Riflessioni sul Senso della Vita
di Ivo Nardi
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Riflessioni sul Senso della Vita
Intervista a Federico E. Perozziello
Luglio 2012
Federico E. Perozziello, Medico Chirurgo con una specializzazione in Pneumologia e una in Chemioterapia e una Laurea in Storia. Oltre all'attività clinica, ha sempre cercato di approfondire negli anni le tematiche relative alla Storia della Medicina. Ritenendo tuttavia che questa rimanesse spesso su di un piano di mera interpretazione descrittiva, ha finito per interessarsi alla Filosofia della Scienza, con particolare attenzione agli aspetti epistemologici, politici, economici e sociali del rapporto tra uomo e malattia.
Dal 2004 al 2009 ha ricoperto l'incarico di professore a contratto di Logica e Filosofia della Scienza presso l'Università degli Studi di Milano e dal 2010 insegna anche Antropologia Medica presso l'Università degli Studi dell'Insubria di Varese.
Dal 2011 cura su Riflessioni.it la rubrica Filosofia della Medicina.
Per approfondire la sua bio-bibliografia: www.filosofia-medicina.net
1) Normalmente le grandi domande sull’esistenza nascono in presenza del dolore, della malattia, della morte e difficilmente in presenza della felicità che tutti rincorriamo, che cos’è per lei la felicità?
Nel romanzo di H. G. Wells la Macchina del Tempo, l’inventore spingeva il congegno che aveva costruito oltre l’anno 800.000 d.C. Quello che trovò era una comunità di esseri umani eternamente giovani, sereni e indifferenti alle angustie e miserie dell’esistenza. Purtroppo il prezzo da pagare a tale condizione consisteva nel fatto che una parte di loro venisse sacrificata periodicamente, per essere divorata da creature per nulla eteree, ma molto concrete ed antropofaghe, che avevano preso ad abitare gli antichi e oscuri recessi del sottosuolo terrestre.
La felicità è un attimo sospeso su di un abisso di incertezze e di caos ingestibile. Un sentimento effimero, che può durare poco con intensità e solo a prezzo di ignorare il dolore che ci circonda. Questo non vuol dire non sia possibile ottenerla per breve tempo, ma per rallegrarcene compiutamente dobbiamo ignorare la non felicità altrui.
Se protratta oltre questa precaria condizione, la felicità diventa uno sterile ed egoistico compiacimento, destinato ad alimentarsi di indifferenza per poter sopravvivere. Esiste tuttavia una forma di felicità che non si esaurisce in una ricerca del proprio autocompiacimento. E’ quella che ci sorprende quando riusciamo a fare felici le persone che amiamo, quando osserviamo il sorriso rasserenare un viso che ci è caro. Si tratta di un sentimento non effimero, cui raramente pensiamo, mentre è a portata di mano, vicino a noi.
2) Professore Perozziello cos’è per lei l’amore?
L’amore è la vernice verde di quella panchina dove l’ho incontrato la prima volta nell’estate del millenovecentosessantanove. Si nascondeva nello sguardo della ragazza sull’autobus numero 47, che andava da piazza Risorgimento a Monte Mario, a Roma, insieme alle colonne mozze dei desideri mai realizzati. Il camminare a Pompei, più antico delle pietre che calpestavo, quel freddo mattino di marzo. La magica notte della luna, su quel lago sperduto e perduto nelle montagne del Ticino, di cui rammento ogni parola e momento. L’affetto dolce e costante, insieme alla fiducia serena che mi offre ogni giorno, la persona che divide con me il tempo e il destino.
L’amore è ciò in cui abbiamo creduto e ci siamo raffigurati, che continua la propria vita a nostre spese. Di poco ci fa credito. E’ un vecchio usuraio, che ben conosce le nostre disperate mani bucate, incapaci di trattenere quello che abbiamo per qualche istante accarezzato. Questo perché la bellezza non serve per essere amati e neppure l’intelligenza. Non occorre la lealtà, come pure la fedeltà. Anche la saggezza e la convenienza sono del tutto superflue. Occorre solo un piccolo, magari inutile difetto, che leghi la follia e la speranza ai nostri gesti e faccia trepidare. A quello daremo il nome di amore.
