La Riflessione Indice
Quale amore? Quale felicità?
di Domenico Pimpinella – luglio 2007
- Capitolo 3 - Cosa si oppone al miglioramento
Paragrafo 5 - Formalizzazione delle trappole: religione e scienza
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L’esigenza di oggi è sicuramente quella di abbattere vecchie strutture mentali ed edificarne di nuove in modo che possano rappresentare degnamente una nuova dimora per l’Essere.
La scienza, soprattutto come l’abbiamo conosciuta nel periodo positivista, e le grandi religioni monoteiste sono delle grandi masse inerziali messe in moto dal desiderio di aggrapparsi ad esse e lasciarsi trascinare passivamente. Esse sono senza alcun dubbio la formalizzazione delle trappole della finitezza e dell’immutabilità, attuata dalla razionalità in modo da togliere ogni residua voce alla coscienza emotiva che si ribella non potendo accettare una simile conclusione.
G. Gentile, ha giustamente sostenuto che Religione e Scienza hanno compiuto una scelta dogmatica e ad essa sono rimaste fedeli, mentre la Filosofia (per quello che ne rimane) starebbe ancora cercando di compierla, attardata a comprendere chi veramente siamo. La scelta dogmatica della scienza e della religione sarebbe, allora, proprio questa visione finita e insieme immutabile che l’uomo ha ancora oggi di sé stesso.
Dell’intera individualità, del sé, è così emersa sempre più una soggettività egemone a cui non si è attribuito altro compito che stabilizzarsi ulteriormente attraverso una chiusura sempre più marcata, senza minimamente sospettare che avrebbero potuto esserci soluzioni migliori come quella di stabilizzarsi con un percorso esattamente inverso: puntando cioè alla massima apertura in modo che le individualità potendosi unire con forti legami tra loro avrebbero dato corso ad una struttura autopoietica superiore in grado di “proteggere” in maniera efficace le sue parti costituenti.
Che le cose siano andate però in maniera diversa lo attesterebbero gli obiettivi storici verso cui hanno cercato di portare l’uomo tanto la religione che la successiva scienza, la quale, possiamo ben dirlo, è certamente nata da una sua costola.
L’obiettivo storico delle varie religioni è stato innanzi tutto quello di capire come potesse conciliarsi un’evidenza così palese come il troncamento di un’esistenza dovuto alla morte, con una altrettanto evidente sensazione interna di immutabilità e immortalità. Le soluzioni di massima a cui è pervenuto il pensiero religioso le conosciamo tutti: l’essere umano non sarebbe composto solo da un corpo materiale ma da un’anima incorruttibile, eterna, che “dimora” momentaneamente in esso e che con la morte può continuare in un’esistenza ultraterrena, andando in Paradiso se è vissuto virtuosamente, senza cioè cedere eccessivamente all’egoismo o all’inferno se invece ha ceduto all’egoismo vivendo una vita dissoluta.
Variante di questo tema è poi la reincarnazione che invece di ipotizzare per l’anima una vita in un “altro mondo” diverso dalla terra, la immagina costretta a fare da substrato ad un nuovo essere, non necessariamente umano.
Occorre anche dire che le varie religioni con questa razionalizzazione, che cercava di mettere d’accordo finitezza e immutabilità, ha tentato di opporsi all’egoismo, di erigere una barriera al caos che sembrava imperversare dopo la conquista della razionalità da parte dell’uomo. Per giungere a questo risultato la religione non ha però cercato di aggrapparsi ad una conoscenza razionale diversa, ma ha tentato rivolgendosi ad una diversa conoscenza che poteva essere solo quella pre-razionale, emotiva. E l’operazione che ha compiuto è stata quella di collocare al posto dell’egoismo l’altruismo.
La religione è diventata così la propugnatrice, la paladina, dell’altruismo, pur rimanendo ferma nella visione razionale di un mondo spezzettato nei suoi enti, che non può far altro che rimanere tale. In questo modo non ha potuto divincolarsi dalla trappola della finitezza e vi è rimasta prigioniera. Così l’unico obiettivo che ha potuto proporsi è stato quello di puntare ad una trascendenza che si poteva realizzare nella continuità del singolo individuo, che dopo la morte acquisisce il suo requisito più grande: l’immortalità.
