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Quale amore? Quale felicità?

di Domenico Pimpinella – luglio 2007

- Capitolo 6 - Cosa possiamo  fare individualmente e politicamente

Paragrafo 1 - Riepilogo

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Prima di affrontare il problema finale di cosa fare per passare dall’attuale condizione a quella che abbiamo ipotizzato come ideale, facciamo un breve riepilogo che ci metta nella condizione di sferrare, per così dire, l’attacco finale.
Nel primo capitolo abbiamo cercato di mettere in evidenza un comune destino egoistico che, al di là delle infinite modalità con cui si presenta, costringe sostanzialmente ogni singolo individuo a dirigersi verso l’abisso della chiusura più ottusa e intransigente, anche se quasi sempre mascherata opportunamente da facciate altruistiche che potrebbero far pensare ad una grande socialità.
Nel secondo si è cercato di contrapporre a questo destino uno migliore, individuato nella possibilità insita nella natura di qualsivoglia essere vivente di riuscire ad essere ambivalente: di poter realizzare, cioè, una sorta di doppia identità avente come obiettivo una soggettività finalizzata alla costruzione di un’unità esistenziale superiore, a cui possiamo dare il nome di società.
Con il terzo capitolo, abbiamo cercato di comprendere perché mentre si è realizzato il primo destino, per il secondo sembrano esserci poche probabilità di realizzarlo. Si è allora analizzato i sostanziali motivi che si opporrebbero ad un eventuale cambiamento.
Nel quarto abbiamo messo a confronto l’attuale condizione reale con quella che abbiamo ritenuta ideale, al fine di riuscire ad individuare le strategie da mettere in atto per  ritornare su una strada che ci consentirebbe, contrariamente a quanto accade oggi,  di amare sul serio, di gioire ed avvicinarci così notevolmente alla felicità.
Nel quinto, infine, abbiamo cercato di considerare le modalità conoscitive che si sono susseguite nel corso del nostro sviluppo filogenetico, per sostenere l’assurdità di  rimanere ancorati alla sola lotta della sopravvivenza: a quella che crediamo una “stabilizzazione” ottimale, ottenuta cristallizzando le possibilità acquisite senza tener conto di ulteriori sviluppi verso una diversa e più ampia unità autopoietica.

