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La fascinazione di Thanatos: desiderio, morte e stati modificati di coscienza.

Di Giuseppe Perfetto
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Ci tengo a scansare un possibile fraintendimento che può sorgere in questo discorso sulla fascinazione mortifera di "das Ding". In questo processo non v'è nulla di patologico, non c'è psicosi, non è tentazione al suicidio, non è sublimazione del masochismo o, peggio, esaltazione ideologica nichilista: <<Il vuoto di "das Ding" non è un vuoto inerte, un vuoto statico, quanto piuttosto un vuoto causativo, un vuoto che assolve una funzione di causa. Di causa materiale del desiderio>> [Recalcati 1992]. L'incontro con "das Ding" è un invito, una risorsa; Heidegger la definisce una possibilità, la possibilità più propria dell'Esserci: <<Solo alla base delle manifestazioni originali del Niente il nostro Esserci umano può avanzare verso ciò che è, ed entrarvi>>[Heidegger 1955]. Nell'Esserci, o se preferite nella nostra coscienza, manca sempre qualcosa che può essere o sarà; di questo qualcosa che manca fa parte la sua stessa fine, ovvero la morte. Heidegger [1992] osserva che la morte non è un termine finale, la conclusione, e neanche un fatto poiché notoriamente in quanto tale non è mai la propria morte. La morte è piuttosto una possibilità per la coscienza, la possibilità certa che isola l'uomo con se stesso. Soltanto nel riconoscere la propria morte, assumersela con anticipazione, l'uomo ritrova il suo essere autentico: <<il giocatore autentico è colui che mette la sua vita in gioco e il gioco vero è quello che pone la questione della vita e della morte>> [Bataille, cit. in Perniola 1977]. Nella nostra ordinaria vita quotidiana fuggiamo dalla morte e la consideriamo un'eventualità fra le tante. L'essere-per-la-morte implica una (momentanea) sospensione dall'adesione alle cose, una sorta di uscita dal viluppo di interesse e di perentorietà con cui esse si impongono nella loro presenza concreta nei quali siam sempre dispersi. L'essere-per-la morte non è attesa della morte o suicidio, è accettare la possibilità più propria del nostro destino, è autenticamente anticiparsi.
Concludo con una divertente pillola di saggezza zen [Senzaki e Reps 1973]. Ikkyu, il maestro Zen, anche da ragazzo era molto acuto. Il suo insegnante aveva una preziosissima tazza da tè, un raro pezzo d'antiquariato. Ikkyu ruppe quella tazza e si sentì assai a disagio. Udendo i passi del suo insegnante, nascose i cocci della tazza dietro di sé e quando il maestro apparve Ikkyu chiese: <<Maestro, perché le persone devono morire?>>. <<E' naturale>>, spiego l'anziano insegnante <<ogni cosa deve morire e deve vivere solo per il tempo concesso>>. Ikkyu, mostrando i cocci della tazza, disse: <<Per la tua tazza era giunto il tempo di morire>>.


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