La scienza, invece, l’immutabilità ha cercato di coglierla compiutamente nell’immanenza, nella quotidianità. Coerentemente ha, quindi, cercato di cristallizzare, mummificare, l’individuo subordinando unidirezionalmente la propria “omeostasi” alla trasformabilità dell’ambiente, alla manipolazione degli altri enti per i propri fini. In questo modo ogni uomo è divenuto il potenziale centro dell’universo intorno a cui tutto deve ruotare. Non si è capito che l’immutabilità dovrebbe essere riferita all’individuo in quanto filogenesi e non ontogenesi e che assumere la centralità dell’universo significa bloccare definitivamente ogni crescita, qualunque dialogo serio. A che serve infatti dialogare quando ognuno è chiamato a rappresentare solo sé stesso e deve calarsi in una parte che sostanzialmente è antagonista alla parte di un altro?
Così la scienza in poco più di quattro secoli ha cambiato radicalmente la faccia della terra. L’ha trasformata da renderla irriconoscibile ad un antico antenato che ritornasse oggi in vita. La scienza ha costretto le rimanenti forme di vita a piegarsi alle presunte esigenze dell’uomo, alla sua finitezza, alla sua vociata immutabilità, che lo hanno trasformato in uno squallido essere vinto dalle sue tante paure.
La scienza, come si sa, non accetta queste accuse proclamando la propria estraneità e innocenza, additando la tecnologia quale vera artefice di ogni bruttura e schifezza. La scienza dice noi abbiamo puntato solo al sapere, alla conoscenza, e non ci siamo occupati di mettere in relazione il sapere con l’avidità, la voracità umana, la sua sconfinata sete di potere. E’ vero! Lo scienziato teorico difficilmente pensa alle implicazioni pratiche delle sue scoperte e oltretutto gli va riconosciuto di avere dato corso ad un linguaggio davvero efficace per dialogare: la matematica. Un linguaggio che potrebbe essere utilizzato di più anche dall’uomo comune. Nondimeno bisogna anche dire che lo scienziato teorico si è quasi sempre estraniato dal contesto accettando di buon grado di non impantanarsi nelle paludi dei “perché”, di non sporcarsi più di tanto con le vicissitudini del mondo. Lo scienziato-filosofo delle origini si è trasformato in uno scienziato puro, avallando in questo modo una rincorsa all’egoismo, anche se magari singolarmente non la condivideva.
La tecnologia è comunque figlia indiscussa della scienza: è creatura che adempie in sua vece ad un compito che lo scienziato disdegna, ma che non rifiuta. Rimanendo concentrato sul “come”, evitando accuratamente ulteriori “perché”, ha accettato dogmaticamente e incondizionatamente il “perché” della soggettività, di una individualità che si è creduta interamente collassata nella sola soggettività. E’ solo da poco più di un ventennio che lo scienziato si è deciso a prendere in seria considerazione i sentimenti, studiando scientificamente, come ammette Damasio, le emozioni.
Oggi la Scienza sembra lanciare uno sguardo alla psicologia, avvertendo l’esigenza tardiva di completare le basi su cui ha eretto la propria città. Basi in verità messe in discussione dalla Fisica che con la Meccanica quantistica si è di nuovo orientata verso la filosofia. Dal canto suo, anche la Filosofia si è rivolta alle neuroscienze e alla psicologia nella speranza di riuscire finalmente a trovare quel metodo vincente che fino ad ora le è mancato. Insomma si evince un fermento, un rimescolamento del pensiero razionale che lascia ben sperare.
Bisogna comunque sottolineare che la filosofia negli ultimi tempi ha fatto ben poco: molto poco. Si è smarrita perlopiù in tecnicismi, in diatribe e puntualizzazioni di poco conto. La filosofia ufficiale, quella cattedratica, non sa che pesci pigliare. E’ sprofondata nell’oscurità più profonda.