Prima di immergerci in una analisi che ci dica come agire praticamente per riuscire a pervenire ad un comportamento capace di tener conto delle intuizioni e dei ragionamenti fin qui avanzati, ricapitoliamo brevemente altri punti salienti che dovremmo sempre cercare di tenere bene in evidenza.
Uno di questo è, innanzi tutto, una possibilità conoscitiva che abbiamo sostanzialmente reso schizofrenica, come tra l’altro ha riconosciuto Ramachandran, che ci porta a “dividerci” tra quelle che sono le ragioni sociali di fondo,  sostanzialmente perorate dall’emotività e quelle egoistiche che vedono, invece, la razionalità in prima fila. Razionalità che grazie alla enorme potenza di cui è capace, riesce a comporre scenari futuristici centrati quasi esclusivamente sulla soggettività: ovvero sulla centralità del singolo.
Così la responsabilità di costruire nuove strutture autenticamente sociali da parte dell’uomo rimane quasi esclusivamente prerogativa di una emotività le cui direttive vengono sistematicamente interpretate ed utilizzate dalla razionalità per raggiungere obiettivi, addirittura opposti a quelli che essa desidererebbe realizzare.
Di questo hanno parlato magnificamente ed esaustivamente autori che abbiamo citato, come Ciaravolo e Dawkins. Gli altri animali, gli altri essere autopoietici di secondo ordine, rimarrebbero invece, secondo quanto sostenuto da autori come Maturana e Varela  o Morin, a sperimentare l’opportunità di realizzare individui autopoietici di ordine superiore.
A noi uomini, quindi, mancherebbe oggi soprattutto la consapevolezza, la chiarezza necessaria, per riuscire ad utilizzare le enormi potenzialità che abbiamo acquisito per cercare di centrare quell’obiettivo che sarebbe l’unico che ci farebbe davvero sentire realizzati. Con l’enorme diffidenza che ognuno di noi ha accumulato in secoli di storia scellerata, è diventato onestamente difficile riuscire a ritrovare, anche razionalmente, quel dialogo emotivo, empatico, che è stato contemporaneamente causa ed effetto della nostra maestosa evoluzione.
Continuando per questa strada possiamo continuare solamente a rendere sempre più ermetica una chiusura operativa che, seppure ci è riuscito fino ad oggi di mascherare, di mitigare con camuffamenti vari,  potrebbe non riuscire in futuro a reggere a quelle che sono le esigenze di fondo della vita, facendoci collassate collettivamente in una immane tragedia.
L’errata interpretazione dell’”idea istintiva” di rimanere in equilibrio dinamico tra una soggettività che avremmo dovuto cercare di ridurre sperimentalmente quasi ai minimi termini ed una socialità  che invece avremmo dovuto potenziare fino al punto da permetterci di diventare filogeneticamente altro, dovrebbe essere assolutamente corretta. Dobbiamo ora diventare capaci di invertire la cronica tendenza a ridurre la socialità autentica con corrispettivo aumento della soggettività attraverso un utilizzo completamente diverso della razionalità.
La razionalità rimane uno strumento, una metodica, che non possiamo non continuare ad utilizzare, perché oramai il nostro cervello è diventato quello che è, purché diventiamo capaci di utilizzarlo nella giusta maniera.
Per disporre di un’altra spiegazione che ci permetta di comprendere meglio perché sarebbe possibile utilizzare diversamente al razionalità ricorriamo al linguaggio metaforico utilizzato dal logico e matematico Piergiorgio Odifreddi.
Egli sostiene che la razionalità servirebbe a correggere “micrometricamente” le situazioni, alla stessa maniera, per esempio, in cui nell’allunaggio del LEM si rese necessaria una correzione “manuale” effettuata da Armstrong, dopo che quella programmata in automatico stava portando la navetta a schiantarsi contro delle rocce.
Una metafora che in qualche modo ci riporta al già visto “pilota automatico” del sommergibile, facendogli compiere un significativo passo avanti. Ed implicitamente sembra sostenere la tesi del pilota del pilota che poi sembrerebbe la stessa del “secondo cervello” che utilizza i risultati del “primo”. In realtà la razionalità non sembrerebbe in grado di fare solo questo, non è solo uno strumento aggiuntivo in grado di intervenire più finemente sugli errori dei “programmi automatici” che abitualmente ci “guidano” e che sono stati messi a punto da un’esperienza plurimillenaria tramite cui la conoscenza emotività ha potuto correggere di volta in volta il tiro, arrivando a centrare in pieno i suoi obiettivi. Ma, come abbiamo sostenuto nel capitolo precedente, sembrerebbe piuttosto essere una possibilità conoscitiva che ci consente di muoverci con una certa padronanza in una dimensione “allargata” al tempo. L’utilità di riuscirvi servirebbe non tanto per risolvere problemi inerenti la soggettività, la perfettibilità dell’individuo di secondo ordine, ma proprio per superare i limiti dell’emotività nella costruzione di una società che deve potersi sviluppare in una dimensione che non può essere quella abituale della tridimensionalità. Rimanendo in questa dimensione limitata ci possiamo solo illudere di costruire delle società; in effetti riusciamo solo a mettere degli individui uno vicino all’altro. E tra questo tipo di società e l’altra che auspichiamo c’è la stessa differenza che passa tra un miscuglio ed un composto.

Nella realizzazione di una socialità autentica e, quindi, di un’autentica società subentrano problematiche nuove su cui ci dobbiamo concentrare lavorando insieme.  Ricordando quanto sostenuto da Heidegger, possiamo servirci di un esempio, da lui utilizzato,  per illustrare come entra in gioco la consapevolezza allorché ci si presenta un problema non risolvibile dagli automatismi conoscitivi messi in atto nel subconscio. Quanto giriamo la maniglia, convinti che la porta si debba aprire perché così è sempre avvenuto in precedenza, - egli sostiene -  ed essa resiste alla nostra azione, ecco che allora la nostra attenzione si focalizza sul problema insorto per risolverlo. Utilizziamo allora la razionalità,  il ragionamento, per capire cosa possa essere successo e in che modo farvi fronte.

