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Riflessioni sulla Simbologia

di Sebastiano B. Brocchi
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Il Logos, benedizione o condanna

Giugno 2009

 

Nel corso di un incontro tenuto questa primavera con un piccolo gruppo di persone, in cui commentavo il "Corpus Hermeticus" ed alcune opere d’arte dall’interessante simbologia, mi sono ritrovato a parlare di un tema iconografico molto affascinante, che è quello delle allegorie medievali della Chiesa e della Sinagoga.
Non farò qui che un riassunto, che credo possa bene introdurre il tema che vorrei trattare in questo articolo. Le allegorie della Chiesa e della Sinagoga, sono delle immagini simboliche che si trovano rappresentate in alcune Cattedrali medievali, e vengono così chiamate poiché comunemente si ritiene (questa la spiegazione che ne dava il clero) simbolizzassero appunto la Chiesa cristiana e la Sinagoga ebraica. Le due comunità religiose, sono rappresentate, in queste allegorie, la prima come una figura trionfante e coronata, la seconda come sconfitta e bendata (la benda sugli occhi della Sinagoga rappresenterebbe la cecità dei "perfidi Ebrei" che non hanno riconosciuto la divinità di Gesù, crocifiggendolo). In realtà, la complessità e la ricchezza di elementi che caratterizzano queste due figure (la cosiddetta Chiesa e la cosiddetta Sinagoga) è tale da rendere chiaro, ad un’analisi meno superficiale, che si tratta di un’iconografia dal ben più profondo significato esoterico. Lasciando al clero del tempo, o ai libri d’arte di scuola media, l’interpretazione antisemita già riportata; proverò ora con voi ad avvicinare e cogliere il senso celato di queste figure antiche.

 

chiesa sinagoga Prima di tutto, osserviamo con più attenzione l’iconografia: la "Chiesa" è raffigurata trionfante, mentre cavalca un ibrido formato dalle quattro creature degli Evangelisti (toro, leone, aquila ed angelo), regge un’asta vessillifera ed un calice, e viene incoronata dalla mano di Dio. La Sinagoga, sconfitta, è bendata, cavalca un asino, tiene in mano una bandiera spezzata e una testa di capro, e il suo capo perde la corona mentre viene trafitto dalla mano divina.
I miei ascoltatori convennero con me che il significato profondo di quelle immagini esulasse l’esegesi tradizionale, e che fosse probabilmente materia esoterica riservata alla comprensione di pochi. Spiegai quindi che una possibile chiave di lettura si trovava nel "Corpus Hermeticus". Aprii dunque il volumetto dal vastissimo e preziosissimo contenuto sapienziale, e lessi: "Dove correte, o uomini ubriachi, dopo aver bevuto la dottrina dell’ignoranza come vino puro, che non potete neppure sopportare, e che già siete in procinto di vomitare? Fermatevi, e tornate in voi stessi. Volgete in alto gli occhi del cuore; e se non tutti ne siete capaci, lo facciano almeno quelli che possono. Il male dell’ignoranza inonda tutta la terra, corrompe l’anima imprigionata nel corpo, e non permette che essa getti l’ancora nel porto della salvezza. Non lasciatevi trascinare dalla violenza dei flutti, ma valendovi del riflusso, voi che potete raggiungere il porto della salvezza, gettatevi l’ancora e cercate una guida che vi mostri la via per giungere fino alle porte della conoscenza, dove brilla la luce splendente, scevra di tenebre, dove nessuno è ebbro, ma tutti sono sobri e rivolgono lo sguardo del cuore verso colui che vuole essere contemplato. Egli infatti non si può udire, non si può definire, né si può vedere con gli occhi, ma solo con l’intelletto e col cuore. (…)
Il peccato dell’anima è costituito dall’ignoranza. Quando infatti un’anima non è capace di conoscere gli esseri, né la loro natura, né il bene, ma è del tutto cieca, allora è soggetta alle passioni del corpo, e la sventurata, essendo stata incapace di riconoscere sé stessa (…) porta il suo corpo come un fardello, non lo domina, ma ne è dominata. (…) Al contrario la virtù dell’anima è la conoscenza (…).
L’anima umana, non ogni anima, ma quella che è pia, è in un certo senso come un demone, ed è quasi divina. Tale anima, dunque (…) dopo aver per così dire combattuta e vinta la lotta della pietà (che consiste nel conoscere il divino (…)), diviene tutta quanta intelletto. L’anima empia resta invece nella propria natura, castigando sé stessa da sola (…). E quale più grande castigo può esistere per essa, figlio mio, dell’empietà? Quale fuoco ha una fiamma così ardente come l’empietà? Quale belva è così feroce da mutilare un corpo, come l’empietà mutila l’anima? Non vedi quali pene patisce l’anima empia (…)?".

