Scrittura e vita, simbiosi perfetta
di Matilde Perriera
La Grande Bellezza - I barlumi della speranza
Recensione su “La Grande Bellezza”
Settembre 2021
La giuria dell’Academy Awards, nella 86ª edizione degli Oscar, ha ritenuto LA GRANDE BELLEZZA meritevole della prestigiosa statuetta. Ed ecco che Paolo Sorrentino(1), con emozione e orgoglio, accompagnato dal protagonista Toni Servillo, dal produttore Nicola Giuliano e dalle ovazioni per il riconoscimento artistico, la notte tra il due e il tre marzo 2014, è salito sul red carpet. Il generale coinvolgimento emotivo, a due giorni dal trionfo, ha spinto Mediaset a garantire la possibilità di far vedere, da casa propria, il lungometraggio più seguito sul piccolo schermo negli ultimi 10 anni.
Il record di ascolti su Canale 5, però, tra molti degli 8 milioni e 861 mila spettatori con gli occhi incollati al televisore per due ore e venti minuti di proiezione serratissima, ha scatenato battute al vetriolo. Veramente inquietanti le domande.
Perché il plauso della critica ha eletto un epocale scorcio socio-politico-antropologico demistificante che denunzia in pieno il disfacimento psicofisico dell’alta borghesia?
Quale chiave di lettura ha fatto girare per fare strada con ardore a un "viaggio" in cui prevale una condizione di fiacchezza spirituale?
Cosa ha trovato di tanto attraente nell’autodiegetico sessantacinquenne Jep Gambardella che, frequentato dall’alta società romana pseudo-intellettuale per il giovanile “Apparato umano”(2), beve acquavite a grandi sorsi e va a dormire quando altri si svegliano?
Perché si è esaltata davanti alla magica e malinconica Regina dei popoli, avvolta da un sentore di rimpianto per ciò che non è stato, indifferente e seducente agli occhi meravigliati dei turisti?
A chi pensava di concedere la catarsi con questa diseroicizzazione che riflette il diffuso fallimento esistenziale di chi si sente morire un poco ogni giorno?
Le risposte agli interrogativi giungono implicitamente dall’io narrante, che trasforma gli estenuanti accenti crepuscolari in un gioiello incastonato da preziosi aforismi e citazioni esplicite. Il regista regala all’Urbe la poesia dei monumenti in tutte le sue sfaccettature, anche quando la si guarda da una terrazza di uomini delusi e perdenti”(3). La sua esegesi approfondita, infatti, con un fascino che il tempo non potrà mai scalfire, convoglia, in queste descrizioni sentenziose, i particolari curatissimi delle stupende scenografie di Stefania Cella, le sfumature delle splendide fotografie di Luca Bigazzi,(4) la colonna sonora azzeccatissima di Lele Marchitelli(5) … Tutto, sin dall’incipit, in sostanza, vi è sotto controllo per rappresentare, con potente introspezione, la precaria fragilità di transitorie illusioni inconsciamente create per rendere più sopportabile uno stato di malessere permanente.
È estate. Il cuore della cristianità cattolica splende e, trascolorando dalle luci incerte del giorno a quelle della notte, svela, con occhi profondi, angoli mai visti. Paolo Sorrentino racconta il dietro le quinte di una Roma malinconica, affascinante come una donna che fa il mestiere più antico del mondo: “usata, bistrattata, ma anche adorata e coccolata quando il bisogno di sentirsi amati da un essere umano non viene colmato”(6). I contorni sfumati sono ricoperti da una trama inconsistente “che non si gioca tanto nel suo svolgimento quanto nelle immagini e nei dialoghi”(7). La scena si apre su una straordinaria fotogrammetria in cui, in ipotiposi, si percepisce il cinguettio di uccelli, il cannone che spara, il monotono din don di campane, il canto solenne di un coro femminile, la festa freack(8), il ritmo frenetico dei balli al ritmo di “A far l'amore comincia tu"(9), il rollio delle onde del mare, il tintinnio di ghiaccio nei bicchieri, le apparizioni enigmatiche, i bambini che ridono. Le divagazioni frammentarie sono spesso richiamate da improvvisi flash beach resi efficaci dagli espedienti di lunghe ellissi, o dall’eliminazione dei raccordi, o da sostanziate metonimie. Tali strategie narrative sembrano tralasciare lo svisceramento delle conseguenze talvolta gravi delle cause primordiali e trascurare la forza mnestica necessaria per recuperare situazioni che hanno scavato l’abisso nella psiche. Solo in apparenza, però, perché la macchina da presa, al contrario, scruta la realtà esaltata e, a poco a poco, penetra nei meandri dell’anima della platea.