All’inizio del secolo scorso si era iniziato a comprendere l’importanza di attribuire al tempo un’interpretazione diversa. L’Essere oltre che spazio e materia ha cominciato a diventare egli stesso tempo, e stava cercando finalmente di abbandonare le sembianze di quell’ente impotente che si è sempre trascinato con indolenza nel tempo e ne è rimasto a lungo completamente succube. E’ stato un importante preludio all’apertura di altri significativi orizzonti, ma poi tutto si è andato acquietando. L’Essere è stato di nuovo sbattuto in soffitta da una recrudescenza dell’egoismo, che continua ad apparirci nella modalità dell’”avere”, del consumo, del potere.
Si potrebbe anche sottolineare che una riflessione importante è stata quella di Buber. Se non l’avesse vincolata alla religione, avrebbe potuto rappresentare con più forza l’errore che si stava compiendo nel trasfigurare l’intima natura dell’uomo. Tuttavia, con la sua teoria del doppio rapporto Io-tu ed Io-esso si è avvicinato più di tanti altri alla tragedia che si sta consumando, alla verità. L’errore che la mente razionale umana compie, per Buber, è quello di tradire il senso del rapporto Io-tu, riferito ad esseri animati, sostituendolo anche nel caso di un lui o di una lei, il Tu con un Esso che attesta la reificazione che la razionalità è portata a fare di tutto il Non-Io.
Nel Tu non è visto l’essere vivente che vive, che soffre, che gioisce, con il quale è necessario correlarsi, ma una sorta di oggetto che va utilizzato.
Lo stesso identico errore che anche noi cerchiamo di denunciare a lettere chiare e cubitali! Un errore che porta automaticamente ad una chiusura intransigente verso il dialogo, verso i legami interpersonali che dovremmo, al contrario, coltivare e consolidare con amore. E’ l’errore di una mente “malata” che non riesce proprio ad andare oltre la propria soggettività, che si è attaccata morbosamente alla centralità del proprio Io, e che non è capace di trovare alternativa alla crescita abnorme, smisurata di egoismo.
Un rapporto Io-tu che l’uomo, per Buber, può, quindi, realizzarsi compiutamente solo nel rapporto con Dio, ma che per noi, invece, si realizza solo se si arriva alla consapevolezza generalizzata che c’è un obiettivo comune a cui tendere: l’umanità, un nuovo soggetto unitario, che non è quel miscuglio eterogeneo di essenti che abbiamo fino ad oggi realizzato.
Sostituire Dio nel rapporto Io-Tu è solo un’altra mistificazione. Una soluzione che butta le buone intenzioni nel fuoco! Un ripiegamento necessario per chi non sa come prospettarsi una società diversa, per chi continua a contare solo su sé stesso e non trova gli stimoli necessari per riempire il vuoto esistente tra uomo e uomo. Così parlare lealmente, onestamente, a se stessi sembrerebbe l’unica opportunità che ci è rimasta. Ma non lo è!
Noi possiamo ampliare e potenziare questo dialogo interno affinché la nostra individualità assuma sembianze tentacolari nel più breve tempo possibile che ci predispongano a formare “sinapsi” con altri individui con le nostre stesse caratteristiche. Dobbiamo intuire e poi ragionare su come sarebbe possibile trasformarci nei nuovi neuroni in maniera che si riesca a creare finalmente quel “nucleo filosofico”, già immaginato da Platone, capace di porsi come guida per lo sviluppo armonico e coerente di tutta l’umanità. Un nucleo che dovrebbe essere capace di aggregare gli individui come un “seme” riesce ad aggregare ordinatamente gli atomi nei cristalli.
Un nucleo che possa agire al di fuori dalle trappole in cui si trova prigioniera la razionalità e che, quindi, non abbia possibilità di creare ancora una volta oligarchie e plutocrazie, come è accaduto in passato.
