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Note su André Gorz, Lettera a D. Storia di un amore
di Roberto Taioli
Giugno 2017
Lettera a D. Storia di un amore1 di André Gorz rappresenta in un certo senso la continuazione e la conclusione del romanzo autobiografico Il traditore 2 scritto nel 1958. Ciò non perché l’autore voglia dare compimento letterario a quell’opera (che resta in sé conclusa), ma in quanto di fatto ne attua una parte mancante, ne colma una lacuna. Il testo è infatti l’atto estremo di congedo dalla vita di Gorz che muore suicida nel 2007 assieme alla moglie Dorine colpita da un male incurabile.
Scandagliando il testo del romanzo del 1958, tracce consistenti del rapporto di Gorz con l’amata Dorine, si trovano nella parte terza dell’opera, titolata tu, dialettica della ricomprensione, messa in atto dall’‘autore alla ricerca della ricostruzione della propria identità, ove si scontra con l’asprezza di un rapporto concreto, non più mediato dalla filosofia, nella figura della moglie.
Se vogliamo infatti veramente capire le pagine estreme di Gorz, non possiamo non riandare a quella relazione di intersoggettività che pure, nella scrittura autobiografica del Traditore, per stessa ammissione dell’autore, non hanno dato piena riconoscibilità alla figura di Dorine, occultandone in parte la complessità. Anzi, arrecandole un torto. Così esordisce infatti Gorz nell’incipit della lettera:
“Ho bisogno di ridirti semplicemente queste cose semplici prima di affrontare le domande che da un po’ mi tormentano. Perché sei così poco presente in quello che ho scritto mentre la nostra unione è stata ciò che vi è di più importante nella mia vita? Perché nel Il Traditore ho dato di te un’immagine falsa e che ti sfigura?”3
Nel Complement (2008) in una nuova edizione de Le traitre, così Gorz ripensa cinquant’anni dopo a quelle pagine:
“Au cours de l’ hiver 2005/2006, j’ai relu ces pages pour la première fois depuis cinquante ans. Je m’en veux terriblemen t de le avoir écrites. Je comprends pourquoi on dit “mourir de honte”. Ce fat vulgaire et suffisant qui a écrit sur Kay treize lignes ignobles, c’est donc moi. Cette femme belle comme un reve, souverainement sure d’elle meme. La seule que j’aie jamais d’amour, c’est moi qui l’ai redoute en son contraire”4
Il senso di colpa, che sempre ha inseguito Gorz nella sua vita e che credeva di aver smaltito e metabolizzato nella pratica euristica della scrittura autobiografica, riaffiora come un demone non spento nell’esperienza della vecchiaia, assumendo i contorni di un corpo a corpo, questa a volta definitivo, con le proprie fragilità traslate e rispecchiate nella immagine della donna amata, destinataria storica di un torto, di una dolorosa omissione.
La pietas, categoria morale e filosofica finora non saggiata da Gorz nel suo itinerario filosofico, ove si è confrontato con la praxis, l’alienazione, il lavoro, irrompe all’interno del pensatore, come un fiume carsico rimasto a lungo sotto traccia, sepolto. L’uomo Gorz, lungi dal ricomporsi per una delle sintesi dialettiche della sua filosofia, si sfrange, si decompone, appare desolato, come nella Waste lande di Eliot. La città, cui Gorz nella sua forma biopolitica, ha dedicato non poche analisi come luogo della aggregazione umana, si rimpicciolisce nel rapporto io-tu, anzi nell’io stesso, come senza più sponde.
La lettera a D. non è un vizio devastante e narcisistico dell’autore che torna a parlare di sé come nauseato dall’esterno in cui si è versato finora e per un lungo periodo della sua vita; la vita risorge nella morte, nel tentativo di dire l’indicibile e l’ineffabile, come ben ha sottolineato Vladimir Jankélélevitch sul tratto del tratto del tutto anomalo rapporto di morte.