         Nello sviluppo di una qualsiasi società ci troviamo quasi costantemente a contatto con situazioni problematiche che non possono essere state risolte in precedenza, ma neppure prese in considerazione. La conoscenza emotiva non permette di andare oltre certe possibilità. Allora occorre rivolgersi alla razionalità, al ragionamento consapevole per risolvere quei problemi di convivenza che fino ad un certo punto sono stati solo problemi di contiguità e non di compenetrabilità.
La contiguità si realizza in una dimensione limitata al solo spazio, la compenetrabilità, invece, ha necessità di essere realizzata in uno spazio più ampio dove sarebbe possibile unire insieme, saldare,  degli elementi tridimensionali  senza che perdano la loro libertà in quanto individui puramente soggettivi. E’ un problema nuovo che va affrontato con mezzi nuovi!
La mancanza di esperienza adeguata deve essere sostituita con la possibilità di “simulare” una tale eventualità, per scongiurare il pericolo di andare a saldare tra loro due individui soggettivi ed in sostanza formarne uno solo dello stesso ordine.
E’ l’errore in cui siamo incappati più frequentemente: cercare di legare a noi qualcun altro, come si realizzerebbe un’aggiunta di cellule subordinate. L’obiettivo, invece, dovrebbe essere quello di far lavorare insieme, per un unico scopo, cervelli, menti, che posseggono esperienze diverse e che proprio per questo possono diventare complementari: possono, cioè, andare oltre,  trascendere l’isolamento in cui ci ritroviamo  come individui.
La mente razionale sembrerebbe attrezzata proprio per risolvere questo problema, per darci la possibilità attraverso un linguaggio evoluto di rappresentarci collettivamente una situazione futura verso cui trasportarci, permettendoci di  realizzare, ognuno per proprio conto, quelle azioni opportune che dovrebbero agire in sincronia.
Con l’utilizzo di una logica corretta, “rubata” alla modalità di costruzione delle “idee” più piccole, elementari, è possibile configurarsi tutte le probabili situazioni future, allo stesso modo usato dal sistema immunitario per costruirsi a priori tutti i possibili anticorpi per ogni probabile antigene.
La mente razionale allenandosi nell’osservazione e nella scoperta della Logica che sta dietro la “composizione” attuata empiricamente dai vari gruppi di neuroni può teoricamente, oggi ancor meglio con l’ausilio di supporti elettronici, ricreare qualsiasi condizione futura per andare poi a scegliere quella che si accorderebbe meglio con le istanze e le aspettative della conoscenza emotiva.
Il problema è stabilire in anticipo se il miglioramento deve essere riferito all’essere autopoietico di secondo ordine o a quello di terzo. In quest’ultimo caso è evidente che occorre “vedere” la società, anche se non ancora completamente definita, di cui si sta cercando con i mezzi emotivi di far parte integrante. Occorre potersi concepire almeno come un abbozzo di una realtà superiore, sia essa la famiglia, il clan, ecc., per riferire ad essa i cambiamenti auspicabili. Continuare a interpretarsi, “vedersi” solamente come un singolo individuo significa concepire il cambiamento rispetto ad un ambiente di cui fanno parte come elementi indistinti e modificabili tanto le cose che gli altri esseri viventi, anche quelli con cui desidereremmo legarci affettivamente.
E’ questo il solo modo in cui ci si può addentrare in una trasformazione consapevole del proprio grado di socialità. Traslare infatti una società, anche se ristretta magari a due sole persone, da una condizione ad un’altra ritenuta migliore presuppone che tutto il sistema trasli, senza che si creino tra i suoi componenti pericolose e dolorose tensioni. Una possibilità che appare estremamente difficile da realizzare solo perché un dialogo efficace che realizzi dei sincronismi perfetti, degli spostamenti solidali di tutti i membri, in realtà non si è ancora realizzato. Un tale dialogo può essere tirato fuori come capacità razionale solo attraverso una pratica continua ed incessante. Pratica che oggi non può esserci perché, appunto, ognuno è portato a pensare a modificare il proprio stato soggettivo, magari in maniera relativa, attraverso opportune modifiche dell’ambiente esterno, che può essere attuato solo se si posseggono le necessarie energie per vincere le resistenze, soprattutto di quegli altri che sono impegnati nella stessa azione. E’ questo un punto discusso e messo in evidenza da Krishnamurti, a cui bisogna evidentemente riconoscere il merito di essere stato molto chiaro.