Di fronte all’idea che religione e scienza possano trattarsi di formalizzazioni della stessa doppia trappola non pochi storceranno il naso. Il senso comune vuole che la religione nasca da esigenze del tutto diverse da quelle che hanno portato alla nascita della scienza. Che la prima possa essere considerata una creatura della razionalità sembrerebbe poco verosimile. Invece le varie religioni non sono altro che razionalizzazioni di esigenze che dall’emotività prendono solo l’avvio. Le religioni sono assunti della razionalità che, a seconda dei casi, tentano di venire incontro al senso di religiosità naturale che sgorga dalla conoscenza emotiva, o anche tentano di togliere di mezzo, reinterpretandola, quel grosso e reale ostacolo alla crescita indiscriminata di egoismo rappresentato da una coscienza pre-razionale.
Il senso comune crede che la religione sia il frutto dell’emotività, dell’irrazionalità, di esigenze superiori, e che solo la scienza sia un frutto della razionalità, della voglia di affrontare il quotidiano con mezzi più idonei. Il senso comune sbaglia, come sbagliava Freud nel supporre che lasciati liberi di esprimersi gli istinti naturali avrebbero portato gli uomini al caos più totale, alla belluinità più spinta. Lo ribadiamo, anche se ancora ciò sembrerà a molti incomprensibile: non sono gli istinti che possono realizzare ciò, ma la razionalità allorché accoglie solo una parte di essi e li ingigantisce al punto da nascondere e cancellare tutti gli altri. Nelle religioni la razionalità tenta dei matrimoni impossibili, più impossibili di quelli tentati dalla stessa scienza.
Dovremmo cancellare dalla nostra cultura le attuali razionalizzazioni dovute alla religione e alla scienza? La risposta è ovviamente sì. Il che non significa cancellare la religione o la scienza, bensì solo modificarle, interpretandole diversamente.
Compiere un’operazione del genere per la scienza non dovrebbe essere difficile, basta solo portare l’osservazione sul fatto che le nostre esigenze non sono legate solo alla conservazione dell’essere autopoietico di secondo ordine ma anche e direi soprattutto alla formazione dell’essere autopietico di terzo ordine che ha bisogno di veder realizzati tipi di legami idonei a tenerci insieme senza immobilizzarci, senza “asfissiarci”.
Per la religione un’operazione di revisione è certamente più complicata.
Io sarei dell’avviso, per esempio, di utilizzare la definizione di B. Russell, Vero ateo è solo colui che non crede nel sentimento, per aprire la via ad una nuova stagione della religiosità. Sono per l’abbandono dello stereotipo del Dio onnipotente ed onnisciente che ci riserva un’attenzione particolare, direttamente o anche indirettamente attraverso l’opera di persone particolarmente devote come i santi. Quello che può succedere nella mente è per ora ancora inspiegabile perché si possa dare un senso chiaro e definitivo a certi fenomeni. Un tempo, il semplice tuono poteva essere attribuito con convinzione all’operato di una divinità; oggi però sappiamo che questi fenomeni possiamo spiegarceli benissimo in altri modi. Premonizione, guarigioni miracolose, visioni celestiali, sono fenomeni che oggi, per ignoranza, attribuiamo candidamente all’operato di qualcuno o qualcosa che ci può far piacere credere che ci sia. Non è detto però che sia davvero così.
Per il senso comune, la semplicità, anche se ingenua, è da preferire a intricate soluzioni mentali. Così sostenere che c’è una divinità immortale e che una scintilla di quella divinità è anche in noi, accomunati nella stessa immortalità, è certamente un modo per rassicurarsi di fronte al grande mistero della morte che ognuno vorrebbe allontanare da sé il più possibile, meglio ancora se definitivamente.
