La Riflessione Indice
Problematiche di psicobiologia
di Marco Calzoli - Maggio 2020
I nostri comportamenti dipendono sia da fattori coscienti sia da fattori non consapevoli. La nostra mente può influenzare inconsciamente il nostro corpo mediante il nervo vago. Esso trae il suo nome dal fatto che “vaga” per tutto il corpo, cioè innerva tutti gli organi, sia in senso sensitivo sia in senso motorio. Dato che sta da per tutto, è la base della psicosomatica. La nostra mente influenza il corpo attraverso di esso.
Anche il corpo influenza la mente in quanto essa è il prodotto del cervello, che sente gli stimoli corporei. Una volta si parlava solo di “muscolare”, invece oggi ci si è accorti che il muscolo da solo fa ben poco, si parla quindi di “miofasciale”, cioè muscolo + fascia (l’insieme dei tendini e del tessuto connettivo). Tutto un filone di studi dimostra come il rilascio miofasciale serva a:
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Percepire più risorse nelle situazioni non prevedibili;
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Migliorare il funzionamento del Salience Network;
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Aiutare l’insula nel creare nuove e migliori immagini corporee;
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Facilitare il rilascio e la rielaborazione dei vissuti emotivi.
La nostra persona funziona in entrambi i sensi: è una entità complessa. Pensiamo al dolore. Il dolore non è solo una sensazione corporea, ma anche mediata dalla mente. Quando facciamo un incidente d’auto, il dolore fisico immediato può essere inibito temporaneamente dalla preoccupazione di salvarci la vita: dopo che siamo usciti dall’auto incendiata avvertiamo il dolore alla spalla. Ma anche l’attaccamento può farci fare previsioni oltre il dolore fisico: è il caso del genitore che non pensa alla propria incolumità fisica e si espone al pericolo per salvare il figlio.
Il comportamento in genere è un arco riflesso, cioè vive della dinamica stimolo/risposta. Sentiamo la puntura dell’ape e il sistema nervoso reagisce con un movimento: spostiamo il braccio. Abbiamo sempre uno scopo. Il problema nasce quando non vogliamo finire lo scopo. Quando litighiamo con il collega sull’ultimo pezzo di torta da mangiare in ufficio dopo la festicciola, quando ritorniamo a casa il risentimento deve finire, in quanto lo scopo è terminato. Se non accade, iniziamo il rimugino, che corrisponde al fatto che non abbiamo considerato concluso lo scopo della nostra azione. Se il comportamento è un arco riflesso, lo possiamo migliorare partendo dall’errore. L’errore ci dice che c’è un altro stimolo, quindi mediante la plasticità cerebrale siamo in grado di migliorare la risposta. Il chirurgo sa che non deve starnutire mentre ha il bisturi in mano: la previsione del danno fa controllare dalla corteccia prefrontale i muscoli dello starnuto inibendoli.
Il cortisone endogeno, quello non assunto per placare l’infiammazione, ma prodotto dal nostro organismo, si converte in cortisolo e aiuta a placare l’infiammazione cronica causata dallo stress. Il problema sorge quando il fattore stressante è talmente forte che esauriamo tutto il cortisone e non ne abbiamo più per aiutare il nostro sistema immunitario. Un tipico aspetto dello stress subentra quando non terminiamo lo scopo di un nostro comportamento.
Molti studi ormai classici dimostrano il collegamento tra stress e infiammazione. Non solo, ma anche tra infiammazione e depressione. Molti pazienti depressi resistenti alla terapia farmacologica e alla psicoterapia traggono beneficio se trattati con antiinfiammatori. Di più, si ipotizza che l’infiammazione cronica stia alla base o comunque compaia in tutte le malattie fisiche e mentali, oltre che nelle alterazioni della memoria.
Se noi abbiamo una infiammazione diffusa, il nostro organismo non comunica correttamente bidirezionalmente: dal basso all’alto e dall’alto al basso. Un dolore locale (infiammazione locale) come il mal di denti ci fa stare male perché manda segnali al sistema limbico per darci sensazioni di malessere generale. Non solo, ma tutto l’organismo è impegnato per risolvere quel dolore, quindi abbiamo tutta una serie di micro-dolori e fastidi segno del fatto che il nostro corpo sfrutta le proprie energie per risolvere il mal di denti. Nella persona obesa la leptina non supera la barriera ematoencefalica per dirci di smettere di mangiare. Mal di denti e obesità sono esempi per dire che nell’infiammazione c’è una comunicazione mancante o non corretta nel nostro organismo.
Una volta prevalevano nella vita dell’uomo le infiammazioni acute (un batterio o un virus che procurava una malattia specifica). Invece oggi prevale un nuovo tipo di infiammazione, detta cronica, che ha un inizio ma tende a non avere una fine perché non andiamo a togliere gli agenti patogeni che la hanno procurata. Un processo infiammatorio può evolversi e scatenarsi improvvisamente in un processo patogeno acuto, come infarto, ictus, diabete.
Nell’infiammazione acuta le cellule distruggono i patogeni e poi riparano. Pensiamo a una ferita: c’è la fase della emostasi, quella della infiammazione cui segue quella della rigenerazione. Nelle ferite non infette, in cui vi è scarsa perdita di sostanza, la riparazione e la cicatrizzazione è più facile. In quelle con infezione in corso non avviene la cicatrizzazione, bisogna aspettare che termini il processo infettivo, poi l’infiammazione sarà elevata, quindi nella fase successiva per compensare l’ingente perdita di sostanza ci sarà granulazione (quando la ferita diventa di color rosso vivo per la ricostituzione dei vasi sanguigni), fase che precede la formazione della nuova pelle.