In tale ottica, la rilettura più profonda del 14esimo capolavoro italiano, che è stato capace di conquistare i cuori di tutto il mondo, ribalta immediatamente la pars destruens e dà spessore alla pars costruens che, ingemmata dall’interpretazione magistrale di tutto il cast, rappresenta cori di “trenini urlanti”(10) senza una meta precisa.
In questo microcosmo nessuno passa inosservato e tutti, anche Verdone, Sabrina Ferilli, Giusi Merli, Raffaella Carrà, avrebbero meritato di salire sul podio di Los Angeles accanto a Sorrentino e Servillo… C’è il TURISTA giapponese, che, assalito dalla sindrome di Stendhal(11), muore sulla collina del Gianicolo… C’è il ciarlatano, che inocula botulino a raffica a personaggi famosi ossessionati dall’idea della dismorfofobia(12)… C’è Galatea Ranzi, che abbandona gli scheletri nell'armadio e le menzogne in cui si eclissa… C’è Carlo Verdone(13), che decide di abbandonare Roma nella speranza di riconquistare la propria identità… E la simpatica “regina delle disadattate”, che pubblica le “spassose” interviste di Gambardella… E l’ormai quarantaduenne Sabrina Ferilli(14), che rappresenta una disillusa Ramona corrosa dalla malattia silente… E la “farabutta” colf Filippina, che parla il dialetto napoletano con Jep… E Alfredo, che vive nell’adorazione di Elisa e si ritrova, dopo alcune scene, orgoglioso della nuova moglie… E, poi, Massimo De Francovich, che discute sull’inutilità delle lacrime di fronte a un grande dolore… E gli anacronistici CONTI COLONNA, che sono “morti seppur ancora vivi”… E Isabella Ferrari, che vive nel culto narcisistico della propria antica avvenenza… E Carlo Buccirosso, che, con la parlantina sciolta, compare sin dalla prima serata in discoteca con lo sguaiato “T’chiavass’!”… E la nevrotica Carmelina, che spara getti di colore sulla tela e, con le urla di rabbia, il pianto, gli schizzi policromi, schiaffeggia virtualmente i genitori per le continue oppressioni psicologiche subite… E Roberto Herlitzka, il Cardinal Bellucci, che, estremamente mondanizzato, cerca la pompa, vive nello sfarzo, va in giro in limousine e, a parte l’abito talare, è cupido di quanti si agitano in questo mondo fuorviato… E, ancora, Pamela Villoresi, che trova la pace offrendosi come missionaria in Africa … E Serena Grandi che, avvolta in un vestito bianco scollato, sembra sorgere dalla sagoma del Colosseo… E, ancora, Pasquale Petrolo, che si propone come lo snob gallerista d’arte... E Luca Marinelli, che chiude gli occhi e sfreccia veloce, deciso ad ascoltare, per l’ultima volta, il rombo del motore... Tutti figli di “una cinica microsocietà intenta a camuffare il vuoto, a esorcizzare l’anonimato, a fuggire la noia delle consuetudini, a fingere di vivere per non vedere la devastazione che dentro li disgrega”(15).
In questa girandola di personaggi, fa riflettere la Santa. La donna, ne LA GRANDE BELLEZZA, interpreta il suo ruolo con una forte impronta spirituale ossequiata e venerata da tante confessioni religiose. Incartapecorita di 104 anni, Suor Maria, “mangia solo radici perché le radici sono importanti”; proviene da un imprecisato paese africano e accetta l’invito a cena di Gambardella per raccogliere fondi per i poveri. Con un lavoro attoriale davvero competente, riesce a ritrarre un personaggio fuori dal comune: “dorme a terra in un giaciglio di cartone”, trascorre “22 ore al giorno” con gli ammalati, sta tutta rattrappita e, un po' bambina, dondola i piedi seduta sulla grande poltrona. Tra l’insensibilità generale, percorre con le ginocchia nude la scala di San Giovanni che dovrebbe garantirle l’indulgenza e farla sfuggire alle fiamme dell’inferno. L’artista prova reali dolori indicibili “come un animale che lotta per la vita”(16). È bravissima nel sollevare le gambe con le mani, far sentire un respiro che, venendo dalle viscere, pare la voce profonda di un animale, “La povertà non si racconta – dice -, ma si vive”. Giusi Merli, “guidata dalle personali pratiche di trasformazione interiore della religione buddista(17)”, stando nel suo mondo, riesce a esprimere concetti profondissimi. I suoi sorrisi ineffabili sono “luce nel buio che appare e scompare nel buio”(18).