3) Come spiega l’esistenza della sofferenza in ogni sua forma?
E’ nota la durezza dell’addestramento cui gli antichi Spartani sottoponevano i propri giovani ed è stata tramandato nei secoli l’episodio del ragazzetto che si fece dilaniare le viscere da una volpe che aveva rubato e nascosto sotto la tunica, pur di non tradire, attraverso la manifestazione della propria sofferenza, il furto dell’animale. In quel caso la vergogna di essere scoperto era stata superiore al dolore fisico. Aveva accompagnato la sofferenza morale per una possibile perdita di dignità e di un ruolo ambito di futuro guerriero. Generato infine un esito drammatico e insieme condizionato dalle aspettative della comunità, che gravavano sull’individuo e le sue fragilità.
Nessun essere umano desidera soffrire e soprattutto nessuno vuole andare incontro al dolore senza motivo. L’inutilità del disagio esistenziale costituisce un peso più difficile da sopportare del dolore stesso. Nella storia umana rimane presente l’utopia di poter eliminare per sempre il dolore dalle vite degli uomini. Quest’aspirazione sorregge uno dei presupposti su cui si basa la medicina, una delle dichiarazioni di intenti più riaffermate nel mondo moderno, anche se in modo un po’ ipocrita e superficiale. Nel pensiero del filosofo medievale Guglielmo di Ockham, l’uomo arrivava a giustificare l’esistenza di un Dio che permetteva anche il dolore e il male che pervadevano il mondo nel nome di una libertà assoluta concessa all’uomo. Ipotizzando una potestas discrezionale della divinità di poter fare anche ciò che non voleva fare, il dio di Ockham permetteva il dolore e tutte le sue conseguenze. Tuttavia una malattia storicamente importante come la lebbra, il cui primo sintomo è costituito dall’anestesia cutanea, ci dimostra come la sofferenza non sia solo ineliminabile dalla vita umana, ma non debba neppure esserlo.
Il dolore difende il corpo da una possibile distruzione. L’assenza della sofferenza può dunque essere pericolosa quanto l’abuso di una condizione di felicità. La spiegazione dell’esistenza del dolore risiede forse in questa apparente contraddizione, che lega la grandezza della condizione umana alla sua fragilità e sempre possibile miseria, in attesa di un riscatto. Una solidarietà consapevole può essere un modesto e pur tuttavia irrinunciabile rimedio a questa condizione.
4) Cos’è per lei la morte?
L’abate Fredegiso di Tours visse in un’Europa in cui l’Impero Carolingio sembrava opporsi con tutto il suo prestigio e la sua forza alla disgregazione di quel che restava dell’antica civiltà romana. Argomentò, questo sottile pensatore, che il termine nulla, cioè il latino nihil, dovesse per forza indicare qualcosa di realmente presente ed esistente. Il suo ragionamento, espresso in un piccolo trattato, subito apparso in odore di eresia e dal titolo di De nihilo et tenebris (Intorno al Nulla e alle Tenebre), si basava sul fatto che la grammatica e il linguaggio attribuissero ad ogni nome un proprio equivalente reale. Pertanto anche il termine nulla avrebbe dovuto indicare qualcosa di esistente in sé, indipendentemente dalla difficoltà di descriverlo e quindi di definirlo per assenza di esperienza diretta.
