Home Page Riflessioni.it
Riflessioni Teosofiche

Riflessioni Teosofiche

di Patrizia Moschin Calvi  - indice articoli

 

Dopo la morte ci risvegliamo?

Di John Algeo
Gennaio 2012

 

Secondo la tradizione teosofica sapere se dopo la morte siamo coscienti o no è di grande interesse. A questo proposito faccio riferimento agli articoli di Adam Warcup e di E. Lester Smith, apparsi nella rivista della Società Teosofica inglese, che mettono in evidenza diversi aspetti di questo argomento. Se esaminiamo l’essenziale, la questione si riduce a due concezioni diametralmente opposte.

La prima posizione dice che quando moriamo entriamo in uno stato d’incoscienza che dura tutto il tempo in cui dimoriamo nel kâmaloka (o piano astrale) e finisce quando, successivamente, passiamo nel devachen, ossia in quel mondo idilliaco di consolazione creato per ciascuno di noi. Secondo questo concetto, fondato essenzialmente su quanto viene detto ne Le Lettere dei Mahatma, non c’è mai una vera coscienza in nessuno dei momenti dopo la morte e non sono possibili nemmeno delle relazioni con altri. I rari casi in cui queste relazioni possono presentarsi, sono anormali e decisamente indesiderabili.

La seconda posizione invece, dice che la morte porta ad un adattamento della coscienza e lo stato post mortem non è altro che la continuazione dello stato di coscienza che avevamo durante la vita, anche se l’ambiente del post mortem è governato da altre leggi naturali, diverse da quelle del mondo fisico. Questa seconda posizione è da associare principalmente alle investigazioni di chiaroveggenti come C.W. Leadbeater. Per costoro, anche se ci possono essere dei periodi d’incoscienza, siamo sempre coscienti, sia negli stadi post mortem che durante la vita; e quindi è normale, dopo la morte, continuare ad avere delle relazioni con altri.

Questi due concetti degli stati post mortem sono molto diversi tra loro. Nel secondo caso per descrivere i dettagli e l’esistenza del post mortem, dovremmo fare una esposizione diversa per ognuno di noi. La differenza essenziale tra i due punti di vista si basa sulla questione della coscienza: esiste dopo la morte e prima della reincarnazione un periodo di tempo, di una qualsiasi durata, in cui si possa avere coscienza della presenza di altri esseri qui, in basso o nell’altro mondo ed è possibile entrare in contatto con loro? A questa domanda la prima posizione dice no, la seconda risponde affermativamente. Come mai, in seno alla tradizione teosofica, c’è disaccordo su questo punto fondamentale? Sarà bene esaminare i due punti di vista cercando di vedere su quali basi si fondano.

La prima posizione si basa su un’attenta lettura de Le Lettere dei Mahatma, che sono tra i testi essenziali dell’insegnamento teosofico. Per questo motivo vale la pena di soffermarvisi un po’. Secondo questa posizione al momento della morte sprofondiamo in uno stato d’incoscienza durante il quale si libera l’elemento più specificatamente umano che sta in noi (manas), dopo una lotta accanita tra l’elemento del desiderio (kâma), che tende a riportarci verso gli attaccamenti della nostra vita passata, e l’elemento dell’intuizione (buddhi), che ci conduce verso la parte impersonale e permanente del nostro essere. Dopo questo periodo di “gestazione”, in cui quello che in noi è durevole si separa da ciò che è transitorio, entriamo in uno stato di sogno e di benessere perfetto. Durante questo periodo siamo consolati delle ingiustizie che abbiamo subito nella vita passata. Lo stato post mortem rappresenta una specie di sonno che segue lo stato di veglia rappresentato dalla nostra vita. Un certo tempo lo passiamo immersi in un sonno profondo, sprovvisto di coscienza ed il tempo restante lo passiamo a fare dei gradevoli sogni. Il mondo dei vivi è un mondo di cause, quello dei morti è un mondo di effetti, nel quale nessuna nuova causa può essere generata. A tutto questo potremmo aggiungere altri dettagli, ma essenzialmente ecco in cosa consiste questa prima posizione.

Questo concetto suscita qualche obiezione. La prima si basa su degli opposti semplicistici: la vita e la morte, la coscienza e l’incoscienza, la veglia e il sonno. In effetti, anche se tali dicotomie a volte sono utili, esse rischiano di generare degli errori.

