Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
Credo credo
L'unico, il solo onnisciente, vuole e non vuole essere chiamato Zeus
di Mario Cialfi - Maggio 2008
Mario Cialfi, nato a Milano nel 1920, laureatosi in filosofia con una tesi su Kant (relatore Antonio Banfi) ha pubblicato saggi sulla cultura greca, il dramma comico e tragico, Shakespeare, poeti romantici inglesi e tedeschi e altri momenti e figure dell'Ottocento e del Novecento.
Nel 1988 ha pubblicato "Carte perdute", raccolta di pensieri che, raggruppati in cicli tematici, costituiscono - attraverso il riferimento a esperienze o gradi ideali come il tragico, il romantico, la storia, l'infinito - la testimonianza di un avvicinamento a quello che per l'autore è ormai "l'argomento", ossia il problema dell'assoluto, con un evidente coinvolgimento del problema religioso.
Potete incontrarlo nel forum di Riflessioni.it nella sezione Filosofia con il nick emmeci.
L’unico, il solo onnisciente,
vuole e non vuole essere chiamato Zeus
Sono qui raccolte pagine scritte per lo più in forma di lettere e inviate ad amici noti ed ignoti, in cui si è attuata per me in anni recenti una sorta di immaginosa ricerca di dio, affiorante forse da una vena di mitica sfrenatezza o da un persistere di medioevali esperienze, di quei tentativi di raggiungere un fondamento alla fede, quell’argomentare per credere o credere per capire che appare oggi desueto. La disposizione dei testi segue un approssimativo ordine temporale, anche se, indirizzati a persone diverse, si sovrappongono con ripetizioni di formule e temi, e con quella perentoria certezza dell’assoluto che, schivata dalle odierne filosofie, può sembrare più che medievaleggiante romantica, anche se incapace di rinunciare alla storia, tanto da suggerire a qualcuno l’osservazione che si tratterebbe di un gioco di ossessione e redentrice ironia: quindi un obbedire alle tradizioni dell’uomo. Queste lettere, infine, sono un ricorrere della domanda: perché non c’è dio? è possibile credere anche se dio non c’è? che, a un livello più astratto, può diventare: è possibile una fede assoluta, o una fede nell’assoluto?
L’ultimo testo racconta come io sia giunto a questi pensieri praticamente senza aver avuto rapporti con la cultura del tempo: il che, se è un difetto nei riguardi di ogni altro argomento, qui potrebbe sembrare giustificato, se il religioso, almeno nelle sue estreme – blasfeme o dogmatiche – proposizioni, è a buon diritto considerato un fatto della persona.
Uno studioso di teologia al quale sono state indirizzate alcune di queste lettere si è stupito che scrivessi costantemente il nome di dio con l’iniziale minuscola. Forse vi intravedeva una sfida o l’invito a una ultimativa dimostrazione, come se chi si oppone a un monarca si aspettasse la prova che egli è veramente tale. O un modo ingenuo – come potrebbe insinuare qualcuno – di “redimere la parola di cui si è abusato e che sembra divenuta un’imprecazione”? C’è qualcosa di strano in una maiuscola, che mi ricorda le infatuazioni della vecchia Cabala o la presunzione di quel Rabbi Loew di Praga che, conoscendo la potenza del nome, cioè la parola che nomina dio, volle, ripetendo l’atto creatore, ricavare dall’argilla una forma “più grande di quella di Adamo” e infonderle, col sussurrare il nome, la vita. Forse questo mi trattiene dallo scrivere Dio, per quel tanto di magia o potere che potrebbe alitarne, e il timore del leggendario Golem.
Agli amici noti ed ignoti
Lo spettro dell’assoluto
Perché mi ritorna il pensiero di dio, benché tutto in me sembri spingere a superarlo, a vivere nella storia? E’ un vizio tenace del nostro cervello o un incanto senile? O la religione può veramente vincere ancora?