Tutti gli attanti, in ogni caso, appaiono “macchiette scure ruotanti nel vortice del napoletano stanco e disilluso”(19). Sulla scia di un colto citazionismo, Jep si muove, appunto, tra alta cultura e frivolezza per dar voce, con le meditazioni gnomiche di grande respiro, alle varie marionette governate dai fili invisibili. La vita che egli rappresenta “è una scheggia di luce che finisce nella notte. Tutto è delusione e fatica”(20) in questa drammatica avventura esistenziale da cui si può evadere solo con il vagabondare. Il “viaggiare”, per lui, anche se è un’evasione metaforica, “è proprio utile perché fa lavorare l'immaginazione e tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi”(21), così come succede a “Belluca, per il quale un treno che fischia rappresenta la folgorazione improvvisa funzionale a farlo evadere, almeno con la fantasia, e ritrovarsi”(22).
Toni Servillo(23), camminando di notte a Piazza Navona, per spiegare la sua fuga dal letto su cui si è incrociato con la ricca milanese, dice di aver scoperto che, “alla sua età, una bella donna non è più abbastanza” e che “non deve perder tempo con le cose per cui non ha interesse”. Il novello Dandy, attraverso uno stile di confessione ben sorvegliata sul piano formale e lontana dall’immediatezza, cerca il colloquio diretto con il pubblico. Nelle sue parole si coglie una sofferta ambiguità in cui palpitano, insieme, il decadentistico orgoglio baudelairiano e la parodia amara della maschera di eccezionalità che egli continua ad assumere nonostante la negazione di tutti i valori. Jep Gambardella diventa, in definitiva, simbolo paradigmatico di uno status.
Lo scaltrito epicureo, trapiantato a Roma a 26 anni in cerca di successo, come tanti, come tutti, “precipita abbastanza presto, quasi senza rendersene conto, nel vortice della mondanità” per prendersi il gusto, in quanto “re dei mondani”, non tanto “di partecipare alle feste, quanto di farle fallire”. Adesso è messo a fuoco dalla macchina da presa quarant’anni più tardi, mentre divaga tra feste decadenti, cene sulla sua luminosa terrazza “Martini” con vista sul Colosseo, incontri, camminate solitarie sul Tevere consumando la sua vitalità fino all’alba. Quel che rimane dello “spirto guerriero”(24) che animava le aspirazioni giovanili appare come “calore di fiamma lontana”(25) la cui connotazione precipua è l’ironia pungente sottolineata non solo dalla fronte sempre aggrottata ma, soprattutto, dallo sguardo cinico e raziocinante. L’obiettivo è quello di neutralizzare il “male di vivere”(26) di montaliana memoria stordendolo con i mille “bla, bla, bla” che lo infarciscono e “lo sedimentano sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza e lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile”.
Svolgendo le varie scene de La GRANDE BELLEZZA, si intravedono, grazie anche alle dichiarazioni di Paolo Sorrentino, netti richiami all’affresco della "satira in grande scala"(27) de “La dolce vita” di Fellini. A parere della scrivente, si è, però, su due lunghezze d’onda completamente diverse. La netta demarcazione tra i due film, datati rispettivamente 1960 e 2013, è rappresentata dai limiti ante e post quem che permeano le due produzioni; il “quem”, codificato dallo sfiduciato abbandono e dal rifiuto di aderire ai problemi del tempo, nella creatura più giovane, risulta, appunto, più esacerbato. Con LA GRANDE BELLEZZA, in breve, si perviene, simbolicamente, alla summa di tutte le “occasioni mancate”, naturale conseguenza di un’un’esasperata quanto vana ricerca, nel silenzio e nell’ombra, di una nuova spontaneità del sentimento.
In questa società svirilizzata, in cui persino un funerale diventa un “appuntamento mondano di eccellenza”, in cui l’apparire signoreggia con la vacua sonorità di una fraseologia ipocrita e stereotipata pronunziata con “autorevolezza”, come, invece, non far risorgere dalle ceneri la Roma de “Gli indifferenti”(28)? Quello di Moravia, infatti, è già un uomo accecato e sclerotizzato in una forma di cui si coglie lo sfacelo, la meschinità, il relativismo orizzontale e verticale, la crisi gnoseologica, la lanterninosofia, il solipsismo. Alberto Pincherle, in particolare,sottolinea “i dialoghi che contrassegnano l’enciclopedia delle sciocchezze della conversazione medio-borghese”(29) e “scolpisce, con disincantata crudeltà, un retroterra culturale chiuso e soffocante”(30).