Per esempio, la linea di demarcazione tra la vita e la morte non è così netta come sembra. Se guardiamo il corso normale dell’esistenza, la coscienza incomincia a ritirarsi dalla vita ben prima che il corpo abbia smesso di funzionare. A questo proposito esiste una grande differenza tra gli individui, ma non è raro trovare persone molto anziane in cui la coscienza individuale (il sé che esprime la sua volontà creando la personalità) si è in gran parte ritirata, lasciando all’elementale il compito di continuare a funzionare nel corpo fisico. Questi individui sono collegati con il loro corpo soltanto da un tenue filo e la vita che perdura non è che la coscienza collettiva della vita elementale della forma, colorata dalla personalità che prima usava quel corpo come veicolo.

Anche l’istante preciso in cui si dice che il corpo è morto, è materia di discussione. È il momento in cui il respiro si ferma? Oppure quando il cuore smette di battere, o quando non c’è più nessuna emissione cerebrale? Le stesse autorità mediche non sono d’accordo sul momento in cui giunge la “morte”.

Pure la coscienza, è una cosa complessa. Noi non siamo mai solo coscienti o solo incoscienti; lo siamo in modo differente ed a livelli diversi. I ricercatori che studiano il sonno recentemente hanno dimostrato che esistono diverse fasi del sonno, attraverso le quali noi passiamo in modo ciclico mentre dormiamo. È quindi improprio, osservando la complessità di questi fenomeni, parlare solo di veglia e di sonno.

Come tutte le metafore, la comparazione della vita e della morte con la veglia ed il sonno, pur con tutti i suoi limiti, ci è molto utile. Essa serve soprattutto quando affrontiamo la questione delle cause e degli effetti. Ne Le Lettere dei Mahatma la vita è concepita come un mondo in cui produciamo delle cause, e lo stato post mortem come quello in cui conosciamo gli effetti di quelle cause.

“Come un rosario costituito da un’alternanza di perle bianche e di perle nere, la successione dei mondi è fatta di mondi delle CAUSE e di mondi degli EFFETTI, e questi ultimi sono l’immediato risultato dei primi”.

Le cause e gli effetti però sono un’altra dicotomia che tende a semplificare la realtà, poiché ogni effetto costituisce la matrice per delle nuove cause. Solamente i Buddha, che si sono risvegliati dal grande sonno dell’illusione, non generano più nessuna causa, in nessun mondo. Nel mondo delle cause è evidente che subiamo degli effetti. Il karma opera sia di qua che nell’aldilà, quindi produrremo delle cause nel mondo degli effetti in ragione delle nostre reazioni a tali effetti. Nel sonno normale facciamo fronte a dei problemi, troviamo delle soluzioni, osserviamo l’esperienza che abbiamo vissuto nello stato di veglia durante il giorno; queste azioni fatte durante il sonno hanno delle ripercussioni sulla giornata seguente. Similmente pare verosimile che durante il sonno della morte creeremo delle cause che influenzeranno la nostra vita futura. Parlare della vita e della morte in termini di mondi delle cause e di mondi degli effetti è metaforico tanto quanto parlare di veglia e di sonno. Tutte le metafore prese alla lettera sono una trappola per la mente.

Un’altra obiezione da fare si basa sulla descrizione delle condizioni post mortem descritte ne Le Lettere dei Mahatma. Certamente queste lettere contengono degli insegnamenti teosofici fondamentali, ma sono incomplete e non potrebbero in nessun modo essere citate come “parola di Vangelo” per sostenere un’argomentazione. Queste lettere non furono mai destinate alla pubblicazione. Erano istruzioni private, inviate ad una particolare persona. Esse non costituiscono un’esposizione organizzata ed esaustiva della Tradizione-Saggezza, ma una sequenza spezzettata di osservazioni a proposito di problemi discussi in una conversazione privata. Fare de Le Lettere dei Mahatma un documento pubblico che enuncia i fondamenti della Tradizione-Saggezza, vuol dire commettere un errore d’interpretazione.