Vorrei però che una cosa fosse chiara: illudersi di una possibilità non significa assolutamente creare quella possibilità. Il fatto di credere o meno in un Dio, in una pura causalità come direbbe il filosofo, non significa assolutamente essere certi che dopo la morte ci sia davvero un prolungamento eterno della vita terrena. Si può obiettare però che affrontare la vita con questa credenza aiuta e aiuta tanto più quanto più ci si convince di ciò, quanto più grande è questa fede. Al che si può controbiettare: stiamo attenti! Qui corriamo il rischio non solo di non “trovare” assolutamente nulla dopo la morte, ma quello ben più grave di spegnere definitivamente anche la filogenesi se non pratichiamo una forte etica della responsabilità, se continuiamo per paura a tenere la testa sotto la sabbia come fanno gli struzzi. Le soluzioni alla nostra paura, ai timori, ci sono. Eccome! Non solo ma c’è la possibilità concreta di gioire, di trascorrere un’esistenza terrena serena e felice, appagante in tutti i sensi. Basta solo prospettarci certe soluzioni, come quella di trasformare la spiritualità naturale, non in religiosità, non in un rapporto con un essere sacro, trascendente, ma in un’adeguata socialità, in una classe di rapporti con gli altri esseri viventi, che ci permettano di modificare la nostra individualità in modo tale da renderla idonea al perseguimento della sua intima natura, al perseguimento degli obiettivi che ci farebbero tenere in buona salute tanto l’ontogenesi, quanto la filogenesi.
Non c’è giorno in cui le vicende della vita non mi fanno andare con la mente al tipo di società a cui sono approdati gli Arapesh. Una società dove, ha riportato la Mead, è raro che si sentano bambini piangere, dove l’identificazione con gli altri era così forte che non si vive solo la propria esistenza, ma quella di ogni altro membro del gruppo. In una società così è difficile non pensare che ogni problema può essere portato a soluzione. Che si può andare davvero oltre la propria individualità non solo a parole ma nei fatti. Il problema che si pone non è quello di costruire una società perfetta, un essere autopoietico di terzo ordine, tutto d’un colpo, immediatamente, ma quello di riuscire almeno ad intravedere, di riuscire a vivere gli aspetti positivi e gratificanti di una autentica socialità, che non è neanche lontanamente simile a quella che oggi ci detta la razionalità. Per ritrovare qualcosa di simile dovremmo andare molto indietro nel tempo, ritornare alla nostra animalità pura, alle costruzioni originarie dell’emotività non ancora deformate, svilite, adulterate dalla razionalità.
Non possiamo, come dice E. Morin, continuare a semplificare ulteriormente, sia che lo faccia la Religione, sia che lo faccia la scienza. Occorre, invece capire meglio la complessità, se vogliamo arrivare a delle vere soluzioni per i problemi che ci assillano.
Abbandonare l’idea del sacro strutturato antropomorficamente sarebbe già un inizio soddisfacente. Ci sono probabilmente un’infinità di cose che ancora possiamo capire e soprattutto che potrebbe capire una struttura unitaria multiindividuale che sarà in grado di perfezionarsi in futuro. Se la vita fosse rimasta alla cellula procariote oggi si conoscerebbe davvero molto poco, quasi nulla. Invece, pervenendo a strutture sempre più ampie e complesse come la cellula eucariote, l’individuo pluricellulare e poi ancora una società compatta di individui, abbiamo allargato notevolmente gli orizzonti. E che ci sia più che un indizio sulla possibilità di riuscirci lo dimostrerebbe il modo di lavorare degli scienziati che hanno saputo sviluppare il massimo del dialogo ricorrendo ad opportuni linguaggi come la matematica. In realtà, il posto dei filosofi che assolutamente non hanno saputo trovare il modo di dialogare efficacemente tra loro è stato preso, nell’idea di Platone, dagli scienziati che già oggi sono in grado di formare delle società molto sviluppate, anche se per farlo devono in qualche modo operare una divisione schizofrenica tra le loro esigenze di studiosi e quelle di comuni mortali. L’auspicio è che in futuro non sia più così e che il lavoro fatto come studiosi sia perfettamente in linea con le ambivalenti esigenze individuali.
Il problema che occorre superare è quello di capire “se” e “come” sia davvero possibile creare una struttura unitaria di terzo ordine che per le attuali conoscenze sembrerebbe improponibile. Il nucleo del problema è capire come compattarci: certamente non come è avvenuto per la cellula eucariote e nemmeno come è avvenuto per l’individuo pluricellulare. Sarà questo il tema portante del quinto capitolo, dopo che nel quarto avremo affrontato il modo per individuare il percorso da fare per costruire una individualità ideale.
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