La pietas di ascendenza virgiliana, che si dà non come idea astratta, ma nelle forme tremendamente concrete dell’incontro con l’altro, irrompe nella vita di Gorz col volto beffardo e crudele della donna amata, di cui tuttavia non riesca a strapparne e oscurarne il fascino, quasi essa venisse investita da una nuova ondata di seduzione:
“Hai appena compiuto ottantadue anni. Se sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai. Recentemente mi sono innamorata di te un’altra volta e porto di nuovo in me un vuoto divorante che solo il tuo corpo stretto contro il mio riempie. La notte vedo talvolta la figura di un uomo, che su una strada vuota e in paesaggio deserto, cammina dietro un carro funebre. Quest’uomo sono io. Sei tu che il carro funebre trasporta. Non voglio assistere alla tua cremazione, non voglio ricevere un vaso con le tue ceneri. Sei tu che il carro funebre trasporta”5
Si costituisce nel rapporto io-tu una nuova modalità di riconoscimento che tuttavia trascina con sé le forme dell’antico rapporto esacerbato dal male. Gorz si fa ancora più prossimo non solo a se stesso, ma anche all’altra figura che lo accompagna e di cui si sente parte, consistenza, spessore. In questo compenetrarsi, quasi a fondere le due identità, vanno lette le pagine ed alcuni passaggi della Lettera a D. che richiamano sullo sfondo le analisi di Merleau-Ponty sul corpo e il tema della intersoggettività nella Quinta meditazione cartesiana di Husserl.
Posso mai separarmi dal mio corpo, posso negare il legame avvolgente che mi fa oggetto ed al contempo soggetto di me stesso? Posso scorporare una parte di me senza non scorporare ed intaccare il tutto che mi incarna? La mia incarnazione come carne del mondo può mai essere solo un fatto individuale, tagliato e parcellizzato con le cesoie dell’intelletto analitico? In quale avvolgimento e profondità insondata ed insondabile si radica in me la presenza dell’altro? Posso mai rimuoverla, obliarla, ricoprirla, soffocarla, se non mettendo a rischio e repentaglio la mia stessa rimozione? In quale stanza segreta del mio io avviene l’irruzione dell’altro come abitante non più straniero di me? Come cum-viviamo non più nel fronteggiarci come polarità distinte, ma comune stoffa senziente e percipiente? Siamo davvero in quella totalizzazione di avviluppo di cui scrive Sartre nel Tomo II della Critica della ragione dialettica?6. Sartre stesso parlava in quel contesto di una sorta di incarnazione.
Gorz, che nel corso della sua vita ha indagato questi interrogativi soprattutto nella stagione di più ravvicinato impegno filosofico con Sartre confluiti nel volume La morale della storia7, rinviene ora la materialità della storia riassunta, ricapitolata e precipitata nell’ultima fase della sua esistenza. Il dolore e la sofferenza non sono più ambiti collettivi di una storia universale, ma si danno come sporgenze ineludibili e non più scavalcabili, vivi e palpitanti nel corpo vivo del principium individuationis . Questa scoperta fenomenologica del Leib, del corpo-proprio vissuto, riconduce la filosofia al mondo-della-vita e al sentire originario e scoperto dell’essere grezzo., senza la mediazione di una ideologia. L’ideologia è Ideenkleid, “ vestito di idee”, ricoprimento di una vita viva.
La vita è più urgente della vita biologica e pulsa con un tempo qualitativo che non è omogeneo, ma discreto, sfaccettato, interrotto, rinviato. Questa rifrazione del tempo è anche il dolore, lo scarto incolmabile tra l’essere biologico e l’essere sociale, come l’onda che nel suo trascinarsi lascia solo detriti. Un tempo di ritorno che riprende il suo spazio riaffiorando dalle stratificazioni ove era sigillato. E’ ripresa, nel senso kierkegaardiano, ma non ripetizione. Non ammette repliche in base al principio di irreversibilità, ma semmai ripresentificazione. Consente riparazione, come atto estremo di humanitas, ma non recupero del consumo. In tal senso è istante, irripetibile, unico e perciò assoluto.
Ogni riparazione sul tempo è quindi nel presente e o nel futuro, ma non modifica il passato che è sfuggito per sempre alla nostra presa ed è scivolato sul fondo, nel mondo della sedimentazione. Questo dramma di avvertire il passato come concluso, ma al contempo anche mancanza, tempo inadempiuto, spreco e colpa, non si placa e non si medica con miti sociali del progresso, del divenire.
L’ultimo Gorz pare accorgersi di questa strettoia nella quale si è infilato nel tratto conclusivo del suo cammino. Il tempo non è più dettato da un age sociale, ma si riaffaccia come age naturel, bruto atto biologico, gesto della natura nella sua forma selvaggia, non mediata.