Nell’infiammazione cronica c’è un processo continuo di distruzione e riparazione, come se ci fosse un terremoto e una ricostruzione continui. Avviene pertanto un dispendio energetico continuo, inutile e dannoso.
Questi agenti patogeni sono quelli stressanti (lavoro che non ci piace, litigi in famiglia), le droghe, gioco d’azzardo, traumi sia fisici sia mentali, anche lievi, mancanza di attività fisica, alimentazione (determinati alimenti assunti in continuazione), sbalzi termici, posture sbagliate.
Non esistono decisioni completamente razionali. Noi di solito prendiamo una decisione emotiva e poi passiamo il tempo a pensarci razionalmente. È stato osservato dagli psicologi che se noi cambiamo la percezione, cambiamo decisione. Se ci danno il nostro piatto preferito ma frullato (cosa che cambia la percezione dello stesso), spesso non ci piace. Questo significa che noi decidiamo tutto non sulla base di motivazioni consapevoli, ma inconsce, legate a valutazioni emotive. Una interessantissima ricerca di Harvard presentava a un tot di studenti un professore con una tazza di the caldo in mano e ad un altro tot di studenti lo stesso professore ma con la coca cola in mano. È risultato che il professore con il bicchiere freddo (coca cola) era stato valutato incompetente. Oppure è stato scoperto che chi mangia cibi amari è più soddisfatto nella vita: lo zucchero fa diminuire i comportamenti esplorativi, quindi chi mangia meno zucchero si interessa di più al mondo e ne risulta più soddisfatto.
Ma sono importanti anche le aspettative. Neurologicamente la previsione è più intensa della realtà. Su ciò si basa l’ipnosi: la suggestione è una aspettativa che fa venire sonno. Nel caso che stiamo male in pubblico, l’aspettativa è un fattore enorme che ci fa stare in ansia. Esiste una tecnica psicologica del cognitivismo per la quale, concentrando la nostra attenzione sul corpo, per esempio portando una fasciatura stretta al polso o un elastico, ci concentriamo su questa sensazione e la nostra aspettativa negativa viene meno, quindi stiamo meglio in pubblico rispetto a prima. In questa tecnica riprocessiamo la nostra neurobiologia in quanto l’insula, che è l’area del cervello che crea integrazione corporea, è impiegata riguardo la sensazione corporea, quindi prende il sopravvento sulle aree della aspettativa negativa.
Noi abbiamo nella mente degli schemi che guidano i nostri pensieri e le nostre azioni. Essi sono ricorrenti, quindi pensiamo spesso alla stessa maniera. Essi possono essere utili ma anche svantaggiosi se sono disfunzionali. L’aspettativa è un tipico schema. Per sabotare una aspettativa negativa è necessario pensare a come ci comporteremmo nella situazione che ci crea ansia ma al contrario. Questo permette di rendersi conto di quanti elementi accessori inseriamo nelle nostre modalità di pensiero e di comportamento senza che siano necessarie e che spesso creano disfunzione.
L’uomo lavora in maniera integrata. La teoria dei Tre Cervelli è stata superata da Mac Lean: in ogni nostra attività mentale c’è interconnessione di corteccia, sistema limbico e complesso R. non è vero che la prima è solo razionale, il secondo solo emotivo e il terzo solo istintuale. Oggi questa visione integrazionista, proposta già da Mac Lean, è quella principale nel panorama attuale delle neuroscienze.
Anche il corpo funziona bene se la mente è predisposta bene. Se due topi fanno la rotella per un certo periodo, gli indicatori ematici migliorano. Ma se un topo è spinto controvoglia, gli indicatori peggiorano. Quindi fare qualsiasi attività fisica, dal lavoro alla ginnastica, senza che lo vogliamo veramente, fa male al nostro corpo.
La plasticità è la capacità del cervello di creare nuove sinapsi. Il neonato ne fa di nuove 200.000 al minuto. Dopo poco tempo avviene il processo di pruning, cioè la potatura di molte di esse. L’adolescente ne fa ancora molte, assieme a potature. L’adolescente che soffre ha una attività superiore della plasticità. Il suo cervello è talmente devastato che ha scansioni cerebrali simili a quelle degli anziani che hanno il morbo di Alzheimer. Con il crescere le sinapsi nuove sono sempre di meno, anche se c’è sempre la plasticità, come quando impariamo una nuova lingua.
Esistono tre tipi di plasticità. C’è innanzitutto quella mitocondriale. I mitocondri nascono da antichi batteri che entrarono nelle cellule. Le persone stressate hanno meno mitocondri perché la nostra sofferenza passa attraverso l’ossigenazione, fatta dai mitocondri, la quale risente delle condizioni psicologiche e fisiche avverse.
Se abbiamo paura, le reazioni vegetative simpatiche ci fanno aumentare la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa(1), quindi aumenta la richiesta di ossigeno e iniziamo a respirare di più. Questo stato è associato, per vie sottocorticale, ad avere pensieri negativi, che ci predispongono all’attacco o alla fuga, come l’attivazione del tono simpatico. Lo stesso discorso vale anche al contrario: se ho pensieri negativi, questi si riflettono sulla ossigenazione, in definitiva sui mitocondri, che ne vengono inficiati. C’è un famoso test fatto dai ricercatori per capire il corpo dell’ansioso: respirare da una cannuccia per poi cambiarla in una più piccola e così di seguito. Facendo questo, per via del respiro corto indotto dalla cannuccia sempre più piccola e simile a quello dell’ansioso, ci aumenta il battito del cuore ma ci vengono anche pensieri negativi, pur sapendo che possiamo smettere quando vogliamo(2). I pensieri negativi a livello neurali vanno velocissimi, quindi è molto facile essere invasi da essi perdendo il senso della realtà.