Quando leggiamo Le Lettere dei Mahatma non dobbiamo mai scordarci che si tratta di frammenti di una conversazione privata che stiamo ascoltando con orecchio indiscreto. Di uno dei due corrispondenti pare che ci resti una corrispondenza parziale, dell’altro praticamente niente. Inoltre, il contenuto di queste lettere non era destinato a noi, ma ad un particolare lettore. Questo è di capitale importanza, perché nel mondo relativo in cui viviamo, la Verità assoluta e la Realtà assoluta non esistono. Esse esistono solo in rapporto a colui che le percepisce. Di conseguenza bisogna che una verità sia spiegata in funzione di colui al quale ci si rivolge.

Una parabola del Buddha mette molto bene l’accento sulla necessità di adattare le parole a coloro che ci ascoltano ed alle circostanze nelle quali parliamo: “Un bambino si trovava prigioniero tra le fiamme dei piani superiori di una casa che stava bruciando. Suo padre, da sotto, lo scongiurava di saltare dalla finestra tra le sue braccia. Il bambino però aveva paura di saltare e non capiva il pericolo che correva. Allora il padre disse a suo figlio: ‘Tu volevi un cavallino, vero? Ebbene io ho qui un magnifico pony bianco. Salta tra le mie braccia ed il cavallino sarà tuo’. Spinto dal desiderio d’ottenere il pony il bambino saltò ed ebbe salva la vita. La parabola continua dicendo che a terra non c’era nessun pony bianco”.

Si può dire che il padre mentì? Oppure che, nell’interesse di suo figlio, egli utilizzò un linguaggio che il bambino poteva comprendere? Il pony bianco non era una menzogna, ma una metafora.

L’insegnamento che ricevette Sinnett sul post mortem gli fu dato in un contesto in cui lo spiritismo era al suo culmine. Alla fine del diciannovesimo secolo in occidente tutti, compreso A. P. Sinnett, erano affascinati dai fenomeni paranormali, campanelli che suonano, tavoli che si spostano, ectoplasmi fluttuanti, spiriti guida, messaggi pervenuti dai cari estinti, notizie dal mondo degli spiriti, come ad esempio matrimoni tra spiriti. L’infatuazione di quell’epoca per lo spiritismo equivale a quella che i nostri giorni hanno per il channeling (canalizzazione – presunta comunicazione con spiriti e defunti dell’aldilà n.d.t.). A quei tempi, come oggi, i messaggi erano quasi sempre inetti e senza senso. La quasi totalità dei fenomeni nascondeva delle frodi. Solo alcuni, dice H. P. Blavatsky, erano autentici e le cause che li provocavano erano diverse da quelle attribuite agli spiritisti.
È chiaro che gli insegnamenti ricevuti da Sinnett erano destinati a prendere in contropiede le spiegazioni degli spiritisti a proposito di tutti quei fenomeni. Che si sia quindi deliberatamente voluto ridurre l’importanza delle rivelazioni concernenti la sopravvivenza o l’attività cosciente dopo la morte non deve stupire, tenendo conto del gran numero di assurdità che in quel momento circolavano a questo proposito. Se ne Le Lettere dei Mahatma si insiste sullo stato d’incoscienza e di sogno che segue la morte e non sull’attività cosciente degli esseri disincarnati, questo probabilmente deriva dall’epoca in cui furono scritte ed alla mentalità di colui che ne era il destinatario.

Lo stesso Sinnett riconosceva l’aspetto incompleto dell’insegnamento che aveva ricevuto. Ecco cosa scrive nell’introduzione dell’edizione americana del Buddhismo esoterico, un anno dopo la pubblicazione originale dell’opera: “È bene tenere presente che le mie indicazioni concernenti il kâmaloka – il mondo astrale da cui proviene la maggior parte dei fenomeni spiritici – sono il frutto delle mie domande e delle mie interrogazioni, piuttosto che di una scuola in scienze occulte, rigorosamente capace e condotta da professori impegnati nel seguire le regole dell’arte d’insegnare. È in questo modo che tutta l’opera è stata concepita. È per questo motivo che certe parti sono meno complete di altre e che tutte queste non possono essere considerate nient’altro che una schematizzazione”.

Sapendo questo, a causa della mancanza d’informazioni non dovremmo mai cercare d’“interpretare” Le Lettere dei Mahatma. La descrizione dello stato post mortem di cui si parla in queste lettere era indirizzata ad A. P. Sinnett, che aveva una certa predilezione per questo genere di fenomeni e che veniva da una società che coltivava con passione lo spiritismo ed il dialogo con i morti. Può darsi che gli autori di queste lettere abbiano vagliato le cose da dire o da non dire al loro corrispondente e che, adattando i loro scritti ai suoi bisogni particolari, gli abbiano fornito un adeguato pony bianco.