Nessuno può disertare la storia: ma la storia, per quanto sufficiente a sé stessa, ha un tremore dentro di sé: non di paura ma di strana ebbrezza, quasi fosse una vana divagazione, quasi avesse dentro di sé un trascurato tesoro - o fosse in ogni caso una sintesi di inarrestabile evoluzione e di perfezione o totalità già da sempre raggiunta, rispetto a cui un divenire sarebbe uno spreco e l’avanzare un discendere. Questo è riconoscibile nelle fasi originarie delle grandi epoche e realtà culturali, ma è sempre vicino a svelarsi, così che la storia debba risolversi in un susseguirsi di cicli, una conquista di ciò che è stato già attuato, l’ascendere di un torrente che invece precipita.
Che cos’è una religione se non un erompere di questa visione nella cecità della storia? “Tutto ciò che è religioso presuppone il divino”; non è un rimandare a strati elementari della coscienza – emotivi, impulsivi, addirittura biologici – ma a un potere compiuto e che suggella le cose, le stringe in un dominio o in un abbraccio armonioso, come se il mondo si aprisse per essere tutto ciò che può essere e che lo è da sempre: da sempre, infatti, è tutto ciò che può essere; il religioso fervore ci fa sentire come già dato ciò che cerchiamo nel tempo. Sta qui l’indolenza affascinante del religioso, quel “ritorno indietro” che contrassegna il principio di ogni cultura, quasi che la creatura storica dovesse porsi a confronto di una specie esemplare ed una verità insuperabile nonostante eroismi, la follia e la morte. Il che comporta che la religione, nel suo senso più generale, sarà fino al termine della storia possibile, per tutto il corso della storia possibile, anche se non sarà mai premiata e se un dio non si vedrà mai. Ma se ci parrà di procedere verso un’emancipazione del mondo e una liberazione dai fantasmi mitici, questo non farà che rafforzare il ricordo di quei momenti preziosi, di quel compimento in cui riposa il divino.
Si è detto: ogni mito religioso è un rimando indietro. Non solo ogni mito: ogni culto, ogni fede, ogni magica eccitazione. Ma è pur qui che si rinviene l’origine della storia: il primo atto storico è l’atto rituale, cioè il consacrare un oggetto, naturale o umano, sentimento e alla fine dio, che è l’alto e il basso, che è un ergersi oltre le cose e un ripiegarsi in esse, cioè uno slanciarsi alla conquista dell’assoluto e un riconoscere che l’assoluto è qui, che c’è sempre stato e rende superfluo il mio compito. In tal senso l’atto sacro caratterizza non solo le religioni ma l’intera cultura, la costruzione di un mondo, ed è la ragione di quell’equilibrio dell’essere, di ciò che altrimenti sfuggirebbe a sé stesso anzi neppure sarebbe. E tuttavia il cerchio si forma e ripete continuamente, diventa una pulsazione, un’ansa, una freccia, la freccia dell’espressione storica, quasi che un corpo non potesse bastare a sé stesso e fosse costretto a uscire da sé per essere sé, perché è più grande di ogni figura, e il suo equilibrio è un distendersi nell’infinito non potendo fermarsi dal momento che esiste e dovendo trasformare in storia quello che è fin dalle origini tutto: in cui sembra brillare un sorriso sarcastico se si manifesta così, sfuggendo e negandosi, in un rimandarsi di strane finzioni, un gioco di offerte e ripulse. E’ l’orgasmo della materia? l’ironia dello spirito? o lo spettro dell’assoluto? La mente terrestre sembra indegna dell’infinito, incapace di togliersi a quel prodigio iniziale e a quella sublime idiozia: a quello che il religioso crede di aver sempre raggiunto e non sa abbandonare.