Nel trauma tendiamo a bloccare il respiro. Perché noi abbiamo una memoria centrale che ci dice che, se interrompiamo la respirazione, tendiamo a immagazzinare di meno l’evento traumatico. Avviene anche nel trauma psicologico. Il traumatizzato psicologico ha una memoria disfunzionale, riconducibile a questo meccanismo ancestrale. In psicoanalisi si parla di incapsulamento: il ricordo è solo una immagine senza collegamenti emotivi. È un fenomeno studiato psicologicamente da Green. Egli osserva che in analisi spesso i pazienti traumatizzati hanno memorie non vissute, cioè scollegate dalle emozioni. Solo dopo, mediante i collegamenti fatti nell’analisi, questi pazienti rivivono il dramma collegandolo emotivamente e emerge la disperazione in tutta la sua forza(3).
La plasticità più conosciuta è quella tra neuroni, che forma nuove sinapsi, come quella del neonato, che per crescere deve fare esperienza di tutto e tutta questa esperienza si immagazzina mediante nuove sinapsi. Per questo se abbiamo stimoli nuovi abbiamo più plasticità. Se c’è un grosso trauma, per guarirlo bisogna fare nuove sinapsi, altrimenti si ripropongono gli stessi schemi neurali disfunzionali.
Secondo teorie recenti, la giusta interazione tra madre e neonato permette lo sviluppo per via plastica della corteccia orbicolare prefrontale, quell’area cerebrale che consente all’adulto di regolare gli stati interiori. Non solo, ma sembra che il giusto attaccamento con la madre sia funzionale alla formazione per via plastica del cervello di destra, l’area chiave di tutto lo sviluppo psicologico del neonato.
Oggi si pone molta enfasi sulla plasticità sinaptica nello sviluppo, ma gli scienziati dimostrano che il cervello umano nasce già predisposto biologicamente a compiti superiori con dotazioni neuronali molto specifiche e sofisticate: gli infanti posseggono una sorta di “fisica intuitiva” (solidità e impenetrabilità degli oggetti, il loro essere supporto ad altri oggetti, il fatto che si muovono se colpiti, concetti molto evoluti sul numero, cognizione geometrica dello spazio, nozioni specifiche sugli oggetti animati, e così via) che rende molto facile l’apprendimento dall’esperienza che si situa nel cervello per via plastica.
Alla nascita il cervello non è ancora formato: è solo un quarto di quello che sarà da adulto. Il cervello continuerà a maturare per molti anni (solo verso i venti anni le cellule gliali saranno abbastanza predisposte per consentire un pensiero efficace). Fino ai sei mesi il cervello matura a ritmo fetale, come se il neonato fosse ancora un feto. Ma nell’uomo la maturazione non è solo biologica ma anche esperienziale mediante la plasticità. Le funzioni superiori non si acquisiscono per semplice via biologica, è necessaria la creazione di nuove sinapsi lungo tutto un processo di apprendimento. Anzi è stato ipotizzato che il feto che continua a crescere fuori dal grembo materno sia un espediente dell’evoluzione per consentire il significativo sviluppo sinaptico in un momento in cui il cervello è particolarmente rispondente agli stimoli.
Teorie come quelle di Winnicott e di Mahler hanno come assunto che all’inizio il neonato vive una fase fusionale con la madre nella quale non distingue tra Sé e madre. Solo in seguito, attraverso il gioco con l’altro, secondo Stern, il bambino impara a concepirsi oggettivamente come qualcosa di separato e individuale. Per cui l’altro diviene, per il bambino, “regolatore del Sé”. Siamo nel periodo dopo il primo anno di vita. Tuttavia gli studiosi ritengono che nei primi due mesi l’esperienza di attaccamento con la madre ponga le basi dello sviluppo relazionale successivo, i cui inizi compaiono già dopo i due mesi, con gesti presociali come lo sguardo indirizzato agli occhi e il sorriso, assieme a cambiamenti di grande rilievo nell’elettroencefalogramma e alla stabilizzazione del quadro ormonale diurno. Nel neonato prematuro l’elettroencefalogramma presenta discontinuità dell’attività elettrica. Nel neonato a termine vi è continuità in tutti gli stati. Nelle 44 settimane (età concezionale), nelle quali vi è il termine dell’epoca neonatale, in sonno calmo si registra che il pattern alternante (presente nelle settimane precedenti) evolve progressivamente verso un pattern lento continuo con iniziale comparsa degli spindles.
La nostra funzionalità corporea e psicologica è un tutto unico. È vero che nel trauma ci si sveglia la notte o la mattina presto per via dell’incubo e non ci si riaddormenta. L’ansioso si sveglia presto la mattina. Ma queste disfunzioni sono collegate ai ritmi circadiani. La medicina cinese da millenni dice che ogni organo ha il suo orologio. Le neuroscienze hanno trovato i correlati neurali di questi meccanismi. Noi abbiamo molti orologi biologici, ma tutti sono sovra-regolati dal nucleo soprachiasmatico, che è influenzato dalla luce. Se la persona traumatizzata o ansiosa impara ad andare a letto ad un orario preciso e non si alza la notte, per via della plasticità regolarizza i propri ritmi e le disfunzionalità del trauma e dell’ansia migliorano.
Bromberg sostiene che la sanità mentale non sta nell’uno ma sta tra gli spazi, è l’uno in molti. Sta nella relazione. E noi ci relazioniamo tramite il corpo: la comunicazione corporea, quella non verbale, è preponderante in ogni tipo di comunicazione. E la comunicazione è relazione. Il trauma è qualcosa di devastante perché è una ferita del corpo, riguarda la memoria del corpo, come osservato da Freud agli inizi e da Janet, quindi il trauma lede il nucleo centrale della nostra sanità mentale, la relazione. La relazione è un comportamento evoluto che dipende, nel suo equilibrio, da molta esperienza scaturita da anni di tentativi, cioè da apprendimenti che dipendono dalla plasticità sinaptica.