Noi siamo qui, in questa vita che ci è stata destinata, non sappiamo bene da chi e per che cosa. Siamo qui, ognuno con il bagaglio delle proprie gioie e dei propri dolori, questi ultimi sempre di più, mano a mano che il tempo passa. A poco serve, come consolazione, ricordare che ad altre vite, ad altre anime sia stato riservato un destino peggiore o semplicemente diverso dal nostro. Non sarà questa constatazione che ci potrà salvare dall’angoscia, non è il conoscere questa verità che renderà meno inquietante la paura della fine. Per quanto distratti dall’inutile e convulso affannarsi verso il consumo e la conquista di un benessere materiale che dovremo comunque lasciare, per quanto i piaceri dell’esistenza esercitino un’attrazione a cui sia difficile rinunciare, comprendiamo bene che non sono queste temporanee gratificazioni che possono colmare il desiderio di attraversare il margine della precarietà che si avvolge attorno a noi, si dipana lungo lo scorrere delle nostre esistenze. Prima che qualcuno ce lo mostrasse, abbiamo avvertito nell’inconscio ciò che esiste e ciò che non trova modo di manifestarsi se non nel negativo concettuale, che deve per forza rimanere ai margini della vita e delle domande, offrendo risposte prive di suoni. Termini inarticolati, comprensibili solo negli spazi vuoti lasciati in ogni frase tra le singole parole. Nessuno ha mai potuto raccontare l’esperienza della propria morte. Una realtà che da un punto di vista concettuale, secondo alcuni filosofi, non dovrebbe neppure esistere, poiché, come affermavano i pensatori del Circolo di Vienna, ciò di cui non è possibile tramandare un’esperienza rientra nei confini della metafisica e non tra quelli della conoscenza razionale. Eppure ogni giorno, ogni istante, la morte si riappropria di una presenza tra di noi, prendendo con sé una persona che abbiamo conosciuto, un amico, un personaggio pubblico che amiamo o abbiano detestato. Tutto sembra avvenire in modo casuale e imperscrutabile.
Consapevoli di questa verità, trascorriamo il nostro esistere cercando di sfuggire e rimandare un destino inevitabile. Ignorandolo, quando non riusciamo a controllarlo. Temiamo ciò che ci attende perché rifiutiamo di essere una traccia senza significato, un istante trascurabile nello scorrere del fiume degli eventi. Molte volte abbiamo scrutato il buio della notte, sentendoci attirati da quei punti luminosi, così lontani nell’oscurità. Questo ci ha reso ancora più sicuri di ciò che non desideriamo avvenga: l’essere dimenticati. In una notte segnata dal cammino delle stelle lungo l’arco dell’orizzonte, distesi sulla sabbia di una spiaggia del Sud Italia o di un’incantevole isola greca, potremo ammirare l’infinita teoria delle luci della Via Lattea. Sentiremo, ancora una volta e per un breve momento, di essere partecipi di un’infinità che trascende le nostre singole vite, che giustifica il nostro esistere anche solo in una breve contemplazione. Seppure ignoriamo cosa ci sia riservato oltre la porta che ci separerà dalla realtà di questa vita e siamo consapevoli di come non esistano risposte certe per il dopo, avvertiamo dentro di noi quali siano le azioni positive che possiamo fare in questa, di esistenza. Etica e conoscenza allora si confrontano e nessuna delle due potrà mai sfuggire all’altra. L’etica giustifica il conoscere e quest’ultimo nulla vale se non serve ad aiutare chi è stato meno favorito dalla sorte. Osserviamo il mondo che si stende davanti ai nostri sensi. Nonostante l’avvertenza che esso possa essere solo un’effimera apparenza, un leggero e magari beffardo incanto, non è invece un’illusione ciò che di amorevole possiamo fare per gli altri, seguendo le indicazioni dettate dall’etica. Azioni che siamo chiamati ogni giorno a scegliere di operare e che possiamo anche liberamente rifiutare. Sappiamo che l’amore riaffermerà per sempre la nostra indipendenza e dignità davanti al mistero che ci attende, consapevoli di aver almeno provato a vivere con pienezza la nostra condizione di essere uomini.
5) Sappiamo che siamo nati, sappiamo che moriremo e che in questo spazio temporale viviamo costruendoci un percorso, per alcuni consapevolmente per altri no, quali sono i suoi obiettivi nella vita e cosa fa per concretizzarli?