La seconda posizione concernente lo stato post mortem – secondo la quale “l’anima”, o l’entità che sopravvive, per un certo periodo di tempo che segue la morte, è cosciente – di solito viene associata a teosofi di seconda generazione, come C. W. Leadbeater. Ma in effetti essa esisteva, nelle sue grandi linee, anche tra i teosofi di prima generazione. Questa posizione sostiene che l’esistenza dopo la morte rappresenti in generale un misto di coscienza ed incoscienza, la cui natura e proporzioni variano da individuo ad individuo e sostiene inoltre che i morti a volte hanno coscienza di altri esseri e comunicano con loro.

Pare che anche Madame Blavatsky abbia sostenuto questa seconda posizione. In uno scritto, redatto prima in russo, tradotto poi per formare un capitolo de Dalle caverne alle giungle dell’Indostan, pubblicato poi nella rivista Lucifer, prima di essere finalmente integrato ne La Chiave della Teosofia, essa parla di questo argomento. Come suo portavoce aveva creato un personaggio che incarnava un professore, un sant’uomo pieno di saggezza. Ecco la risposta del maestro ad uno dei suoi allievi che dubitava che si possa essere incoscienti tra due vite: “La tua domanda consiste nel chiedersi se è possibile, per un essere, qualunque esso sia, anche se si tratta di un inveterato materialista, di perdere totalmente coscienza di sé dopo la morte? E’ questa la domanda?”.

E il professore continua asserendo che è possibile, perché la nostra vita dopo la vita è modellata ad immagine delle esperienze fatte durante l’esistenza materiale. Perciò, se siamo convinti che la coscienza non sopravvive al corpo quando moriamo, noi saremo incoscienti; se però saremo convinti del contrario, allora saremo coscienti: “Se si vuole avere una vita cosciente nel mondo futuro, bisogna innanzi tutto crederci durante l’esistenza terrestre … Dopo la dissoluzione del corpo inizia un periodo di piena coscienza risvegliata, uno stato di sogno caotico, oppure un sonno totalmente privo di sogni … E’ evidente che il fatto di credere o di non credere nell’immortalità della coscienza non può in nessun modo intaccare la realtà ultima di questa immortalità; ma che ci creda o non ci creda tutto questo non può mancare d’avere qualche effetto sul modo in cui questa realtà gli sarà applicata”.

Da quanto viene detto sopra impariamo che una delle possibilità dopo la morte è un periodo di “piena coscienza risvegliata” e che “l’immortalità della coscienza (la sua sopravvivenza)” è una realtà incondizionata.

Nello stesso capitolo, lo stato che viene dopo la morte è paragonato, secondo un’analogia ben conosciuta, al sonno. Ma, con qualche differenza, il professore sostiene che il sonno della morte è più reale della vita da svegli: “E’ per questo motivo che chiamiamo realtà la vita dell’oltre tomba ed illusione la vita e la personalità terrestre”.

Il professore rassicura il suo interlocutore, ancora disturbato dall’idea che la morte è come una specie di sonno, dicendo che per “sonno” bisogna intendere altro, non quello che normalmente siamo abituati ad immaginare: “Ti pare non pertinente comparare il sonno alla morte? Ricordati che l’uomo conosce tre tipi di sonno: un sonno profondo senza sogni, un sonno caotico popolato da sogni confusi e un sonno in cui i sogni sono talmente reali e lucidi che diventano, per colui che li sogna, la realtà più assoluta. Perché dunque non ammettere che la stessa cosa si produca per l’anima separata dal corpo? Al momento della separazione l’anima incomincia, in funzione dei suoi meriti ma soprattutto della sua fede, una vita di coscienza piena, o di semi incoscienza; oppure piomba in uno stato di sonno profondo, senza sogni, comparabile ad uno stato di non esistenza.

Lo stato post mortem che implica una coscienza totale è paragonabile al sogno lucido. Questo è un fenomeno che da qualche anno si studia sempre più. In questo tipo di sogno, il sognatore è cosciente di sognare e può, in tutta libertà, controllare lo svolgersi del sogno. Quando facciamo un sogno lucido siamo coscienti che stiamo sognando e, secondo H.P.B., in uno degli stati che segue la morte noi siamo “totalmente coscienti”.