Il paradosso del trauma è che può sia danneggiarci sia espandere il nostro Sé: la persona resiliente che subisce un trauma lo supera e lo considera una ottima esperienza di vita che serve anche per affrontare altre sfide. Tedeschi e Calhoun insieme lo hanno teorizzato scientificamente.
Non solo, ma è possibile che quando affrontiamo una crisi o una sfida, senza ricorrere al trauma, possiamo imparare qualcosa oppure comunque affrontarla meglio se pensiamo al peggio: è una tecnica psicologica secondo la quale, se vediamo le cose più nere di quello che sono, intravediamo qualche spiraglio di luce in più. Se analizziamo meglio ciò che accade quando subiamo una prova, abbiamo inizialmente paura. Ma la paura è un meccanismo neuronale automatico legato alla percezione di un pericolo. Se superiamo lo shock inziale, ci accorgiamo che essa, neurologicamente e psicologicamente, è funzionale a creare in noi quello stato di allerta necessario a mobilitare le forze e le strategie mentali per superare l’ostacolo. Non solo, noi siamo neurologicamente programmati per vedere l’emergere della forza dell’istinto di sopravvivenza quando le cose vanno male: basta che ci distraiamo dalla tentazione della previsione che tutto andrà male e ci potremo accorgere che noi, nella crisi, abbiamo forza e capacità e che proprio la crisi le fa aumentare. Il cervello è strutturato per risolvere i problemi di qualsiasi tipo che la vita ci riserva.
Tutti noi abbiamo delle istanze esistenziali (chi sono, da dove vengo, dove vado, e così via), le quali:
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Ci sono sempre;
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Sono difficili da risolvere;
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Se stanno sullo sfondo si vive meglio.
Nel trauma avviene che esse si ripropongono alla nostra coscienza. Il paradosso del dolore, specie esistenziale, è che se lo ignoriamo, fa più male. Il dolore esistenziale che emerge a seguito di un trauma è una sofferenza così profonda che invade anche il corpo. Ma se non lo accogliamo, stiamo peggio, e come insegnano le malattie mentali potrebbe accadere che non ci sia mai fine al peggio. È un dolore, quello del trauma, che ci invade in ogni ambito della persona senza che noi possiamo fare granché, non sappiamo regolare i sintomi corporei, siamo impotenti e abbiamo un istinto prepotente di liberazione, tale sofferenza è intollerabile. Dato che il nostro scopo nella vita, il senso e la salute mentale, dipendono da una giusta rete relazionale, se nel trauma abbiamo inficiato lo strumento che ci serve per relazionarci, la sofferenza può arrivare a picchi terribili.
Per ovviare a tale dolore l’esperienza traumatica viene dissociata, cioè allontanata dalla coscienza. Janet ha parlato della dissociazione come di un processo patologico, invece Hilgard la ha considerata per primo, nella seconda metà del Novecento, una estensione di un nomale stato mentale. Tutti noi abbiamo parti della personalità di cui non siamo consapevoli e che non sono incoscienti in senso classico. Il traumatizzato userebbe questo meccanismo normale per difendersi dal dolore dell’evento traumatico. Secondo studi neurofisiologici recenti, la risposta simpatica di attacco/fuga (adrenalina, noradrenalina) sarebbe di attivazione, invece quella parasimpatica di arrendevolezza/indolenza (acetilcolina), mediata dalla parte dorsale del vago, sarebbe fisiologicamente dissociativa.
Il terzo tipo di plasticità è quello extracellulare: riguarda le cellule gliali del sistema nervoso, che nutrono e collaborano all’attività del neurone, il quale da solo può fare ben poco. Le persone più intelligenti non hanno tanti neuroni ma tante cellule gliali. Lavorando sul corpo (yoga, arti marziali, massaggi, e così via), alla luna si potenzia la plasticità extracellulare.
Oggi gli scienziati dimostrano che la carezza affettuosa, tramite l’ossitocina, influenza positivamente la plasticità cellulare per via dell’attivazione della plasticità extracellulare: tutto questo fa abbassare il cortisolo, generando quindi meno tensione da stress e riducendo di conseguenza gli inconvenienti sulla plasticità mitocondriale.
Per funzionare correttamente il nostro organismo ha bisogno di tutte e tre le plasticità. Facendo l’esempio dell’automobile di Formula1, la plasticità mitocondriale corrisponde a una buona auto da corsa, quella cellulare al meccanico che assembla i pezzi giusti, quella extracellulare alla benzina.
Quando mangiamo i nutrienti vanno nel mitocondrio che attraverso l’ossigeno scinde in ATP, che produce energia per il nostro organismo. Senza il mitocondrio, produrremmo energia lo stesso ma molto minore.
L’infiammazione è un processo fisiologico che il nostro meccanismo mette in atto quando abbiamo un danno. Ma può essere attivata anche da altri fattori, che abbiamo già visto. L’uomo preistorico vedeva una tigre: era un evento stressante e già questo bastava a far attivare il processo infiammatorio in previsione di una ferita (danno). Oggi la vita è in sé stessa stressante, è come se vedessimo sempre una tigre, quindi il processo infiammatorio è sempre attivato. Aggiungiamoci poi il cibo spazzatura e altro, dai traumi psicologici alla mancanza dell’attività fisica. Questo genera l’infiammazione cronica, che è diffusissima nell’uomo contemporaneo.