 

Per capire i passi citati bisogna anzitutto sapere che i termini "pietà", "anima pia", "empietà" e "anima empia", rivestono nella letteratura ermetica una valenza diversa da quella comunemente intesa ed assunta in ambito cristiano.
La pietà ermetica indica la visione e la comprensione di Dio, o meglio la capacità di vederlo e comprenderlo, per cui un’anima pia, in ambito ermetico, sarà un’anima il cui cuore e il cui intelletto sono stati gratificati dalla Conoscenza dei misteri divini. A ciò si oppone l’empietà e la condizione dell’anima empia, ovvero di chi vive ignorando cosa si cela oltre la cortina del mondo fenomenico.
In entrambi i casi, è l’Intelletto (Logos) a determinare il destino dell’anima. Nel caso dell’anima pia, il Logos sarà lo strumento della liberazione; mentre per l’anima empia, esso è il punitore, poiché è a causa della propria Consapevolezza (ovvero è a causa del Logos) che l’anima empia può rendersi conto della propria condizione di cecità.
Se l’Ecclesia e la Sinagoga dell’allegoria medievale si potranno ora comprendere come immagini esoteriche dell’anima pia e dell’anima empia in senso ermetico, si potrà ben capire che quello stesso Logos (mano divina) che incorona la prima rendendola trionfante, sarà causa del tormento della seconda, che da esso viene trafitta come da una spada.

 

Non mi dilungherò ora, come feci invece nell’ambito del mio discorso, sul simbolismo dei vari oggetti presenti nell’allegoria (le aste vessillifere, il calice, le corone, la benda…) che pure rivestono un ruolo determinante e per nulla casuale; ma intendo soffermarmi sulla duplice natura del Logos, che è benedizione o condanna a seconda della condizione dell’anima che lo accoglie; cercando di chiarire meglio questo concetto e le sue implicazioni.
Se consideriamo che il Logos o il Nous è, in noi, quell’Intelletto consapevole che ci permette di pensare a noi stessi come individui, e per questo diviene anche il "giudice" che per tutto il corso della nostra esistenza ci permette di riflettere sui nostri pensieri, i nostri sentimenti e le nostre azioni; svolgendo una continua azione di autocritica e facendo sì che prima di prendere una decisione possiamo soppesarne i pro e i contro, e dopo averla presa possiamo riconsiderarla a posteriori dandone un giudizio personale; capiremo che è proprio il Logos a determinare la nostra gioia o il nostro sconforto in relazione alla condizione della nostra anima. In altre parole, se nel corso della nostra vita potremo essere illuminati da una certa comprensione delle cose, e dalla serenità che dalla comprensione deriva, sarà il Logos a permetterci di essere consapevoli della pace e della visione chiarificatrice che avremo creato in noi. Al contrario, se non sapremo porci alla vita con animo indagatore, fermandoci all’apparenza delle cose e non riuscendo a cogliere le armonie sottili che governano l’universo; il Logos ci renderà consapevoli del nostro disorientamento e dell’oscurità del nostro procedere.
Si badi bene a distinguere l’effettiva natura di questa "punizione" inflitta dal Logos all’anima empia: lungi dall’essere un castigo a carattere definitivo e fine a sé stesso (il che sarebbe contrario all’armonia che, in natura, fa sì che tutto evolva verso un miglioramento), andrebbe inteso piuttosto come un’azione di contrasto atta a stimolare una reazione di rifiuto ed una conseguente ricerca del mutamento. Mi spiego: l’anima che, incapace di scorgere Dio nella creazione, vive travolta dal tormento dell’ignoranza riguardo alla propria origine e al proprio destino; e che, consapevole delle proprie azioni, le giudica insufficienti, malvagie o sbagliate, e che in conseguenza di questo prova rimorsi, sensi di colpa, ripensamenti e in generale una certa perdita di fiducia in sé stessa; sarà stimolata, seppur inconsciamente, dall’impulso di cambiare, dalla volontà di conoscere, di comprendere, di agire meglio, in una parola di perfezionarsi.
Il che non avverrebbe, naturalmente, se l’individuo avesse l’illusione di essere perfetto, onnisapiente, infallibile. L’azione soteriologica del Logos, sta dunque nel porre lo spirito di fronte a sé stesso, imponendogli di prendere coscienza della propria condizione, e stimolandolo nella direzione di una costante affinazione del .
Questo per dire che l’allegoria della Chiesa e della Sinagoga non vuole presentarci una situazione statica, un "giudizio finale" che determina l’eterna dannazione dell’anima empia e la gloria dell’anima pia; bensì mostrarci l’azione del Logos che continuamente lavora in noi stessi mettendoci di fronte alle nostre mancanze, debolezze, facendoci prendere coscienza dei nostri errori.
Per questo il Cristo (Logos) del "Vangelo di Matteo" afferma: "Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma la spada". Quella spada (la stessa che trafigge la testa della Sinagoga) rappresenta lo strumento con cui il Logos, il nostro Intelletto, ci combatte, giorno dopo giorno, per renderci perfetti. "Infatti la parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l'anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore" ("Ebrei", 4,12). Una spada che è dunque una "voce", voce dell’interiorità che giudica sé stessa.

