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Prolegomeni all'Amarezza

Prolegomeni all'Amarezza

di Anonimo    indice articoli

 

Il Sapere ai Tempi dell'Insensatezza

Giugno 2015

 

Carducci sosteneva che essere colti significa "sapere di greco e di latino". Una tale definizione apparirebbe oggi un po' desueta, e per fortuna, perché la ricchezza del sapere non può in alcun modo ridursi al solo vezzo dell'antichità o ad una questione filologica. Ma rigettando prontamente questa dichiarazione, di che alternativa disponiamo? In fondo, chi è una persona colta e cos'è la cultura nell'attualità?

Per trovare un'eventuale risposta è necessario esordire con uno sguardo sulla condizione odierna dei saperi. Se la divisione del lavoro è la forma produttiva più efficiente e conveniente, sembra che anche tutte le discipline intellettuali vi abbiano aderito senza indugi: scienze della comunicazione, scienze della formazione, scienze alimentari, scienze politiche, scienze matematiche, perfino scienze filosofiche. Chiunque conosca gli ambienti accademici avrà familiarità con questo sapiente disordine.

La moltiplicazione degli ambiti del sapere ha consentito uno sviluppo ed una specializzazione estremamente celeri, ma allo stesso tempo reso infinitamente più difficile la comunicazione fra di essi. Se vi è incomprensione fra un biochimico ed un astrofisico, figuriamoci fra un matematico ed un filologo. Un discorso culturale fra specialisti differenti apparirebbe presumibilmente impraticabile. In questi termini è possibile scorgere, inoltre, come nessun ambito del sapere possa porsi al di sopra di un altro, anche se le applicazioni possono differire. In questo scenario, tutto è cultura.

Quando anche l'abbigliamento diventa una facoltà, allora la cultura è contrassegnabile con ogni traccia lasciata dall'uomo, ogni prodotto esosomatico, come dice Carlo Sini. Ma la vocazione, così come il tempo della vita, orientano l'uomo moderno verso uno o qualche campo del sapere e l'ignoranza dei terreni adiacenti è assicurata in origine. Se ogni specialista sa molto di poco e poco di tutto il resto e i centri accademici odierni non sfornano altri modelli dagli specialisti, possiamo dire che mediamente tutti sono colti, quindi la persona colta non spicca più come figura particolare.

Una democratizzazione dei saperi, un'equiparazione di ciascun referente. Si tratta, dunque, di una cultura orizzontale, assente di qualsiasi metro discriminante di valutazione? Non esattamente. Ad operare il distinguo fra le scienze è la loro fruizione, diretta o indiretta, un criterio teoricamente labile ma, in ultimo, decisivo.

Se tutti i giudizi si equivalgono, l'ultima parola, quella determinante, non spetta più alla qualità, bensì alla quantità. Il giudizio di valore è posto dal consumo. La filosofia e la musica classica sono cultura di nicchia perché i libri di Hegel e le incisioni di Prokofiev hanno un basso consumo costante; Rainer Maria Rilke e Fabio Volo si trovano entrambi nel reparto letteratura, perché la loro fruizione è dello stesso tipo. Ma anche un libro di meccanica quantistica o anatomia sono di nicchia, sebbene i medicinali e la tecnologia siano di massa.

Ciò che viene meno con questa destinazione preventiva della cultura è la genesi spontanea dei saperi. Le regole sono predisposte, un percorso intellettuale non è altro da un'acquisizione di nozioni già distinte secondo utilità, in un'ansia valoriale senza ripetizione e senza verità in cui solo la moltitudine ha voce. L'ipercognitivismo come solo respiro intellettualmente competitivo insegna a risolvere i problemi, anziché porseli. Lo stesso vale per il consumatore, schiavo della propria sovranità mendicante, che non può tracimare lo sguardo oltre l'angustia dell'offerta.

Si potrebbe veder rilucere in tutto ciò uno spiraglio positivo, ovvero come la cultura, tradizionalmente rappresentante l'interesse di una classe benestante ed egemone, sia stata scardinata e distillata in una democrazia intellettuale; il voto, come la democrazia, sarebbe, allora, un progresso e questo condurrebbe inevitabilmente ad una stima quantitativa, una volta sovvertito l'ordine assiologico alto-basso.

Parimenti, potremmo però insabbiare questo pallido lumino fasullo, riconoscendo che non si è affatto superato l'effetto cascata dell'ideologia borghese, perché quello consumistico e competitivo è esattamente l'ideale dell'odierna classe egemone. Non una democratizzazione, dunque, ma un avvizzimento acritico del sapere in quanto tale, perché solo una complessità multifattoriale delle conoscenze può consentire un giudizio estetico, valoriale e critico.

Nella frammentazione del sapere finora inquadrata, ogni conoscenza viene accolta come eredità residuale del passato, priva di qualsiasi rapporto con la vita. L'impossibilità di parlare di una scienza rende ogni scienza una pratica vuota, condotta per inerzia eteroinferita, spogliata della relazione e dell'unità di senso che l'avevano generata.

Proprio questo è il punto critico in cui i saperi si sono smarriti. Ogni forma di cultura dice nel proprio generarsi qualcosa di autentico del proprio generatore, ovvero ogni forma di cultura è anche una suggestiva traccia antropologica. Ciò di cui la modernità è dimentica è che ogni sapere si è prodotto da una pratica e solo in essa può mantenersi, in un'inclinazione propria del vivente attraverso la scrittura del suo sguardo sul mondo.

Esemplarmente, se oggi non se ne scorge alcuna utilità, non significa che la filosofia sia inutile, ma che, forse, questa filosofia è inutile. Se la filosofia è nata come pratica autonoma e spontanea da santi individui che non avevano alcuna nozione alle proprie spalle significa che essa, in quanto pratica, si inserisce in un quadro d'esperienza, è orientata da un orizzonte di senso. Ciò vale per ogni altro sapere: cosa furono la matematica ai tempi di Pitagora, il secco sistema anatomico per Galeno, la scrittura a Babilonia, la tradizione orale per la civiltà minoica.

Ogni pratica dice l'esperienza, originata da un senso che in essa facilmente si disperde, ogni prodotto ne è linguaggio. L'anoressia intellettuale che ci contraddistingue è una patologia lessicale, un'incapacitazione di com-prendere il nostro senso, quello che solo nella prassi può originarsi.

Se, in ultimo, gli spazi della cultura sono morti è perché è la cultura in senso unitario ad essere morta. L'unico modo di riallacciare la crisi culturale ad un possibile umano senso è fare ritorno alla sua origine, ovvero recuperarla come pratica, rifondandone l'autenticità esosomatica che ha mosso tutto questo percorso, e reinfondendole la pulsazione eterna di una relazione con la vita.

 

    Anonimo

 

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