Chi mangia gli zuccheri accumula grasso viscerale, che è un grasso con molte sostanze infiammatorie, cioè che fanno scattare la infiammazione cronica. Negli ultimi anni mangiamo troppi carboidrati, questo ci procura infiammazione cronica con relative malattie ad essa legate (dall’infarto al cancro, dal diabete ai danni al cervello).
Un’altra zona della cellula è la membrana che cambia conformazione anche a seconda di ciò che mangiamo. Essa cambia conformazione perché così permette il passaggio di messaggeri all’interno e all’esterno. Ma ci sono dei meccanismi per cui la membrana non funziona nella maniera giusta. Nell’alimentazione infiammatoria si deficita la membrana delle cellule, cosa disastrosa per la trasmissione sinaptica, quindi con danneggiamento enorme della plasticità sinaptica.
Parliamo dell’ingestione di grassi trans: la membrana cellulare deve avere un giusto equilibrio di omega 3 e omega 6, ma i grassi trans hanno molti omega 6 che così squilibrano la componente lipidica della membrana. Ma anche del colesterolo: chi assume meno colesterolo fa diventare la membrana più fluida e i messaggeri non funzionano bene.
Ma anche gli organelli interni alla cellula possono subire dei danni. Il mitocondrio funziona in due modi: quello anabolico (con produzione di nuovo materiale per produrre nuove cellule, anche quelle infiammatorie) quando mangiamo molti zuccheri e quello catabolico (con produzione solo di ATP, cioè energia) quando mangiamo grassi. Quando il mitocondrio è anabolico, non fa la apoptosi, cioè la eliminazione delle cellule che non funzionano, e produce moltissimi radicali liberi, che, se sono utili nella norma, risultano dannosi in eccesso. Quando il mitocondrio funziona in maniera catabolica abbiamo una produzione giusta di radicali liberi. Pertanto una dieta ricca di zuccheri è tossica e infiammatoria. Più abbiamo infiammazione meno mitocondri abbiamo.
Il calcio viene impiegato per il 99% nei denti e nelle ossa, il restante serve per:
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Trasmissione impulsi nervosi;
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Attivazione enzimatica;
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Coagulazione del sangue;
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Contrazione muscoli lisci e scheletrici;
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Contrazione cuore.
Quando il calcio entra nel neurone permette la trasmissione sinaptica. Ma una volta esaurito il compito nella terminazione del neurone, deve uscire dalla cellula, altrimenti diventa eccitotossico e la depaupera di energia. Esce mediante delle pompe che stanno nella membrana cellulare per permetterne il passaggio. L’energia per far ciò è data dal buon funzionamento del mitocondrio che produce la giusta ATP. Nel processo interviene anche la vitamina D. Il calcio in eccesso cellulare provoca infiammazione. Non solo, ma il calcio in eccesso danneggia poi anche il mitocondrio. Il mitocondrio disfunzionale elimina male il calcio. È un circolo vizioso che produce sempre più eccitotossicità. Se versiamo in una condizione del genere, abbiamo iperirritabilità, scarsa concentrazione, scarsa memoria, aggressività.
Poi l’insulina va sugli stessi recettori della cascata infiammatoria, quindi quando l’insulina è in eccesso va a amplificare l’infiammazione. L’insulina aumenta maggiormente quando mangiamo gli zuccheri. Il diabete viene perché abbiamo glicemia alta, insulina alta senza miglioramento della glicemia, quindi andiamo in resistenza insulinica. Per questo il diabetico ha carenza di energia anche se ha molti zuccheri nel sangue: la resistenza insulinica non fa assorbire gli zuccheri al cervello che rimane in carenza di energia.
Il fruttosio ha un potere dolcificante molto alto, quindi viene aggiunto a tutti i dolciumi commerciali. Il fruttosio è uno zucchero naturale, ma in una mela è molto basso, invece nei prodotti industriali, anche negli yogurt, la sua concentrazione è altissima. Il fruttosio arriva al cervello e danneggia direttamente il cervello.
Inoltre se mangiamo troppe proteine, queste si depositano anche nel cervello procurando danni ingenti.
Per superare l’infiammazione ci sono tre modalità:
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Digiuno intermittente;
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Stile chetogenico (mangiare grassi buoni);
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Attività fisica.
È da poco che conosciamo i cambiamenti somatici e metabolici che intervengono nel digiuno, grazie a studi pionieristici di autori come Cahill, Seyfried, Mattson. La dieta può funzionare anche come terapia: quella del digiuno per i tumori e quella chetogenica per i bambini epilettici resistenti ai farmaci.
Per digiuno intermittente si intende in pratica saltare qualche pasto di tanto in tanto. Affinché esso abbia efficacia per dimagrire bisogna abituare il corpo alla chetogenesi: passare da una dieta fondata sugli zuccheri a una basata sui grassi. Quando il corpo si è quindi abituato a trarre energia dai grassi, nel digiuno intermittente brucerà i grassi non degli alimenti ma quelli depositati nel corpo e quindi dimagriremo.
La dieta dimagrante andrebbe fatta senza essere sotto stress, in quanto lo stress, aumentando il cortisolo, attiva dei processi che non favoriscono la lipolisi, cioè il dimagrimento per consumazione dei grassi. Per questo in terapia intensiva il corpo, stressato dalla malattia, produce molto cortisolo e di conseguenza il dimagrimento, che avviene per via dello scarso apporto calorico, si produce per perdita non di grassi ma di proteine (tessuto muscolare).
