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Animismo e modernità possono coesistere?

L'esempio dello shintoismo

di Antoine Fratini - Agosto 2013

 

 

In scritti precedenti ho spesso fatto riferimento ad una rimanenza culturale dell’animismo in certe bolle geografiche spazio-temporali molto più vicine a noi di quanto si pensa, come per esempio nei borghi montani più reconditi dell’Appennino parmense. Ho anche cercato di mostrare come l’animismo, basato fondamentalmente sulla percezione dell’anima in tutte le cose e in particolare modo nelle entità naturali, si ritrovi in certi pensieri e comportamenti dei moderni, come per esempio il ballo scatenato dei giovani su sfondo di musica techno, la moda dei piercing e dei tatuaggi e la cultura New Age che celebra la Natura, l’energia cosmica e predica un ritorno ad un politeismo pagano.

Nel primo caso, si tratta di realtà locali, piccoli villaggi ormai quasi disabitati la cui cultura tradizionale risale ad un paganesimo ampiamente mescolato al cristianesimo, ma che non di meno conserva intatte certe caratteristiche proprie dell’animismo originario, come per esempio il ricorso ai guaritori e alla magia, e la percezione di entità spirituali selvatiche profondamente ancorate alla Natura.

Nel secondo caso si tratta di spunti che emergono direttamente da quel che ho chiamato inconscio animistico nei pensieri e nei comportamenti di moderni sprovvisti di cultura in questo senso.

Esiste però una forma di animismo che sopravive come cultura religiosa di tutto un popolo, di una intera nazione moderna per altro all’avanguardia della tecnologia. Questa forma è lo shintoismo e quella nazione è il Giappone. L'essenza della fede shintoista è un grande amore e un forte sentimento di riverenza nei confronti della Natura in tutte le sue possibili manifestazioni. Lo Shintoismo, infatti, colloca la Natura in una luce particolare: ogni cosa, ogni essere vivente, ogni roccia nell'universo sono di per sé sacri. La natura è considerata sacra in quanto manifestazione della forza dei kami (spiriti) e dimora eterna di questi, proprio come tutti i sistemi animisti distinguono, senza scinderle, le forze materiali da quelle spirituali. Nella visione shintoista valli, montagne, animali, foreste, fiumi, elementi, persino le città sono manifestazioni dell'essenza divina dell'universo, in quanto la materia e gli stessi atomi che la compongono hanno una essenza divina. Insomma, tutto ha un anima, la quale può avere influenza positiva o negativa e quindi, proprio per questo, ogni cosa creata dall’uomo deve essere considerata anche nel suo aspetto e nelle sue implicazioni spirituali.