Scriveva Jorge Luis Borges, in uno degli splendidi racconti contenuti nel piccolo volume dell’Aleph, che tutti noi accettiamo la realtà, così come essa si presenta ai nostri sensi, perché intuiamo come in fondo essa non sia reale. Conosciamo la nostra nascita da testimonianze altrui, di cui dobbiamo fidarci, come pure ci basiamo, se abbiamo avuto la fortuna di avere dei figli, sulla nostra esperienza diretta degli eventi. Le cose accadono. Legati a questa consapevolezza attraversiamo un tempo che ci hanno insegnato essere lineare, che tenderebbe verso qualcosa. Una strada che sappiamo in anticipo di poter percorrere fino ad un certo punto, fino ad una ignota pietra miliare che ci attende, costruita per segnare i confini della nostra unicità, legata ad essa in modo indissolubile. All’interno di questa gabbia esistenziale, senza pareti e sbarre, siamo apparentemente liberi di poter disporre di un destino. Si tratta unicamente di una possibilità, non di una certezza. L’angoscia inespressa e la sensazione di incompletezza che spesso si muove sullo sfondo dell’inconscio, fa sì che per ottenere delle costruzioni di eventi secondarie alle nostre azioni occorra prendersi terribilmente sul serio. Non tutti ne sono capaci, sia per innata modestia, che per un deficit di consapevolezza, a volte perfino ricercato. Molti si accontentano di vivere giorno per giorno, addormentando la coscienza in una gratificazione legata ai piaceri, una modalità di comportamento cui nessuno può, almeno in parte, sfuggire. Ignoro se esista una finalità che mi abbia assegnato degli obiettivi da raggiungere. So comunque che astenermi dal commettere azioni malvagie, inutili o stupide sarà di per sé stesso un comportamento che potrà riscattarmi dalla schiavitù della condizione esistenziale in cui penso e mi muovo. Potrà farlo solo davanti alla coscienza, un’entità di cui non conosco fino in fondo i confini e le tolleranze. La sento esistere e con essa sono costretto a confrontarmi. Davanti a una storia da raccontare, a un’idea da comprendere e spiegare a me stesso e agli altri, percepisco che questo è ciò che so fare e che mi regala momenti di serenità. Può bastare.
6) Abbiamo tutti un progetto esistenziale da compiere?
Vorrei ci fosse, anche se spesso sembra così difficile crederlo. La ragione e i sentimenti fanno comprendere come la dignità degli uomini sia la stessa in ogni regione del pianeta, gli eventi storici conducono invece questa consapevolezza verso altre direzioni.
Un numero sterminato, una vera moltitudine di esseri umani non ha goduto del privilegio del ricordo legato alla propria individualità. Penso agli schiavi che hanno costruito le piramidi, ai soldati di Alessandro Magno che hanno combattuto e vinto fino ai confini del mondo, agli amanuensi che hanno salvato, nel chiuso dei conventi e delle copisterie, il sapere di tutti dagli zoccoli dei cavalli dei Vandali e degli Unni.
Sono esistiti i corpi dilaniati dalle granate della Grande Guerra, quelli dissolti nelle fiamme dei crematori dei lager e inceneriti dalla bomba atomica. Annichiliti nel loro essere, nella loro irripetibile individualità. Se il progettista di questo massacro era un po’ distratto, forse è stato anche a causa nostra, per l’incapacità di tenere conto delle contraddizioni umane. Solo la pietas per questi volti senza ricordo può allontanare l’angoscia per i destini degli innominati e degli innominabili. Potrebbe essere questo il progetto che ci resta da compiere.
7) Siamo animali sociali, la vita di ciascuno di noi non avrebbe scopo senza la presenza degli altri, ma ciò nonostante viviamo in un’epoca dove l’individualismo viene sempre più esaltato e questo sembra determinare una involuzione culturale, cosa ne pensa?
L’individualismo è l’acqua con cui viene irrigato il terreno dove nasce la sopraffazione. In ambito economico il processo è ormai ben conosciuto, prende il nome di mercato e gli esiti di aver abbandonato il mondo nelle sue mani sono davanti agli occhi di tutti. Non che non ci fosse stato chi avesse indicato per tempo questi pericoli. Pensatori come Karl Marx e Keynes stanno per fortuna tornando di moda davanti all’ottusa crudeltà di speculazioni che giustificano unicamente sé stesse e le sopraffazioni che finiscono inevitabilmente per provocare.
