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Skyatos "Riflessioni sull'Ignoto"
di Cristina Tarabella
Tratto da un racconto dialogico filosofico sugli interrogativi della vita di Cristina Tarabella.
Potete trovare l'intera opera su: Stefano e Marco (Un amore)
Mi era concesso fare domande, ma dovevo meditarle attentamente.
Erano giorni che cercavo di formulare al mio Maestro, il problema che mi assillava.
Ma non trovavo termini adatti per esprimere l'abisso di perplessità che si era aperto in me.
Mal tollerato era porre domande vuote, ma ancor più grave era non porle affatto, poiché, questo, era l'insegnamento: solo chi domanda è alla ricerca della verità e della saggezza.
Mi mossi titubante, là dove il Maestro sedeva in attesa.
Nella sua immobilità era come l'aria circostante, e in essa si confondeva.
Così, come un alito non stormiva le fronde, anche sul suo volto non aleggiavano sensazioni, né espressioni o pensieri.
I suoi occhi non frugavano il vuoto, più tosto lo riflettevano: erano fissi nel nulla e trasparivano loro stessi.
I miei goffi passi non lo distolsero dal suo immenso silenzio interiore pieno di infinite saggezze.
Ma adesso io stavo andando lì, davanti a lui e dovevo assolutamente trovare qualcosa di saggio da dire.
Un fremito di esitazione mi smorzò l'incedere e l'impercettibile dissenso del Maestro sferzò violentemente la mia anima, facendomi barcollare più vicino.
Il Maestro ora ascoltava la mia presenza, rendendo più greve il silenzio.
Nessun incoraggiamento sarebbe uscito dalla sua voce.
Dovevo parlare.
Affondarono le mie parole, come nell'acqua che risucchia veloce il corpo dopo un tuffo.
"Maestro, per quale fine viviamo?" Trattenni il respiro, come il nuotatore che aspetta di riconquistare la superficeie vitale.
Il suo volto non ebbe fremiti; solo mi parve di vedere i suoi occhi intristirsi dietro la luce opaca che li rifletteva. La sua voce mi raggiunse, ed io respirai di nuovo.
"Qualche sprovveduto potrebbe risponderti che il fine della vita è la morte. Ma ben più ampia è la risposta alla tua domanda.
E' ampia quanto la tua capacità di pensare.
Fin tanto che tu vivrai, potrai dare infinite mète alla tua esistenza ed infinite risposte.
La morte è una tappa del ciclo vitale, il quale è posto al disopra di ogni umana comprensione.
Poiché la vita pertiene agli esseri viventi, essi ne fanno ciò che vogliono e le dànno fini e mète quali arbitrariamente e soggettivamente sgelgono nel tempo."
Senza nemmeno pensare, feci un'altra domanda e lui ancora mi rispose.
"Tu mi chiedi come fanno gli animali a scegliere le loro mète, egli disse, giacché essi sono governati dall'uomo. Ma tu sai che non esistono solamente gli animali che aiutano l'uomo nel suo lavoro, bensì anche le fiere che regnano indomite nei luoghi selvaggi. Ebbene, esse sono libere di scegliere, e un tempo anche gli animali domestici non avevano padroni…
Inoltre, puoi ben renderti conto, Skyatos, che tutto ciò che è vivente, ha davanti a sé delle mète, in quanto soggiace all'incorruttibile Scettro del Tempo, che induce ogni cosa ad agire e reagire…
…E questo moto, non potremmo noi definirlo 'un fine'?"
La risposta alle mie domande fu peggiore dell'abisso stesso in cui mi ero trovato fino a quel momento. Sentivo, infatti, le parole del Maestro aliene dalla mia realtà; aliene dal quotidiano; dal contingente, dove io e tutti viviamo e nel quale abbiamo bisogno di verità tangibili e ben determinate.
Il Maestro, appesantito nell'anima dalla grevità infinita delle sue riflessioni, sedeva quasi tutto il giorno in mezzo ad un boschetto di fruscianti betulle dorate, e qui, seguiva la luce nella sua eterna evoluzione.
Io, invece, ero divorato dalla frenesia delle membra, e avrei voluto correre lungo i sentieri, giù dal dirupo fino al mare… Ma non era cònsono, poiché, mi aveva ammonito il Maestro, quando una persona corre, significa che ha dentro qualcosa da cui vorrebbe fuggire; per questo dunque deve fermarsi ad analizzare se stesso.
A me, adesso, non sembrava di avere dei tormenti dai quali volessi fuggire, tuttavia, se riflettevo, mi veniva in mente che quando avevo voglia di correre, di solito era perché mi era capitato qualcosa: o avevo ricevuto un biasimo; oppure non avevo capito una risposta del Maestro. Oppure ero semplicemente pieno di tristezza.
Quindi mi allontanai sul sentiero a passo forzatamente lento, con la speranza che il Maestro, vedendomi, provasse per me un pensiero compiaciuto.
Dopo poco gli alberi mi rubarono allo sguardo l'immobile figura di lui, o forse egli si confondeva, ormai simile ad essi, fra gli esili tronchi.
Cominciai a riflettere.
Mi sovvenne che la mia domanda non poteva avere 'una' sola risposta, ma infinite, come aveva detto il Maestro, come infiniti sono gli attimi che noi rubiamo alla Morte.
In quel dolcissimo tepore che sapeva di agavi fiorite, il mio pensiero venne cullato e trascinato insieme ai virideggianti fili d'erba che il vento faceva parlare, mentre, come pennellate d'oro date da un dio nascosto, il ginestrone macchiava di sé i poggi solatii.
Pensai allora come sublime fosse ogni attimo; perché mai, mai!, ne sarebbe venuto uno uguale ad uno trascorso!
Mi persi così nel paesaggio circostante, confondendomi fra i mille, infiniti, invisibili granelli di polline che il tepore alato trasportava lontano….
Cristina Tarabella
- Potete trovare l'intera opera su: Stefano e Marco (Un amore)
Altre opere dell'autrice:
- Il nostro tempo. Una dimensione che non ci appartiene più.
- Discorsi intorno agli enigmi (della vita)
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