Questa importanza assoluta accordata alla Natura nello shintoismo ha portato all'usanza di costruire templi proprio nel cuore di boschi e in luoghi di silenzio meditativo, lontani da ogni riferimento alla civiltà. Un contesto religioso di questo genere risulta incredibilmente adatto a compensare la mentalità ipertecnologica dell'uomo moderno. Infatti, mentre si tende sempre più a diffidare dai dogmatismi delle fedi, cresce un tipo di sensibilità verso l’anima delle cose e in particolare modo verso le entità e i luoghi naturali. Anche in Italia, per esempio, nascono gruppi di persone e associazioni che periodicamente propongono delle sorti di pellegrinaggio alla riscoperta delle tracce del divino proprio in certi luoghi naturali particolarmente suggestivi.
I kami dello shintoismo, termine tradotto in genere con "divinità", richiamano i spiritelli di cui parlavano i nostri nonni contadini, o ancora i genius loci degli antichi romani. Sono entità spirituali che popolano l'intero universo, sono gli spiriti della Natura in quanto si esprimono prevalentemente attraverso di essa. Per il fedele shintoista una cascata, una foresta, una montagna, un astro celeste o più semplicemente una pietra, sono considerati come espressione dei kami ed elementi animici in grado (noi diremmo in virtù della loro valenza simbolica archetipica) di porre l’uomo in contatto con la sfera divina. Anche i grandi cicli che regolano l'universo, come la fertilità e la crescita, possono essere visti come manifestazione delle impercettibili forze divine che popolano la Natura e che fanno da complemento alle leggi causali. I kami sono stati definiti anche con il termine li, ovvero "intelligenze innate", oppure "principi". Queste numerose definizioni stanno ad indicare la complessità del concetto shintoista di divinità, quella stessa complessità che ritroviamo nei sistemi animisti. Presso i Pellerossa, per esempio, la stessa parola wakan viene usata per indicare qualcosa di sacro, di misterioso, di pericoloso, di magico, di giusto… La parola Shintoismo deriva dalle radici shin, “spirito”, “divinità” e to, “via”, e quindi può essere tradotta come “via degli spiriti” (o “delle divinità”). Lo shintoismo elegge la Natura quale dimora privilegiata delle divinità, dei kami, e quindi la considera sacra a tutti gli effetti, proprio come nei sistemi animisti più antichi. I kami non sono dunque divinità propriamente trascendenti, afferrabili solo con l’intelletto. Sebbene essi siano impalpabili, popolano lo stesso universo in cui si trova l'uomo, ma si collocano ad un livello superiore al quale si accede dopo la morte fisica o durante certe esperienze mistiche, un livello che pertanto appare del tutto paragonabile alla dimensione animistica. Nei secoli i kami si sono necessariamente cristallizzate in forme culturali, antropomorfiche e circondate da miti. Lo shintoismo ha così finito per assumere il volto di una religione ufficiale a sfondo fortemente animista di uno dei popoli più avanzati del pianeta dal punto di vista tecnologico. Come ho suggerito prima, la legge di compensazione che vige tra coscienza e inconscio può spiegare tale apparente paradosso. Tuttavia, a mio avviso esso dimostra anche che lo spirito moderno, nonostante secoli di cultura razionalistica, non è affatto incompatibile con l’animismo. Affermare il contrario significherebbe in qualche modo sostenere che l’inconscio è incompatibile con la coscienza e che, quindi, l’uomo debba vivere senz’anima. Eppure molte persone, razionaliste, pensano che l’uomo del futuro, l’uomo “evoluto” dovrà scrollarsi di dosso il retaggio dell’animismo per diventare finalmente razionale. Dal punto di vista psicoanimistico invece, l’inconscio animistico non si lascia eliminare, ma solo reprimere. La differenza non è di poco conto in quanto ciò che viene represso resta vivo a livello inconscio e tende a manifestarsi negativamente prendendo vie inadatte, riemergendo cioè sotto forma sintomatica. Pertanto, per evitare catastrofi, è auspicabile che l’uomo accetti i limiti della ragione e cerchi di trarre insegnamenti da quei popoli, antichi o attuali che siano, che sono riusciti a combinare coscienza e inconscio in una unica cultura.

 

   Antoine Fratini


Antoine Fratini lavora da oltre quindici anni come psicoanalista, è Vice Presidente dell'Associazione Psicoanalisti Europei e membro attivo dell’Accademia Europea Interdisciplinare delle Scienze. Egli ha scritto nel 1991 il saggio Vivere di fumo (Book Editore, Bologna) sul rapporto tra adolescenza e uso di stupefacenti leggeri, nel 1999 il saggio Parola e Psiche (Armando, Roma) sul collegamento tra gli indirizzi linguistico e archetipico in psicodinamica e decine di articoli su riviste e siti italiani e stranieri. Poeta e artista, egli ha fondato assieme all’Associazione Culturale C.G. Jung di Fidenza il Movimento per l’Arte Naturale, corrente artistica basata sul pensiero junghiano, e le sue poesie compaiono sui maggiori siti del settore. La sua ultima pubblicazione: Psiche e Natura, fondamenti dell'approccio psicoanimistico, Zephyro Edizioni, 2012.


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