Ogni volta che noi mangiamo, l’insulina si alza per abbassare la glicemia. Se mangiamo molti zuccheri e molte proteine la glicemia si alza molto (cibi ad alto indice insulinico), se mangiamo grassi l’indice glicemico si abbassa un poco. Il problema è che noi di solito mangiamo molti carboidrati, per cui tendiamo ad avere la glicemia alta e conseguente insulina alta. L’insulina è un fattore di crescita: se è necessaria nel bambino per produrre nuove cellule per crescere, nell’adulto è molto dannosa se in eccesso perché l’adulto non ha bisogno tanto di avere più cellule ma di differenziarle. Se si producono molte cellule, si producono anche molte cellule infiammatorie, con la formazione di infiammazione. Il fegato trasforma gli zuccheri alimentari in glicogeno accumulandolo come scorta energetica nel fegato e in trigliceridi accumulandoli nel fegato e nella pancia. Durante la notte avviene il processo per cui le cellule non bruciano zuccheri (anabolismo) ma bruciano grassi (catabolismo): per questo non andiamo in ipoglicemia. Se il giorno mangiamo molti zuccheri, la notte abbiamo troppi zuccheri nel sangue e la via catabolica ne viene inficiata. La via catabolica serve anche per riparare le cellule e smaltire quelle danneggiate, quindi se abbiamo una dieta con troppi zuccheri il nostro fisico ne viene molto compromesso. Se passiamo da una dieta con molti zuccheri a una dieta chetogenica, il nostro organismo brucia non solo i grassi alimentari ma anche quelli accumulati nel corpo. Non brucia i trigliceridi, che sono troppo grandi per arrivare al cervello, ma li manda al fegato e il fegato li smonta in chetoni, che sono di tre tipi: prima li utilizza solo alcuni come fonte di energia e poi tutti quanti.
Noi abbiamo bisogno di avere la glicemia stabile. Il trigliceride è formato da tre acidi grassi e una molecola di glicerolo, la quale nel fegato viene unita ad un’altra molecola di glicerolo con conseguente formazione di glucosio. Quindi quando mangiamo grassi, produciamo anche glucosio e questo ci permette di avere la glicemia stabile. I chetoni sono molecole più piccole, vanno subito nel cervello che le impiega come fonte di energia: nel mitocondrio del neurone. Questi meccanismi si sono scoperti di recente, perché prima del 2000 i grassi erano studiati molto poco per via del fatto che non vi erano strumentazioni adeguate.
Fare una dieta chetogenica dà molta più energia di quella basata sugli zuccheri in quanto i grassi producono una enorme quantità di ATP. Producendo chetoni abbiamo anche meno fame perché abbiamo più energia. L’insulina come ormone va ad attivare gli stessi secondi messaggeri e gli stessi recettori dell’infiammazione. Se mangiamo troppi zuccheri, si alza la glicemia, abbiamo più insulina e questo provoca infiammazione. Invece facendo una dieta chetogenica, abbiamo meno insulina e di conseguenza meno infiammazione.
Feldman Barrett sostiene che noi abbiamo tre networks che lavorano assieme. Per network si intende un insieme di aree cerebrali che svolgono uno scopo comune. I tre networks sono:
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Default Mode Network: che gestisce il nostro stato di riposo;
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Central Executive Network: che ci fa agire;
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Salience Network: che permette il passaggio dal primo al secondo. È formato anche da insula e amigdala che valutano gli input sensoriali interni e esterni per capire se bisogna stare ancora in riposo o se c’è abbastanza pericolo da fare qualcosa.
Su questa base possiamo rileggere anche i disturbi psichiatrici:
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Nel depresso (che non agisce) c’è una prevalenza del DMN;
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Nell’ansioso (che sta sempre in allerta) c’è prevalenza del SN;
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Nell’iperattivo, nel compulsivo, nel maniacale c’è una prevalenza del CEN.
Nel gatto si vede bene il passaggio: il gatto dorme (DMN), se sente un pericolo alza la testa o comunque apre gli occhi (SN), se valuta che c’è un cane scatta e fugge (CEN).
Il passaggio dalla stasi all’azione, da un punto di vista evolutivo, non deve essere troppo facile, in quanto, se è così, sarebbe segno di insicurezza. Una persona o un esemplare troppo ansiosi e troppo attivi sono visti male dal branco in quanto una persona o un esemplare di animale funzionale devono essere forti: si è forti se si controlla la paura che spinge ad agire. Quando un nuovo lupo arriva nel branco, viene giudicato in base a due test principali:
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Annusare l’alito: se sa di carne, riceve consenso, perché è abbastanza forte da cacciare da solo;
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Mordicchiare lievemente: il lupo abbastanza forte e sicuro di sé non deve reagire alle piccole provocazioni, altrimenti per la sua debolezza, considerata disfunzionale per il branco, viene allontanato.
La sicurezza è il bisogno individuale più importante e quello ricercato di più da un branco. Nei lupi il capobranco non è il più forte, cosa che invece accade con l’esemplare che aiuta il capobranco, il quale è spesso solo il più sicuro e il più stratega.
Noi per soddisfare il bisogno di ricevere sicurezza stringiamo legami affettivi e amorosi. Il partner svolge l’importante funzione di essere il prolungamento di sé stessi per sopravvivere più a lungo e meglio. Anche gli altri bisogni ancestrali si fondano sulla sicurezza: autoaffermazione (solo la persona che ha valore ha diritto di autoaffermarsi e il valore possiamo ottenerlo solo se abbiamo talmente sicurezza interiore da crearlo ogni giorno), libertà (per essere liberi bisogna essere indipendenti, cioè forti, vali a dire talmente sicuri da essere sciolti dai legami che chiudono le ali), creazione (simile all’autoaffermazione), piacere agli altri (chi piace è perché si sente appagato, cioè ha conquistato quel posto nel mondo permesso solo a chi è sicuro di sé).
