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di Paolo Bancale   indice articoli

 

L'Illuminismo che venne dall'India

Di Giangiorgio Pasqualotto

Dicembre 2013

 

Spesso il Buddhismo viene considerato una grande religione universale, oppure una disciplina psicofisica incentrata sulla pratica della meditazione. Entrambe le interpretazioni contengono qualcosa di vero, ma sono ambedue riduttive.

È vero che il Buddhismo si è presentato, fin dalla sua origine, come una via di salvezza dal dolore offerta a chiunque, senza distinzioni di etnia, di genere, di ceto e di condizione sociale. In tal senso, in quanto propone una forma di salvezza rivolta a tutti, è veramente da ritenersi – al pari dell'islam e del cristianesimo – una religione universale. Tuttavia è da ricordare che il Buddha non si è presentato al mondo né come dio, né come figlio di dio, né come suo profeta e che, di conseguenza, i cosiddetti “testi sacri” del Buddhismo – in particolare il Canone – non contengono nessuna “parola di dio”, ma sono la trascrizione dei discorsi che un uomo eccezionale – il Buddha – fece durante i suoi quarantacinque anni di predicazione itinerante.

D'altra parte, è vero che il Buddhismo, fin dalla sua origine e in ogni sua fase storica e in ogni sua articolazione in diverse Scuole e tendenze, ha riservato un ruolo centrale alla pratica meditativa, ma è anche vero che tale pratica si è sempre accompagnata a più o meno estese riflessioni speculative e a precise intenzioni etiche. Già questi caratteri generali del Buddhismo potrebbero condurre a ritenerlo una forma di proto-illuminismo, di Ur-aufklärung. Tuttavia sono alcuni caratteri specifici che rendono questo accostamento del tutto legittimo.

 

I princìpi dell’Illuminismo

In primo luogo va ricordato come esemplare il contenuto del discorso che il Buddha rivolse ai Kalama: «È giusto che voi abbiate dubbi e perplessità, perché sono dubbi relativi ad argomenti controversi. Ora, ascoltate, o Kalama, non fatevi guidare da dicerie, da tradizioni o dal sentito dire; non fatevi guidare dall’autorità dei testi religiosi, né solo dalla logica e dall’inferenza; né dalla considerazione delle apparenze; né dal piacere della speculazione; né dalla verosimiglianza; né dall’idea “questo è il nostro maestro”. Ma, o Kalama, quando capite da soli che certe cose non sono salutari (akuśala), sbagliate e cattive, allora abbandonatele (…) e quando capite da soli che certe cose sono salutari (kuśala) e buone, allora accettatele e seguitele».

È da notare in particolare che, almeno alla luce delle tradizioni religiose maggiormente determinanti lo sviluppo delle culture occidentali, appare singolare il fatto che il Buddha sconsigli di farsi guidare dall’autorità dei testi religiosi. In realtà ciò precisa chiaramente quale approccio deve tenere chi – duemilacinquecento anni fa come oggi –  si accinge a leggere i testi raccolti nel Canone buddhista: costui non deve pensare che questi siano stati pronunciati da una o più divinità, ma deve assumerli come espressioni di un’esperienza soltanto umana, per quanto vasta e profonda. Di conseguenza, ogni esegesi di tali testi deve esimersi dal pensare che in essi sia raccolta tutta la verità e nient’altro che la verità: essi raccolgono invece le impressioni e le riflessioni di un individuo eccezionale che ha percorso una particolare via verso la verità, e che ha voluto far partecipi gli altri delle scoperte fatte lungo questo suo percorso.

 

Il concetto relativo di verità

A questo proposito è interessante ricordare quale sia l’atteggiamento che il Buddha consiglia di tenere nei confronti della verità. Tale atteggiamento, assai diverso da quello prevalentemente coltivato da ogni tradizione propriamente religiosa, è messo in chiaro in un passo del Suttanipāta: «L’uomo il quale, fermo nelle sue opinioni, ritiene eccelso quel che egli stima di più al mondo, per la stessa ragione giudica volgari tutte le altre cose; perciò non supera le discussioni. Quello che egli trova pregevole nei dati dei sensi o in un codice morale o nel pensiero, a questo aggrappandosi ogni altra cosa considera vile. Gli esperti chiamano impedimento ciò che induce colui che vi si aggrappa a giudicare meschina ogni altra cosa; perciò il bhikkhu (monaco) non si fissi su ciò che vede, ode o pensa, o su un codice morale».
Ciò significa che sbagliato non è credere in una verità, ma ritenere che essa sia unica, assoluta ed eterna. È chiaro come, su queste premesse generali, l’insegnamento del Buddha, e poi l’intero Buddhismo, non abbia potuto costruire alcun sistema di dogmi ed abbia potuto, per converso, entrare in contatto positivo con culture religiose e con tradizioni di pensiero profondamente diverse.

