare della socialità, sembra essere ridotta davvero al minimo. Cosa questa che risuona incomprensibile all’uomo “civilizzato” delle nostre società che ha pure sviluppato la propria cultura su una massimalizzazione della socialità, senza però tentare minimamente di ridurre la propria soggettività. La società Arapesh appare, dunque,  come una naturale e coerente evoluzione dell’individuo. E che sia così traspare dalla gioia che quegli individui sembrano emanare nel quotidiano pur constatando una loro carenza di piaceri. Il piacere però può non dire sostanzialmente nulla e potrebbe essere paragonato al contagiri di  un’automobile. Un fuori giri qui, uno là, una passione oggi e una domani che si concretizza, non sono indicativi di una realtà ottimale. Importante è camminare nella direzione giusta e la gioia ci indica proprio questo.
A supportare questa interpretazione vi è poi il confronto con l’organizzazione sociale dei Mundugomor, che sembra fondata su valori opposti. Una tribù dedita addirittura al cannibalismo. In questo caso il modo di costruire il villaggio, consistente in un insieme sparpagliato di abitazioni isolate e fortificate costruite nella boscaglia più intricata; l’inesistente considerazione per la famiglia ed il clan, impiegati più che altro come strumenti per  alimentare e soddisfare la crescita egoistica; la totale assenza di cura per la prole, testimoniano un  ripiegamento pressoché esclusivo su se stessi: un regresso sull’unità autopoietica di secondo ordine.
Leggendo questo libro, con un adeguato filtro concettuale, si riesce ad avere un’idea chiara di come l’individuo può teoricamente attestarsi su una precisa condizione entro uno spettro che va da una massima soggettività ad una massima socialità, e che non vi è possibilità per il singolo oscillare più di tanto intorno alla posizione raggiunta. Emerge chiara, altresì, la regola della complementarietà per cui ad un individuo molto soggettivo, da poter essere considerato a ragione egoista, risulterà  impossibile mettere in campo una socialità autentica: una socialità cioè tendente a formare con vari individui una nuova unità.
La caratteristica principale dei Mundugumor risulta infatti quella di “isolarsi” in una casa-fortezza, che è lo specchio delle loro condizioni interiori, l’attestazione di una chiusura che non permette più la comparsa di certi sentimenti. Anche in campo amoroso si assiste ad autentiche battaglie con graffi e morsi. Si fa vita comune solo per andare a caccia di teste. Per soddisfare un  comune desiderio di ricorrere a cibo umano. Tuttavia c’è sempre qualcuno che tende a sfuggire a quella che diventata la regola generale, creando anche all’interno della comunità un piccolo range tra chi è più egoista e chi lo è meno. Cosa peraltro evidenziata anche nella tribù Arapesh dove si può evidenziare una scala delle differenti socialità. Ma come sottolinea  la stessa Mead, Il più egoista degli Arapesh è ancora lontano, sebbene gli si avvicina,  dal più sociale dei Mundugumor.

L’uomo moderno, nonostante le apparenze, nonostante non si cibi più dei propri simili, sotto certi aspetti e con una casistica impressionate riesce ad essere pari o addirittura più soggettivo dei Mundugumor. L’unica differenza è che, essendo sopraggiunta una maggiore razionalità, si riesce a mascherare convenientemente qualsiasi condizione di chiusura. E così l’uomo “civilizzato” riesce ad apparire fuori anche molto diverso da come è effettivamente “dentro”.
Gli Arapesh e i Mundugumor sono invece stati osservati in uno stato naturale più “primitivo”: da qui una loro maggiore genuinità.