Il nostro cervello è predisposto alla socialità più arcaica: l’amigdala regolerebbe le emozioni quali l’attrazione amorosa. Ma lo studio dell’amigdala è molto difficile nell’uomo. In primo luogo la ricerca sui correlati neurali del comportamento è basata sullo studio dei pazienti cerebrolesi e lesioni selettive dell’amigdala si osservano raramente. Non solo, ma pazienti con lesioni all’amigdala hanno in genere altri disturbi che bisogna tener presenti prima di interpretare i dati. In secondo luogo gli studi di neuroimmagine dell’amigdala sono complicati dal fatto che essa è piccola, è prossima al potere di risoluzione della PET e è situata in una zona soggetta a significativo rumore nella fRMI. In terzo luogo il concetto di emozione è molto ampio e non ben definito dalla psicologia tradizionale, quindi è difficile selezionare compiti adeguati per testarla.
Il nostro cervello è predisposto anche alla socialità più evoluta (la corteccia prefrontale mediale e la giunzione tempoparietale mediano l’inferenza sociale, la capacità di valutare la personalità, gli stati mentali e le emozioni altrui).
Con la straordinaria scoperta dei neuroni specchio, che si attivano sia quando facciamo una azione sia quando la vediamo fare dagli altri, i neuroscienziati hanno capito che il nostro cervello è in sé predisposto alla relazione. I neuroni normali si attivano sia quando compiamo una azione con un oggetto sia quando vediamo quell’oggetto: nel primo caso i neuroni normali inviano il comando motorio ai muscoli, nel secondo caso pur attivandosi non inviano il comando motorio (si parla di atto motorio potenziale, che permette di scegliere o meno di fare l’azione). Invece nei neuroni specchio vi è una attivazione sia quando il soggetto compie una azione sia quando la vede fare da un altro soggetto, ma non quando vede l’oggetto (pertanto l’atto motorio potenziale si configura neurologicamente solamente quando l’azione è vista fare da un altro soggetto).
Nel passato si pensava che le capacità relazionali fossero quanto di più distante dalle strutture cerebrali, oggi le neuroscienze dimostrano precisi rapporti tra mente e corpo anche relativamente alla socialità animale e umana. È un po’ la distinzione di Taleb tra aplatonici e platonici: i primi si affidano alle prove e diffidano delle teorie, i secondi si affidano alle teorie e diffidano delle prove. Nel passato i medici non si lavavano le mani nonostante la prova che i decessi ospedalieri diminuivano significativamente in quanto comportamento senza senso per le teorie dell’epoca, che ignoravano ancora i batteri. Questi medici erano platonici, per Taleb. Invece coloro che, convinti dai fatti, cercarono di spiegarsi la diminuzione dei decessi, erano aplatonici. Così nelle neuroscienze: alcune teorie psicologiche in voga nel passato tendevano a escludere lo psichismo dalla sfera di influenza dell’attività del cervello, fino a quando con l’età moderna si cominciò a studiare l’attività del cervello: si capì che le funzioni mentali dipendono tutte dalla sua attività o comunque sono in qualche modo correlate. Le rivoluzioni nella scienza dipendono dall’attività degli aplatonici, che convinti dei nuovi fatti scartano le vecchie teorie.
In definitiva l’attaccamento è come l’amore, cioè è funzionale alla sopravvivenza: per questo il bambino ha estremo bisogno mentale del caregiver, ma crescendo e divenendo quindi più autonomo il bisogno diviene minore.
Secondo questo modello, il figlio assume il ruolo di colui che prolunga la nostra sopravvivenza nel tempo. Secondo una prospettiva, è veramente felice non il padre ma il nonno, in quanto questi si vede prolungato nel tempo maggiormente.
A questo punto il genitore di sesso maschile dimostra un amore condizionato verso la prole, invece la madre lo ha incondizionato. È la madre che deve biologicamente curare di più il figlio (allattamento, svezzamento, prime necessità), quindi la donna per natura è meglio predisposta neurologicamente alla cosa con un impatto maggiore delle emozioni di accudimento e emozione mediante più recettori per la dopamina nel cervello.
La mente umana è qualche cosa di improbabile. Ma che deriva da menti sempre meno evolute, anch’esse estremamente improbabili. Tuttavia da questa continua improbabilità nasce un prodotto come la mente umana, assai evoluta. Quindi Kelly introduce il concetto di “improbabilità inevitabile”. Il fatto stesso che tutte queste cose improbabili tendano verso un prodotto sofisticato, anzi sempre più sofisticato, è segno che l’evoluzione segua un fine ben preciso.
Kelly porta anche l’esempio dell’occhio. Noi vediamo attraverso cellule nervose specializzate che hanno una proteina altamente sofisticata, la rodopsina, che converte il fotone in entrata in segnali elettrici in uscita lungo il nervo ottico fino al cervello. Si tratta di una molecola arcaica presente in tutti gli animali. Kelly dice che c’è un alfabeto di venti simboli (gli aminoacidi) in grado di formare ogni parola, cioè proteina. Il numero totale di proteine possibili che l’evoluzione avrebbe potuto generare sarebbe superiore a tutte le stelle di questo universo. Ma dato che soltanto una “parola di aminoacidi” su un milione può creare una proteina in grado di avvolgersi ed essere funzionante, riduciamo il numero e diciamo che il numero di proteine potenzialmente funzionanti è pari alle stelle di questo universo. Quindi scoprire una specifica proteina sarebbe come trovare per caso una specifica stella nell’enorme vastità dello spazio.