Nell’antico saggio Le viellssement8 (1962) Gorz rovesciava al di fuori di sé lo svolgersi del tempo e della sua identità, come un involucro fatto da altri e che io riconosco in quanto legittimato esteriormente da una serie di connotazioni sociali. Il tempo biologico era tempo sociale:
“Ce que j’entends montrer, c’est que l’age- tant le nombre d’années que l’idée de maturation, de viellissement, de vie et de mort sons laquelle le décompte du nombre n’aurait pas de sens – nous vient originellement des autres, que nous n’avons pas d’age par nous-memes tant qu’Autres, pas rèference tant à longévité moyenne des individus de notre societé (j’y reviendrai) qu’aux étapes et passages initiatiques à un statut nouveau que la societé institue sur la base de cette longévité moyenne”9
Gli Altri, come costituzione in esteriorità, non sono più ora il punto di riferimento. Nasce la necessità di un nuovo scavo, di una archeologia del tempo individuale come tessuto cogente, non dialettizzabile.
Ora, negli anni estremi e tormentati dell’esistenza di Gorz, il tempo biologico si riappropria della scena nelle forme dell’invecchiamento della coppia e della devastante malattia di Dorine. E’ il tempo che precipita e si accorcia nel segmento della vita propria. Il tempo sociale scivola sullo sfondo, non estromesso ma oscurato. Si instaura una nuova dialettica, o forse una figura chiasmatica tra il sociale e il biologico, tra la storia che è sempre collettiva, plurale e la vita che è sempre singolare. In questo agone Gorz si dibatte o forse alla fine si piega alla cieca volontà della vita biologica, al suo corso che neppure la più sofisticata e invasiva della tecnomedicina può interrompere.
Sodale di Ivan Illich10 e della sua denuncia del disumano che si cela nella medicina nell’età della tecnica, Gorz intacca con il suo gesto estremo anche questo idolo. Fa vivere la vita nella morte seguendo Dorine, in un altro misterioso cammino. In questa estrema e tragica prossimità s’attua la forma più alta dell’intersoggettività corporea e spirituale alla quale Gorz aveva sempre anelato. Forse nel non concedere alla morte l’ultima parola sulla sua vita con Dorine, ma nel seguirla, in questo risarcimento e condivisione, va ritrovato il più intenso e pieno humus, il suo ultimo capitolo del libro.
Roberto Taioli
Roberto Taioli nato a Milano nel 1949 ha studiato filosofia con Enzo Paci. Membro della SIE- Società Italiana di Estetica, è cultore di Estetica presso l'Università Cattolica di Milano. Il suo campo di ricerca si situa all'interno dell'orizzonte fenomenologico. Ha pubblicato saggi su Merleau-Ponty, Husserl, Kant, Paci e altri autori significativi del '900.
Negli ultimi tempi ha orientato la sua ricerca verso la fenomenologia del sacro e del religioso e dell'estetica. Risalgono a questo versante i saggi su Raimon Panikkar e Cristina Campo.
NOTE
1 A. Gorz. Lettera a D. Storia di un amore, a cura di Maruzza Loria, con una nota di Adriano Sofri, Sellerio editore, Palermo, 2008, d’ora in poi riportato con la sigla LAD.
2 A. Gorz, Il traditore, prefazione di Jean-Paul Sartre, traduzione di Jone Graziani, Il Saggiatore, Milano, 1966.
Manca a tutt’oggi uno studio sistematico e monografico sull’opera di Gorz; una disanima della figura del pensatore, fino agli anni 70’, trovasi nella tesi di laurea di Graziella Rizzi, La problematica filosofica e politica di André Gorz,
relatore prof. Franco Fergnani, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1973-74.
3 LAD, p. 19.
4 A. Gorz, Complement 2008.
5 LAD, pp. 77-78
6 J. P. Sartre, L’intelligibilità della storia. Critica della ragione dialettica, Tomo II, introduzione di Pier Aldo Rovatti, traduzione e cura di Florinda Cambria, Marinotti Edizioni, Milano, 2008.
7 A Gorz, La morale della storia, trad. it. di Jone Graziani,, Il Saggiatore, Milano, 1963.,
8 A. Gorz, Le viellisement, in Le Traitre, suivi de Le vieillessement, cit., originariamente pubblicato sulla rivista Les Temps modernes, dicembre 1961/gennaio 1962, e pensato come seguito del romanzo autobiografico. Sulla tematica dell’invecchiamento vedasi anche l’incompiuto lavoro di Italo Svevo, Considerazione di un vegliardo, pensato come continuazione de La coscienza di Zeno.
9 Op. cit., p. 381.
10 Vedasi Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, traduzione dall’inglese di Renato Barbone, Bruno mondadori, Milano, 2004.
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