Tutta la diversità mostrata dalla Mead tra le due popolazioni è dovuta, molto probabilmente, alle caratteristiche ambientali che potrebbero aver favorito lo sviluppo della socialità sui territori poveri e inospitali degli Arapesh, e un maggiore egoismo nei territori ricchi dei Mundugumor. Partendo da certe condizioni iniziali, la selezione naturale avrebbe quindi operato, avvantaggiando un certo tipo di temperamento come quello più idoneo a quella specifica circostanza.
La domanda che doverosamente potremmo porci è: perché nei Mundugumor la selezione naturale avrebbe alla fine avvantaggiato i temperamenti più violenti, se la conoscenza emotiva spingerebbe per la caratterizzazione dell’individuo in senso sociale in modo da arrivare alla costituzione di un’unità autopoietica di terzo ordine?
Un tale sviluppo avrebbe dovuto risultare, in definitiva,  più facile proprio per i Mundugumor, le cui condizioni ambientali sono più favorevoli, che non per gli Arapesh. Se ne può allora derivare che non c’è alcuna spinta emotiva che premerebbe affinché gli individui autopoietici di secondo ordine formino una nuova unità di ordine superiore? Che è solo l’esigenza di rimanere unità di secondo ordine a determinare, a secondo delle convenienze, caratteri più o meno sociali? Gli Arapesh non sono forse più sociali perché una migliore organizzazione sociale permette loro una sopravvivenza altrimenti impossibile?  Di conseguenza si potrebbe ammettere che se non ci sono particolari esigenze a compattare gli uomini, questi sono spinti naturalmente, come particelle di un gas, ad allontanarsi gli uni dagli altri, proprio come i Mundugumor.
E vero! Si potrebbe anche arrivare a simili conclusioni, che spazzerebbe definitivamente via qualunque tentativo di pervenire ed affermare un progetto di massima per costruire un universo coeso, un’umanità coesa.
C’è però un “ma” che bisogna ragionevolmente  introdurre ed evidenziare.
Che Arapesh e Mundugumor, pur trovandosi ad uno stadio “primitivo” sono comunque già uomini in cui una certa visione razionale si è già affermata su quella emotiva. Possiamo così sostenere che è la visione razionale a spingere verso lo sgretolamento, verso la condizione di particelle slegate come nei gas; non la nostra intima conoscenza emotiva che invece tenderebbe ad opporsi ad una tale tendenza. E l’opposizione naturalmente risulta più efficace quanto più la condizione ambientale è proibitiva per  il singolo individuo isolato. Questa ipotesi sembrerebbe  avvalorata dalla constatazione che in ogni parte del pianeta dove le condizioni di vita sono difficili, soprattutto, quindi, a latitudini elevate, la razionalità avrebbe trovato una forte opposizione a disgregare ad oltranza il tessuto sociale costruito dalla conoscenza emotiva. Il “Nord” in ogni parte del mondo è sicuramente meglio organizzato socialmente che nel “Sud”, sia pure mediante una socialità comunque rimaneggiata dalla razionalità.
Se, al contrario, la tendenza naturale, emotiva spingerebbe all’egoismo e la razionalità alla socialità, come generalmente si crede,  poiché la razionalità è oggi uno strumento più  potente e cogente dell’emotività, dovremmo trovarci davanti una tendenza generalizzata alla socialità, sia pure non autentica, in ascesa. Dovremmo riuscire meglio a metterci d’accordo nel far funzionare la società in maniera più democratica, poiché la ragionevolezza ci dice che non giova assolutamente a nessuno aumentare la propria potenza avendo come effetto collaterale un clima di maggiore violenza generalizzata. Non giova né materialmente, né tanto meno, psicologicamente.  E questo perché evidentemente c’è una “direttiva” di fondo nella coscienza più primitiva che preme per la “fusione”, per una stabilizzazione dell’individuo in una struttura superiore.

Dal racconto della Mead esce fuori in modo chiara l’idea che è il “cuore” e non certo la ragione, a concretizzare quei legami affettivi, emotivi, che non sarebbe azzardato  definirli spirituali. Vivendo per chissà quanto tempo in territori inospitali il loro DNA li spinge naturalmente ad una intensa vita sociale, ad una forma aperta che li “costringe” a investire sugli altri, sulla fiducia,  sul dialogo, sui figli, ricavandone forza, coraggio, gioia: ingredienti senza i quali la felicità rimane una parola vuota.
E questo sarebbe dimostrato soprattutto dalla serenità, dalla generosità, dal canto, dal sorriso dei bimbi Arapesh.
All’opposto i Mundugumor hanno assunto la forma chiusa, isolata, delle loro abitazioni. La loro chiusura intransigente li costringe alla violenza e alla prevaricazione e all’assenza pressoché totale di dialogo. In loro la ricerca del piacere, dell’acquisizione di molte mogli, è sostituita a quella della gioia. Il loro mondo è chiaramente un mondo di cose e gli altri uomini lo sono al tal punto che possono essere tranquillamente mangiati.

         Nel mondo odierno, si riscontra ancora una prevalenza di maggiori caratteri soggettivi o sociali fin dalla nascita, che definiscono una precisa indole. E’ il retaggio di antiche selezioni che si sono realizzate in mondi chiusi, in popolazioni isolate, come Gli Arapesh e i Mundugunmor. In seguito, i caratteri si sono incrociati dando origine a quel rimescolamento che ritroviamo oggi nella società sempre più globalizzata. Teoricamente oggi, da noi, può nascere dovunque un Arapesch o un Mundugumor, un individuo con una certa tendenza naturale ereditata che poi potrà subire un cambiamento in seguito alla pressione culturale dell’ambiente in cui è destinato a crescere.

 

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Bibliografia

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