Si ritiene altrettanto coinvolgente, inoltre, l’accostamento alla Roma del tessuto narrativo di “Come tu mi vuoi”(31) che risale al 2007. In un’età in cui “la comunicazione sociale funziona a piramide e al vertice siede chi non fa nulla”(32), Volfango De Biasi, con squarci di altrettanta profondità socio-antropologica, fa risalire in superficie l’identico patrimonio cromosomico degli adolescenti del XXI secolo abituati a cercare una firma più che ad auscultare il mondo interiore di chi sta loro vicino. Di fronte alla condizione dei tanti ragazzi privi di fede e di certezze, senza illusioni e senza speranze, entra in scena, contrastivamente, Giada Ferretti, la studentessa universitaria contraddistinta da brufoli, coda di cavallo, occhiali grandi e spessi, abbigliamento dimesso. Netto è il contrasto tra la “sostanza” di lei, “homo sapiens”, e “l’apparenza” di Nicolas Vaporidis, “abituato a stare sulla giostrina”, spaccone “homo ridens”. Basilare il messaggio che Volfango De Biasi trasmette con un’acuta progressione in climax di emozioni che lo esplicitano. Se, da un lato, sottolinea la demistificante etica che antepone l’apparire all’essere, dall’altro, vuole risalire la china, riallacciare i rapporti umani e far risplendere la luce che alberga in ogni animo.
L’Oscar italiano 2014 è, in definitiva, un capolavoro da vedere e rivedere per coglierne l’essenza che stigmatizza una dilagante condizione di solitudine e di incomunicabilità. È un documento rappresentativo che richiama temi di sempre e, addirittura, giunge a Seneca. Lo scrittore latino, implicitamente, si volge alle nuove generazioni e le spinge a sfruttare in maniera propositiva il “quod est”, senza rimpianti per il “quod fuit” o senza progetti astratti da rimandare al “quod futurum est”(33). Paolo Sorrentino, smascheratore implacabile, ne LA GRANDE BELLEZZA, conduce ai termini estremi la grande malattia del secolo codificata come paralisi dell'anima. Il regista, dunque, affronta il problema contemporaneo di “morte prematura, non vita”(34) nella speranza che, interpretandolo scientificamente, possa far scaturire, dalle continue frustrazioni, un pessimismo attivo che farà divenire migliori.
Densa di connotazioni si rivela, in quest’ottica, l’immagine di copertina. Jep, fasciato nel suo sagomato abito bianco, spicca sullo sfondo color amaranto. Indossa la solita maschera del cinico sentenzioso sempre sicuro di sé e delle sue apodittiche verità, ma, senza più i brividi dei grandi sogni, non riesce più a provare stupore e meraviglia né ad aprire i suoi “occhi spenti sull’universo”(35). Icasticamente, gli si staglia davanti, quasi a intralciargli il cammino verso la redenzione, l’ombra che fa salire a galla i contrasti dell’anima e non fa presupporre alcuna epifania. Così pare, eppure il fiore di amaranto, nella cultura occidentale, è simbolo dell’immortalità, è l'unico che non appassisce e, con la sua bellezza eterna, si contrappone a quella fugace delle rose. Così come il fiore, pur essiccato, riprende vita miracolosamente appena giunge a contatto dell’acqua, anche Gambardella, proprio nel momento in cui le speranze sembrano abbandonarlo definitivamente, trova il coraggio di rimettersi in gioco. Si reca all'Isola del Giglio per un reportage sul naufragio della Costa Concordia e proprio qui, ricordandosi del suo primo incontro con Elisa, sente riaccendersi dentro un barlume di speranza. Ha finalmente capito. E’ molto più importante “rendersi protagonisti della propria tragedia piuttosto che spettatori della propria vita inerte”(36). Sul suo sguardo finalmente sereno che osserva sorridente l'alba romana, si chiude il film … Toni è inciampato nella verità e si è rialzato tirandosi fuori da questo dissacrante mondo in sfacelo. Il suo prossimo romanzo è finalmente pronto per venire alla luce, il suo IO è rinato.