La posizione di Blavatsky trova eco in William Quan Judge, suo rappresentante in America, che avrebbe dovuto succederle per prendere, insieme ad Annie Besant, la direzione della Sezione Esoterica dopo la sua morte. Alle due domande che gli venivano poste: “La maggior parte delle persone che non sono né molto cattive né molto spirituali, nel kâmaloka sono coscienti d’essere morte?” e: “Sono capaci di percepire le visioni karmiche di cui si dice che questo luogo sia pieno?” Ecco cosa rispondeva: “Così come i medici sanno che ogni corpo umano ha le proprie idiosincrasie, le quali hanno degli effetti sulla medicina, la stessa cosa capita negli stati del dopo morte: l’idiosincrasia di un individuo può avere un’influenza su di essi. Non esistono regole assolute che si possano invariabilmente applicare ad ogni individuo dopo la morte. Per questo motivo ne deriva che nel kâmaloka si può trovare una grande varietà di stati. Alcuni sono coscienti d’avere lasciato la terra, altri invece no. Alcuni sono capaci di vedere quelli che hanno lasciato, altri no. Certamente ogni individuo ha la capacità di vedere tutto quello che è collegato al settore in cui si trova in quel momento”.

Questo punto di vista, comune a Blavatsky ed a Judge, fu adottato dagli scrittori teosofi di seconda generazione, diventando così, a questo proposito, l’insegnamento teosofico predominante. C. W. Leadbeater, che era molto bravo a scrivere (e come scrittore ebbe molto successo) ha descritto un quadro, della vita dopo la morte, così intimo e così familiare (vedi La vita interiore) che non possiamo impedirci di pensare che si tratti di un pony bianco. Ma se mettiamo da parte lo stile vittoriano dell’autore, con la sua abbondanza di particolari ed i suoi eccessi di sentimentalismo, in fondo quello che dice è in accordo con la posizione di Blavatsky e Judge.

A conferma dell’opinione espressa da questi scrittori teosofici seguendo quanto detto dalla Blavatsky, dobbiamo aggiungere la tradizione universale delle religioni che dice che nello stato post mortem l’essere umano resta cosciente e intrattiene delle relazioni con altri. La tradizione cristiano-islamica del paradiso e dell’inferno perde di significato se l’anima che sopravvive non è cosciente dei castighi e delle ricompense che deve ricevere. La tradizione cattolica del purgatorio inoltre fa pensare che, nel dopo vita, è possibile cambiare il proprio stato, cosa che implica una volontà cosciente. Al cielo e all’inferno dell’occidente fanno eco i concetti orientali di svraga e avici, lasciando intendere che anche per loro esiste una vita cosciente dopo la morte. Secondo una tradizione buddhista l’anima dopo la morte si reincarna immediatamente in un mondo intermedio, se non addirittura in questo mondo fisico. Questo significa che la coscienza non si ferma mai. Persino nel “Bardö” della tradizione tibetana, che per molti aspetti è il modo di pensare più vicino a Le Lettere dei Mahatma, all’anima, prima della rinascita, viene offerta la possibilità d’accettare la Luce e, tramite questa, salvarsi dalla catena delle reincarnazioni. Per fare ciò occorre che ci sia una volontà ben sveglia. Effettivamente credere in uno stato d’incoscienza dopo la vita, come viene detto ne Le Lettere dei Mahatma, nelle religioni del mondo è una credenza poco diffusa, anzi unica.
Inoltre, in tutti i tempi, molte persone hanno avuto la sensazione d’essere state in contatto con altri esseri che li avevano lasciati. Capita sovente che un parente o l’amico di un defunto senta la presenza di costui nei primi tempi che succedono alla morte. Può capitare che chi rimane veda, senta o percepisca la presenza del defunto. Quasi sempre queste percezioni danno, a colui che le ha, un senso di conforto, perché chi rimane ha la convinzione che il defunto sia felice e stia bene.