Per fare ancora più chiarezza occorre possedere anche la consapevolezza che tutto ciò può essere compiuto solo grazie ad una conoscenza, come quella razionale, che possiede la logica necessaria per costruire nuove configurazioni, evitando quelle che non hanno alcuna possibilità di realizzarsi. Altrimenti, il caos che verrebbe a crearsi comprometterebbe, come in effetti compromette, tutto. In questo caso la logica può essere applicata facilmente avendo ben evidente che gli altri membri della società sono anch’essi esseri viventi che aspirano a compattare maggiormente l’unità che verrebbe a formarsi. I margini di errore devono essere i minimi possibili. Occorre intendersi alla perfezione alla stessa maniera di come i vari muscoli del corpo sono coordinati per farne uscire dei movimenti armoniosi e fruttuosi. Se ognuno va per conto proprio  evidentemente non si può andare insieme da nessuna parte, non si crea alcuna unità e soprattutto si creano quelle forze centripete che fanno esplodere il sistema, tenuto insieme da deboli forze emotive.
Naturalmente bisogna ancora tener conto che non può esistere per la nostra conoscenza quest’unico obiettivo. Ogni comunità, ogni società organica non può che essere fatta di individui, per cui un minimo di attenzione alle esigenze di come rimanere singoli esseri deve pur sempre essere presente. Ma questo non vuole assolutamente dire che si è costretti ad essere egoisti, ma solo che si è costretti a salvaguardare una certa soggettività: quella coesione cellulare che riesce a mantenersi solo se gli vengono assicurate determinate condizioni. Se il singolo individui si sfalda non si può, evidentemente,  procedere al suo trascendimento.
Se la razionalità non si fa paladina della doppia realizzazione necessaria, ma rimane a salvaguardare solo l’aspetto soggettivo pur con un’emotività impegnata anche sul fronte della socialità, tutte le speranze di migliorarci, di perfezionarci, sono destinate a rimanere pure illusioni.
Per questo si è insistito nel presentare la conoscenza razionale come una possibilità indispensabile, ineludibile, di cui non si può fare assolutamente a meno per diventare qualcosa di assolutamente nuovo: la sola speranza che abbiamo di superare i vecchi schemi.
Oramai la razionalità umana ha raggiunto la maturità necessaria. Non l’ha evidentemente raggiunta in tutti i suoi individui e forse si potrebbe anche sostenere senza timore di smentite che l’ha raggiunta per pochi di loro. Ma averla raggiunta e poterla mostrare come una possibilità concreta, evidente, lampante ci consente di innescare quel meccanismo conoscitivo importante noto come “Imitazione”.
Le cincie in Inghilterra non sono arrivate tutte insieme a scoprire che si poteva bucare il tappo di stagnola delle bottiglie di latte per procurarsi un facile pasto; neppure tutti insieme i macachi del Giappone hanno scoperto come lavare le patate dalla sabbia immergendole nell’acqua del mare; è però bastato che pochi o anche un solo individuo se ne rendesse capace che subito tutta la comunità ha imparato a farlo per imitazione. Le buone scoperte diventano presto patrimonio di tutti. Se tutti cominceranno ad utilizzare la razionalità per accrescere il proprio aspetto sociale e fondare così, senza costrizione, ma anzi piacevolmente e con gioia, delle società capaci di stabilizzarci al meglio, vorrà dire che l’ambivalenza potrà essere fatta rientrare nel novero delle buone scoperte.
Ovviamente, non pensiamo che tutto possa risolversi in modo così semplicistico, che l’umanità autentica, a qualunque livello la si intenda, possa uscire fuori solo per imitazione. L’imitazione appartiene ad una tipologia conoscitiva antecedente quella razionale e può, quindi, solo fare eventualmente da innesco ad un cambiamento di rotta diffuso. L’entrata in gioco della razionalità non può essere messa in discussione ma difficilmente accadrà che tutti insieme possiamo autoistruirci al suo uso per una corretta interpretazione e realizzazione dell’individualità.
Le punte avanzate di qualunque sistema devono poter trainare il cambiamento. L’hanno fatto, ad esempio,  i neuroni senza che pretendessero per sé stessi privilegi di sorta. Per fondare una comunità efficiente e unitaria è basilare che i suoi componenti trovino nella realizzazione della comunità stessa quelle gratificazioni che altrimenti resterebbero puro anelito.

 

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Bibliografia

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