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Piacere
Piacere, nozione che cominciò a essere oggetto di discussione filosofica al tempo di Socrate e dei sofisti, quando si delineò un contrasto sempre più acuto e tra l'individualismo emergente e il declino della religione e dei valori tradizionali.
Socrate propose l'identificazione del piacere con la virtù (aretè), ma è impossibile stabilire il senso specifico di tale identificazione, data l'ampiezza di significato del termine arete, certo più affine alla virtus latina che non all’odierna accezione moralistica della parola “virtù”. È un fatto del resto che le scuole socratiche mostrano un'opposta valutazione del problema: da un lato i cirenaici che, con Aristippo, sostengono un totale edonismo; dall'altro i cinici che, con Antistene, giudicano il piacere un male che il saggio deve evitare. In particolare, per i cirenaici piacere e dolore costituiscono movimenti opposti e autonomi: il primo è un “movimento calmo”, il secondo un “movimento aspro” (Diogene Laerzio, II, 87-89). Il piacere è inoltre inteso come un'esperienza puntuale e transitoria che può essere colta nella sua purezza solo se non viene mischiata col ricordo, l'attesa, il rimpianto, il desiderio. Il saggio accoglie pertanto il piacere senza pregiudizio, ma bada a possederlo senza esserne posseduto, poiché ciò equivarrebbe a cadere nella passione e cioè in un movimento aspro che genera dolore. I cirenaici discussero poi del rapporto tra piacere e felicità, giungendo con Egesia a capovolgere la tesi di partenza: vero piacere è l'assenza di ogni sensazione e vero bene è la morte. Rispetto ai cirenaici e ai cinici Platone assunse una posizione intermedia. Nonostante la tendenza ascetica di numerosi dialoghi che esaltano l'anima in opposizione al corpo e respingono pertanto i piaceri sensuali (si vedano, in particolare, il Gorgia e il Fedone), nella Repubblica e nelle Leggi la funzione del piacere viene riconosciuta nella sua positività, sia perché connessa con le attività delle tre anime (concupiscibile, irascibile, razionale), sia perché all'uomo conviene una vita “mista” di intelligenza e di soddisfazione corporea. In generale però i piaceri devono essere governati dalla ragione e solo i piaceri dell'anima sono “puri”, in quanto durevoli e non frammisti al dolore (piacere e dolore, afferma Socrate nel Fedone, si oppongono e insieme si richiamano l'un l'altro, “come se fossero attaccati a un unico capo pur essendo due”).
Il tema del piacere occasionò nell'Accademia una vivace polemica alla quale parteciparono anche Eudosso e il giovane Aristotele. A tale dibattito si collega il Filebo in cui si teorizzano sia la riduzione del piacere ad armonia naturale sia il suo carattere di infinità e indeterminatezza, tesi con le quali Platone intendeva forse mediare le teorie che si contrapponevano all'interno della sua scuola. Per Aristotele il piacere non è un movimento né un dato naturale, ma ciò che si accompagna a un'attività che abbia condotto a compimento, o in atto, le sue potenzialità (Etica nicomachea, 1174b-1175a); esso è dunque un'esperienza soggettiva della perfezione oggettiva. L'aspirazione al piacere è pertanto del tutto naturale e ogni attività genera, d'altra parte, un piacere proprio. Tuttavia, come vi sono attività convenienti e buone e anche il contrario, così vi sono piaceri convenienti e buoni e altri piaceri non buoni e sconvenienti. I primi sono quelli legati alle attività teoretico-contemplative, con le quali è infatti connessa la massima felicità; i secondi invece, meno buoni e talora del tutto cattivi, sono quelli derivati dalla vita vegetativosensibile. La prima definizione del piacere in relazione al bisogno venne invece avanzata da Epicuro: il piacere “in movimento” descritto dai filosofi cirenaici non è che l'istante (quasi impercettibile) in cui un bisogno viene soddisfatto e una mancanza viene colmata (Epistola a Meneceo, 128); ma il vero piacere e la felicità autentica consistono in una condizione stabile derivante dall'assenza di ogni bisogno o desiderio del corpo o dell'anima.
La filosofia cristiana mise l'accento sulla tendenza ascetica del platonismo e del neoplatonismo, condannando, assieme al corpo, i piaceri sensuali come fonte di peccato; in particolare la morale cristiana avversò la concupiscenza sessuale ed esaltò la castità e il disprezzo di ogni interesse o voluttà corporei. Nel corso del medioevo, tuttavia, varie sette ereticali si opposero a tale rigido ascetismo, che venne poi mitigato dal prevalere, in seno alla scolastica, dell'indirizzo aristotelico. Fu però l'umanesimo, col De voluptate (1432) di Valla, a rivalutare e a esaltare il piacere come reale movente dell'azione umana, tentando, in polemica con l'ascetismo medievale, un'audace sintesi tra l'etica “epicurea” e lo spirito dell'etica cristiana delle origini. Ma il riferimento all'etica epicurea, interpretata come libera esaltazione del piacere, si impose soprattutto a partire dal naturalismo rinascimentale, ispirando il pensiero di Montaigne, Gassendi e Hobbes. In seguito il principio del piacere venne posto a fondamento di un'etica schiettamente materialistica durante l'illuminismo (La Mettrie, Helvetius, d'Holbach), e poi fu visto come il criterio ultimo e autoevidente per la fondazione di un'etica sociale dall'utilitarismo di Bentham e J.S. Mill. Nel pensiero contemporaneo il tema del piacere si presenta connesso con la teoria dell'Inconscio, già avanzata, in chiave pessimistica, da Schopenhauer e in seguito sviluppata da Nietzsche in senso vitalistico e antiplatonico.
Tale impostazione trova in seguito uno svolgimento psicoanalitico nella teoria delle pulsioni di Freud (Al di là del principio di piacere, 1920) e una più generale trattazione filosofica, anche in polemica con Freud, in Eros e civiltà (1955) di Marcuse: l'eros, finora in vario modo represso dalla civiltà occidentale, dovrebbe produrre, alleandosi con il progresso tecnologico, la liberazione sociale e individuale dell'uomo.
Fonte: Enciclopedia Garzanti di Filosofia - 1990
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