Al mercato non importa nulla di diverso che non sia il profitto. Può perfino destinare una parte delle proprie risorse alla cultura e all’arte, purché queste siano funzionali alla produzione di denaro e, attraverso questo, all’aumento del potere di una delle parti in gioco. Si esalta l’individualismo proprio in un momento in cui la crisi economica planetaria dovrebbe far riflettere sulla inadeguatezza di certi modelli di sviluppo. Pensiamo veramente di aumentare l’occupazione e il benessere tornando a produrre più automobili, estraendo una quantità maggiore di petrolio, rendendo possibile ad ognuno di comprarsi il terzo o quarto telefono cellulare? L’uomo individualista e consumatore non è altro che un antropofago di sé stesso e delle proprie speranze. Inconsapevole di percorrere una strada che lo porterà comunque all’insoddisfazione e all’infelicità.
8) Il bene, il male, come possiamo riconoscerli?
Vi sono stati aguzzini che coltivavano fiori e accarezzavano bambini. Uomini gentili e apprezzati dai vicini di casa che bruciavano le loro mogli e compagne nelle stufe. Santi duri come l’acciaio e privi di compassione come statisti severi. Ora dormono in arche d’argento, nel fasto barocco delle chiese più ricche, tuttavia non si sono mai chinati per sollevare Galileo inginocchiato nel pronunciare l’umiliante abiura cui lo avevano costretto e non hanno mosso un dito per spegnere le fascine che divoravano il corpo di Giordano Bruno. Non siamo ciò che diciamo, ma ciò che facciamo, affermò lo sfortunato e immenso filosofo Charles S. Peirce alla fine del XIX Secolo. Mi pare ancora oggi l’unico criterio da adottare per evitare confusioni di ruoli tra bene e male e loro reciproche, frequenti autogiustificazioni ed intrecci. Non è molto, ma appare comunque un criterio stabile e privo soprattutto di odiosa retorica.
9) L’uomo, dalla sua nascita ad oggi è sempre stato angosciato e terrorizzato dall’ignoto, in suo aiuto sono arrivate prima le religioni e poi, con la filosofia, la ragione, cosa ha aiutato lei?
La religione ha sorvegliato i miei passi incerti di bambino e quelli arroganti di adolescente. La filosofia ha affascinato la coscienza che germogliava e si interessava al mondo nuovo che le si articolava e mostrava davanti agli occhi. La ragione ha tracciato confini amari e necessari, entro cui racchiudere l’agitarsi scomposto delle domande senza risposta. Alla fine, tutte queste anime si ritroveranno e forse confesseranno, per prima cosa a loro stesse, di non poter vivere le une senza le altre. Il mistero che sovrasta questo incontro è ciò che tiene legati all’esistere. Se potrò, all’ultimo istante dei miei giorni, sceglierò la fede in un dio misericordioso.
10) Qual è per lei il senso della vita?
Domandarselo rivela di per sé stesso quanto sia difficile definirlo, oppure rinvenirlo. Certamente non è raggiungibile in solitudine, ma rivela qualcosa della sua natura unicamente nei rapporti con gli altri e con il mondo che ci circonda. Ci interroghiamo, a volte senza rendercene compiutamente conto, su cosa ci sia dietro o cosa giustifichi il come. Nessuno, in alcuna epoca di cui abbiamo memoria storica, ha trovato una soluzione definitiva, valida per ogni essere umano, accettabile senza a sua volta provocare riflessi di ingiustizia e di violenza. La Grande Biblioteca di Alessandria d’Egitto fu annichilita e bruciata dai seguaci di due diverse religioni monoteistiche, che promettevano entrambi un oltre vita colmo di delizie, necessario sicuramente a giustificare le crudeltà innominabili che esercitarono nel loro presente.
Da storico, da medico e naturalmente da uomo, un senso e una finalità a questo esistere lo inseguo negli attimi che la coscienza suggerisce possano alleviare il dolore altrui. In una ricompensa silenziosa e mai domandata esplicitamente, mentre il mio tempo passa, leggero come il vento delle notti d’estate ed io non posso fare altro che viverlo, il più possibile senza rimpianti.
RIFLESSIONI SUL SENSO DELLA VITA Un libro in cui sono raccolte risposte a domande esistenziali, date da diversi personaggi di cultura. L'autore è riuscito a cogliere, da ciascuno di loro, una personale considerazione su temi che coinvolgono l'intera specie umana e consentono al lettore di condividerla o confrontarla con la propria. |