Nel discorso che il Buddha fece ai Kalama risulta inoltre particolarmente originale e significativo il passo in cui consiglia – anche qui in controtendenza rispetto a quasi tutte le altre tradizioni religiose – che è bene non farsi guidare dall’idea “questo è il nostro maestro”. Tale consiglio, tuttavia, appare affatto coerente con la natura “laica”, non-sacrale, del Canone: non essendovi, per principio, una “parola di dio” da comunicare  e da commentare, non esiste nemmeno la legittimità di un gruppo o di un ceto speciale di sacerdoti dediti professionalmente a questi compiti. In tale prospettiva non è possibile parlare in senso appropriato di un clero buddhista, in quanto i monaci (bhikkhu) sono individui che si sono messi sulla via percorsa dal Buddha cercando di verificare in proprio le verità che egli sperimentò e formulò. Solo i più dotati tra i monaci possono considerarsi “maestri”: tuttavia, anche in questo caso, “maestro” è soltanto qualcuno che ha percorso prima dei suoi allievi – ma anche continua a percorrere, assieme a loro –  la strada verso la verità.
In tal senso il Maestro buddhista, più che un depositario della verità, dovrebbe essere una guida verso la verità: egli conosce alcuni passaggi pericolosi ed alcune tecniche fondamentali per superarli, ma lascia che l’allievo proceda con le sue forze, senza proteggerlo troppo con qualche idea preconcetta sulla via e sulla meta; ma anche senza troppo spaventarlo con racconti terrificanti sulle difficoltà della via e sull’inaccessibilità della meta. In altri termini, per il Buddhismo non si tratta di stare sotto la tutela di un “padre spirituale”, quanto piuttosto di stare in compagnia di “amici spirituali”.

 

Analogie con la Critica della ragion pura di Kant

A questo punto, per misurare la forza e la chiarezza del carattere “illuminista”, non-metafisico, che qualifica gli insegnamenti del Buddha, è fondamentale rifarsi al contenuto di un famoso passo del Majjhima Nikāya, dove si rivelano alcune incredibili corrispondenze con quanto si trova nella Critica della ragion pura di Kant: «Perciò, Mālunkyāputta, ciò che da me non è stato spiegato, tenetelo come non spiegato; e ciò che da me è stato spiegato tenetelo come spiegato. Ma che cosa, o Mālunkyāputta, non ho spiegato? Che il mondo è eterno, ciò, Mālunkyāputta, non ho spiegato; che il mondo non è eterno, ciò non ho spiegato; che il mondo ha fine, ciò non ho spiegato; che il mondo non ha fine, ciò non ho spiegato; che la vita e il corpo sono la stessa cosa, ciò non ho spiegato; che la vita e il corpo sono due cose diverse, ciò non ho spiegato; che il Tathāgata esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathāgata non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathāgata esiste e non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathāgata né esiste né non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato».
È da notare in queste parole il chiaro intendimento del Buddha di limitare le pretese della ragione di dare spiegazione di questioni di cui non si può avere verifica empirica: egli, infatti, chiedendo «che cosa non ho spiegato?» e riferendosi alle questioni dell’infinità dell’universo, dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza dell’Assoluto, intende riferirsi non a questioni di cui, genericamente, non si può parlare, ma a “cose” che egli ritiene non si possano spiegare in modo certo e verificabile. La sua, insomma, non è una posizione che pretenda di essere assoluta, valida cioè per tutti e per tutte le forme di espressione, ma è una posizione limitata alle sue conclusioni e a quei discorsi che non presumono di poter dire qualcosa di definitivo su argomenti che non possono esser considerati oggetto di dimostrazioni razionali.

 

Il primato dell’empirismo

Le ragioni per preferire un simile atteggiamento “sperimentale” rispetto a quello di un’accettazione acritica di qualche verità assoluta sono ben illustrate nel paragone che a questo proposito il Buddha istituisce tra un uomo che si ostini a cercare soluzioni a simili questioni metafisiche ed uno che, ferito da una freccia, prima di essere curato, voglia sapere dal medico chi l’ha colpito, a quale famiglia e casta costui appartenga, quale sia la sua carnagione, la sua statura, il suo luogo di nascita e quale tipo di arco e di freccia abbia usato per colpirlo. È evidente che costui finirebbe per morire dissanguato prima di aver ricevuto risposta anche ad una sola di queste domande: così, chi si ostina a voler trovare risposta a domande metafisiche rischia di consumare la propria vita senza riuscire a togliersi o a farsi togliere quella “freccia” costituita dal problema del dolore.
E infatti, alla fine del suo discorso a Mālunkyāputta, il Buddha sostiene che, qualunque opinione si possa avere sui grandi problemi metafisici, esistono comunque la nascita, la vecchiaia, il decadimento e la morte, la sofferenza, il dolore, l’afflizione e l’angoscia, «la cessazione dei quali io proclamo in questa vita».

 

Il rifiuto della speculazione metafisica

Il rifiuto da parte del Buddha di pronunciarsi in merito alle grandi questioni metafisiche non si conclude quindi con una posizione nichilistica, ma con la proposta di analizzare la presenza, la natura e l’origine del dolore, al fine di poterlo debellare o, quantomeno, diminuire durante la vita concessa ad ognuno. Allora, in generale, questa esortazione al lavoro dell’analisi razionale più che agli slanci dell’entusiasmo fideistico, può essere ben sintetizzata con le parole ehi passika, che costituiscono un invito a “venire a vedere”, non a “venire a credere”.
Il Buddhismo quindi, almeno nella sua versione più originaria, quella contenuta nel Canone, sembra proprio avere i titoli per esser definito come una forma di Ur-aufklärung o di “proto-illuminismo”.

 

Giangiorgio Pasqualotto
Professore ordinario di Estetica, Storia della filosofia buddhista e Filosofia delle culture presso l'Università di Padova.
Dalla rivista NonCredo

 


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