 

cavaliere e dama Mi viene in mente il singolare personaggio dell’Orgogliosa di Nogres.. In un passo significativo del "Perceval" di Chretien de Troyes, il cavaliere Galvano "vide in un prato, sotto un olmo, una damigella sola che, più bianca di neve fresca, si rimirava il viso e il collo. D’un diadema bordato d’oro s’era fatta corona. Messer Galvano sprona verso la bella a grande andatura, ma ella gli grida: "Piano! Piano, signore, e con prudenza, ché la vostra corsa è ben folle! Non dovete affrettarvi in tal modo per non rompere il passo del vostro cavallo. Folle è colui che per nulla s’adopra!". "Che il Signore vi benedica", dice messer Galvano. "Orsù, ditemi mia bella amica, a che pensavate quando gridaste ‘piano’ senza saperne il perché?". "In fede mia, ben sapevo, cavaliere, quel che volevate". "Cosa dunque?", le dice.
"Prendermi e portarmi giù in basso sul collo del vostro cavallo". "Avete detto il vero, damigella!". "Lo sapevo", risponde, "ma maledetto sia colui che lo pensò. Guardati dallo sperar mai di condurmi via sul tuo cavallo. Non sono donna vana con cui i cavalieri si dilettano portandola sull’incollatura quando vanno in cavalleria. Non mi porterai via! E tuttavia, se l’osassi, potresti forse ottenerlo: se ti volessi dare la pena di andare a cercare e di recarmi il mio palafreno, che è in quel giardino, io ti seguirei, finché in mia compagnia non ti capitasse avventura crudele di dolore, di onta e di sconfitta". "Bella dama, non m’occorrerà che il coraggio?" le chiede. "Nient’altro, vassallo, così credo"
". Detto fatto, Galvano procura alla damigella il palafreno, ed essa si mette a seguire il cavaliere in tutte le sue successive imprese, deridendolo, criticandolo, canzonandolo, e suggerendogli le vie da intraprendere con il preciso intento di condurlo alle imprese più ardue. Eppure, è proprio grazie a questa "crudele" compagna di ventura, che Galvano si troverà ad affrontare (vincendo, ed ottenendone onore e ricchezze), prove in cui nessun altro cavaliere era mai riuscito, come ad esempio debellare le difese del magico "Letto della Meraviglia", "ove nessuno dorme o riposa, si ristora o siede, che poi si rialzi vivo"; o saltare a cavallo le profonde acque del "Guado Periglioso"…
La damigella, rappresenta il Logos del cavaliere, la sua autocritica, il suo sprone, la sua tempra (riguardo all’interpretazione di questa vicenda rimando anche a Dominique Viseux, "L'iniziazione cavalleresca nella leggenda di Re Artù") . E questo avviene, in realtà, in ognuno di noi. Così che per ognuno di noi, al termine della nostra esistenza terrena o Iniziazione della vita, come di Giacobbe dopo la notte trascorsa a Penuel combattendo con l’angelo di Dio, si possa ben affermare: "Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto"…

 

Sebastiano B. Brocchi

 

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