I moderni psicologi possono vedere in questo una terapia contro il dispiacere, un modo per calmare le nostre angosce, i nostri timori o i nostri sensi di colpa. Inoltre l’effetto prodotto da tutto questo ci reca quasi sempre un senso di pace. Ma questo tipo di spiegazione deriva da una posizione riduzionista, che è sostenuta da prove non più di quanto lo sia l’altra posizione che spiega il fenomeno con dei contatti reali con il defunto. E’ solo l’idea che nessun contatto con una persona morta sia possibile che fa sì che un materialista convinto cerchi altrove altre spiegazioni. Comunque sia è meglio condividere un’esperienza umana universale, così come si presenta, ed accettarla, a meno che delle ragioni superiori a dei semplici pregiudizi non ci facciano intraprendere la ricerca di altre spiegazioni.

Le scienze e le religioni contro le quali H.P. Blavatsky si rivolgeva erano quelle che cercavano di dare delle risposte chiare e semplici a tutte le domande – risposte in accordo con i loro rispettivi pregiudizi – anche se c’erano delle contraddizioni a proposito della natura del mondo. Nei giorni nostri troviamo ancora delle spiegazioni così semplicistiche presso certi “sapientoni” popolari, innalzati al rango di mistici, come Carl Sagan, o presso dei fanatici, come i fondamentalisti di un buon numero di religioni. I teosofi non dovrebbero cedere alle tentazioni di questo genere di cose. Nell’insegnamento teosofico ci sono dei principi fondamentali, ma non può esistere un radicalismo teosofico. I teosofi non canonizzano nessun libro e nessun santo. Essi venerano le tradizioni universali e l’esperienze dell’umanità, rispettano le opinioni altrui, ma pesano tutto sulla bilancia del loro proprio intelletto e della loro intuizione personale.

Molti problemi, soprattutto quelli che concernono la fine della vita e la morte, non possono essere risolti con delle risposte chiare e semplici, poiché la vita e la morte sono dei soggetti complessi. A parole è possibile dichiarare due cose: la prima, visto che siamo nel campo dell’ipotesi, valuta quantitativamente e oggettivamente. L’altra, che sta nel campo della metafora, valuta qualitativamente e soggettivamente. Con delle ipotesi si costruiscono degli argomenti logici. Con delle metafore si fa della poesia. Tutto quello che ipotizziamo sul dopo vita, tutto quello che importa veramente nella vita, compreso quello che si maschera sotto il nome di scienza, non è altro che della poesia.

Tutte le descrizioni degli stati post mortem che troviamo nella letteratura teosofica e altrove costituiscono una specie di poesia. Sono delle recite che l’umanità si racconta per spiegarsi l’universo. Una delle grandi qualità della recita teosofica è che sta insieme ed è coerente. In teosofia concepire l’esperienza post mortem come uno stato cosciente corrisponde a quanto è stato detto fin dai tempi di H. P. Blavatsky. Esso è coerente con il resto dell’insegnamento teosofico, con le tradizioni dell’umanità e con la normale esperienza degli uomini ai quattro angoli della terra. Per quanto concerne la mancanza di convergenza con l’insegnamento de Le Lettere dei Mahatma, questo ci fa supporre che siano state scritte con un scopo speciale, oppure che ci sbagliamo nell’interpretarle.

A conti fatti però il problema della coscienza dopo la morte non è di capitale importanza. Tutti i più grandi maestri non ci hanno forse sempre consigliato d’esser meno preoccupati dell’azione del flusso della natura e delle fluttuazioni generate dalla vita e dalla morte, che dalla maniera in cui possiamo entrare in contatto con la realtà di questi flussi? La questione essenziale non è quella di sapere se dopo la morte saremo svegli, ma di sapere in quale misura siamo svegli durante la nostra vita.

 

   John Algeo
John Algeo, statunitense, professore emerito di Lingua Inglese alla Georgia University, è stato Presidente della Società Teosofica negli U.S.A. e vicepresidente della Società Teosofica internazionale.

 

Traduzione di Ermanno Vescia

 

Altre Riflessioni Teosofiche


I contenuti pubblicati su www.riflessioni.it sono soggetti a "Riproduzione Riservata", per maggiori informazioni NOTE LEGALI

Riflessioni.it - ideato, realizzato e gestito da Ivo Nardi - copyright©2000-2024

Privacy e Cookies - Informazioni sito e Contatti - Feed - Rss
RIFLESSIONI.IT - Dove il Web Riflette! - Per Comprendere quell'Universo che avvolge ogni Essere che contiene un Universo