Matilde Perriera
NOTE
1)
Miglior regista European Film Awards 2013, Nastri d'argento 2013, Palma d'oro 2013, Guardian Film Awards 2014, Premio Fellini 8½ per l'Eccellenza Artistica Bari International Film Festival 2014
2) “L’Apparato Umano” è l’ipotetico romanzo che avrebbe scritto il protagonista Jep Gambardella e che doveva essere, inizialmente, il titolo originale de “La Grande Bellezza”
3) Antonella Dilorenzo, La grande bellezza: i 10 motivi per cui andare a vedere il film di Paolo Sorrentino, 23 maggio 2013, cinema.excite.it
4) Luca Bigazzi, Nastri d'argento 2013 e Globo d'oro 2013
5) Nastri d'argento 2013, Miglior colonna sonora
6) Antonella Dilorenzo, Ibidem
7) Filippo Catani, Un capolavoro cinico e poetico allo stesso tempo, www.mymovies.it, 2 giugno 2013
8) Guardian Film Awards 2014 Miglior scena a "Party iniziale"
9) Autrice e interprete Raffaella Carrà, "A fare l'amore comincia tu", 1976; la canzone in versione remixata è stata scelta come colonna sonora per promuovere il film La Grande Bellezza negli spot pubblicitari
10) Enrico Omodeo Sale, Un ritratto corale di una borghesia in disfacimento, www.mymovies.it, mercoledì 29 maggio 2013
11) Sindrome di Stendhal: l’affezione psicosomatica che provoca tachicardia, capogiro, vertigini, confusione e allucinazioni in soggetti molto sensibilii messi al cospetto di opere d'arte di straordinaria bellezza, con sintomi, appunto, avvertiti dallo scrittore francese durante la sua visita alla chiesa di Santa Croce a Firenze. Il riconoscimento scientifico di tale sindrome risale al 1979, per volontà della psichiatra Graziella Magherini. Più della metà delle sue vittime sono di matrice culturale europea e giapponese, esclusi gli Italiani per affinità culturale. Fra i più interessati, vi sono gli individui di formazione culturale classica o religiosa che spesso vivono da soli.
12) Dismorfofobia: La paura di presentare la propria immagine e l'insicurezza che ne deriva nei rapporti interpersonali per un difetto nell'aspetto fisico che può non esistere o essere di minima entità
13) Carlo Verdone, Nastri d'argento 2013 Migliore attore non protagonista
14) Sabrina Ferilli, Nastri d'argento 2013 Migliore attrice non protagonista
15) Omero Sala, Viaggio al termine della notte www.mymovies.it, 23 luglio 2013
16) Giusi Merli, Intervista, 2003
17) Giusi Merli, Intervista, 2003
18) Giusi Merli, Intervista, 2003
19) Enrico Omodeo Sale, Ibidem
20) Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit), 1932.
21) Louis-Ferdinand Céline, Ibidem
22) Luigi Pirandello, Il treno ha fischiato, 1914 in Matilde Perriera, Le trottole di Pirandello, Psicolab, 01 marzo 2014
23) Toni Servillo, Migliore attore all'avanguardia Hollywood Film Festival 2013, Sevilla Festival de Cine 2013, European Film Awards 2013, Globo d'oro 2013, Diploma di Merito per il miglior attore straniero Jussi Award 2013, Nastri d'argento 2013, Miglior linea di dialogo e Miglior attore Guardian Film Awards 2014, Premio Fellini 8½ per l'Eccellenza Artistica Bari International Film Festival 2014
24) Niccolò Ugo Foscolo, Alla sera, 1802-1804
25) Niccolò Ugo Foscolo, Notizia intorno a Didimo Chierico, 1804-1806
26) Eugenio Montale, Spesso il male di vivere, 1916
27) Federico Fellini, La dolce vita, 1960, Oscar 1962
28) Alberto Moravia. Gli Indifferenti, 1929
29) Edoardo Sanguineti, Alberto Moravia, 1962
30) Matilde Perriera, Occhi spenti sull’universo, Psicolab, 8 settembre 2011
31) Come tu mi vuoi, Volfango De Biasi, interpretato da Nicolas Vaporidis e Cristiana Capotondi, 2007
32) Matilde Perriera, Psicolab, Il pacchetto della propria Unicità, 1 giugno 2010
33) Seneca, De br.vitae x, 2-6, Il passato, il presente e il futuro
34) Antonio Gramsci, La Città futura, 1917
35) Matilde Perriera, Occhi spenti sull’universo, Psicolab, 8 settembre 2011
36) Oscar Wilde, Aforismi, 1882
Libri pubblicati da Riflessioni.it
365 MOTIVI PER VIVERE RIFLESSIONI SUL SENSO DELLA VITA |
|