Il cervello umano è la cosa più complessa dell’universo conosciuto. In esso trova espressione ben l’80% dei geni. Per alcuni non è un organo ma un insieme di organi, che lavorano in sincronia e non sempre sono tutti attivi all’unisono. Jackson, applicando la teoria di Darwin, proponeva una tripartizione: midollo spinale, mesencefalo, telencefalo, evolutivamente dalla parte più arcaica alla più recente. Per questo studioso il sistema nervoso funzionerebbe come una continua rappresentazione senso-motoria: essa inizierebbe al livello più basso (midollo spinale) per poi essere ri-presentata nel mesencefalo e da lì essere ri-ri-presentata nel telencefalo. Secondo questa ottica, la malattia mentale sarebbe una dissoluzione, cioè il contrario della evoluzione, vale a dire un passaggio a stadi funzionali più arcaici. Ogni malattia mentale avrebbe sintomi negativi (quando sono compromesse le funzioni dei centri più evoluti) e positivi (quando sono indirettamente causati dalla rimozione dell’inibizione dei centri superiori).
Luria nel 1976 a conclusione di un classico della allora nascente neuropsicologia, The Working Brain, scriveva: “… l’uomo, nella sua percezione e azione, nella sua memoria, linguaggio e pensiero” fa uso “di un sistema altamente complesso di zone della corteccia cerebrale che funzionano in modo combinato”. Non aveva inserito in quel libro memorabile i capitoli riguardo le motivazioni, le forme complesse delle emozioni e la struttura della personalità perché quel filone di ricerca era ancora in crescita. Ma il panorama attuale delle discipline del cervello conferma la sua idea di base: il cervello lavora in sintonia tra le varie aree. Kandel nell’ultima edizione italiana del 2015 del suo monumentale Principi di neuroscienze, punto di riferimento mondiale, scrive: “Ogni cellula nervosa entra far parte di un circuito che possiede una o più funzioni comportamentali specifiche. Tutte le funzioni cerebrali relative al comportamento vengono svolte da gruppi di neuroni specificamente interconnessi fra loro e tutte le funzioni comportamentali di un neurone sono, a loro volta, determinate dalle sue particolari connessioni con altri neuroni”.
L’unità funzionale di base del sistema nervoso non è il neurone, ma la sinapsi. Tutti i neuroni impiegano gli stessi meccanismi per inviare i loro messaggi. Le principali differenze tra le cellule nervose riguardano il loro diverso corredo molecolare. Per esempio, esistono neuroni che non generano potenziali di azione, ma l’attività elettrica ionica si somma senza formazione del potenziale di azione fino a scaricarsi nella terminazione vicina che rilascia il neurotrasmettitore. Altri neuroni sono spontaneamente attivi: non necessitano di un segnale sinaptico per generare il potenziale di azione in quanto posseggono canali ionici che consentono il flusso di ioni anche senza stimoli sinaptici eccitatori. Poi, la diversità dei canali ionici fa sì che i singoli neuroni differiscano per soglia, eccitabilità e modalità di scarica, generando allora frequenze di scarica completamente diverse e che codificano quindi informazioni diverse.
Il cervello è una sostanza tissotropica a pressione costante, cioè può passare dallo stato solido a quello liquido, per questo in una autopsia per estrarre campioni di cervello occorre indossare guanti speciali.
In pratica lo studio del cervello inizia grazie alla “reazione nera”, una tecnica scoperta da Golgi nella seconda metà dell’Ottocento che permise di vedere completamente la morfologia del neurone. Questo metodo, assieme alla interpretazione delle immagini microscopiche ad opera di Cajal, ha fondato le neuroscienze, fino ai vertiginosi sviluppi odierni, che si propongono non solo di mappare l’intero cervello ma anche di riprodurlo totalmente in un computer: si tratta della sfida ingegneristica più ardita della storia.
Un settore particolarmente interessante di studi ancora in sviluppo è quello relativo alle differenze del cervello tra i sessi. In un noto esperimento si è scoperto che l’amigdala ha un ruolo fondamentale nel ricordo emozionale: quanto più è intensa l’emozione tanto più il ricordo viene impresso. Non solo, ma quello studio dimostrava come nei maschi l’amigdala nella funzione di ricordare emotivamente si attiva a destra, nelle femmine a sinistra.
Il cervello delle donne è più piccolo di quello degli uomini ma ha più connessioni. Per via degli estrogeni assume maggiori dimensioni durante il periodo fertile, si restringe in quello delle mestruazioni.
Recentemente è stato scoperto anche che è quattro volte più giovane di quello degli uomini. Questo perché il metabolismo è diverso. Il nostro cervello si sviluppa per tutta la vita, ma quando avviene l’invecchiamento brucia meno sostanze per lo sviluppo ma le brucia di più per i vari compiti, come la memoria. Quello delle donne usa più energia di quello degli uomini per lo sviluppo.
Marco Calzoli
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha dato alle stampe 30 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.
Altre Riflessioni
NOTE
1) È difficile svenire dalla paura perché viene allertato il simpatico che fa aumentare la pressione. Un raro caso è però possibile: quando la persona allerta il tono parasimpatico, allora il vago fa abbassare la pressione e il sangue non fluisce al cervello determinando lo svenimento.
2) Una volta si consigliava di respirare nel sacchetto per placare l’ansia. E’ lo stesso discorso. Nell’ansia si respira male, quindi nel sacchetto, dato che c’è più anidride carbonica, il corpo si abitua a usare meglio l’ossigeno disponibile equilibrando la respirazione.
3) Il contrario della plasticità cellulare è la rigidità sinaptica, che si associa spesso a deficit di memoria. Non per nulla, nell’atrofia cerebrale l’area del cervello più colpita è l’ippocampo, che conserva le memorie.
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