Da mania a mania
…Il tuo articolo (“Vivere nella prigione delle idee fisse”) mi spinge a scriverti, nella presunzione di penetrare in un misterioso recesso, un sortilegio che attraversa tutta la cultura e la storia: senza mania non v’è grandezza, anzi neppure umanità e forse neanche vita – anche se mania può comportare isolamento, parzialità, distorsione e perfino follia. Se mania è già un’ombra della follia o è la follia dei creatori, è possibile distinguere fra mania e mania, mania giusta e mania degradante, limpida e luciferina? Non sono le conquiste amorose frutto di mania così come le esperienze perverse? Non c’è una vena di luce in ogni mania? Mania come la pazzia degli eroi e dei geni? Forse l’enigma si risolve in una sola maniera, cioè non inibendo la mania ma portandola avanti, se quanto più è ristretta tanto più è rovinosa e solo se è mania del tutto e di comprendere tutto diviene non solo imbattibile (come si può sconfiggere il tutto?) ma promessa di grazia, vittoria della coscienza sull’ignoranza, quel dominio della propria demenza che distingue i veri dai falsi profeti. E’ questa la mania di Goethe in confronto alla mania dei romantici, o di Proust nei confronti delle astrazioni dell’arte. Sì, perché l’arte d’avanguardia, lo spirito stesso dell’avanguardia, è espressionismo maniacale e romantico, cioè pretesa di cancellare il passato e di imporre il proprio ideale. Non solo: le rivoluzioni del secolo sono mania tanto più quanto più pretendono all’assoluto, di fronte ai moniti della storicità e al procedere degli universi, alla loro saggia prudenza. Ma non si tratta solo di un secolo o di due secoli, tutto è tentato da questa pazzia, da questo istrionico invito: anche se, in un più vasto orizzonte, c’è qualcosa che pone dei limiti alle illusioni e smorza il rituale delirio. Forse è un’eredità di tempi selvaggi, se qui si riconosce il grido degli invasati, se le religioni sono un’assurda mania in quanto pretendono l’assoluto ripudiando le divinità degli altri e le più dolci eresie. Il peccato di volere tutto in un attimo, un peccato che brucia, un attentato alla pace dei secoli. Umanità, vita, materia: la suprema mania è quella di dio? la più fiammeggiante e proterva ma anche quella che benignamente si piega e scompare nell’onda dell’infinito. Dopo tutto, dio non c’è mai, e la storia prosegue contro le sue stesse ebbrezze, contro fissazioni e anatemi, purificata nella sua incoscienza: sangue immenso ed inutile, vita che è pari alla morte, energia che dissolve e fa risorgere i mondi. Accettazione dl tutto: sarebbe questo il solo mito degno di un dio, la salvezza del nostro pensiero e la sua unica teodicea.
Storia o assoluto?
La storia intera è un confronto con l’assoluto, con quell’inesistente grandezza. Ma se la storia è la nostra unica strada, quella grandezza a quando a quando ci tocca, ci illumina e ci abbandona: perché il nostro destino è di vivere qui, dove quella luce non c’è, o forse c’è stata, trascorsa come un annuncio appena sognato.
“Il tutto è uno”, proclama un’antica saggezza, ma questo non consente un’estatica inerzia e non comporta l’inutilità del giudizio, l’indifferenza a qualsiasi direzione e a qualunque scelta: il tutto è una meta, il tutto è per noi un procedere avanti, quindi una critica, una trasformazione di cose; il tutto è infinito e l’infinito si crea, altrimenti non sarebbe tutto, cioè tutto ciò che può essere: basta questo a giustificare gli eroi e a sconfiggere il nichilismo, a farci credere nella vittoria del sì, se il sì non c’è ancora e può sempre udirsi. Ma come lasciare il ricordo dell’assoluto? Il raggio che ci ha colpito non dimostra che tutto è già qui? che la nostra corsa è alla fine inutile? che qualunque senso è legittimo? No, né pigrizia né giochi. Noi dobbiamo procedere con vigile senso, un tempo che diviene ascesa, una sfida ai dogmi e alle leggi, a ciò che fu detto – e niente per noi è raggiunto, il tutto è sempre al di là, noi viviamo in una totalità che non c’è e che esige il nostro assiduo lavoro. L’ironia di quel tutto diviene la nostra tragedia. E’ un cuore che vibra nell’ombra, che ascolta il suo incessante ritorno, come scacciato dal paradiso e consegnato all’orrore, costretto a cercare la soglia oltre la quale è un immenso stormire. Quella soglia è la morte, lo scroscio delle rinascite, se il respiro di un solo non basta ed essa è qui per spingerci in altri cuori. Sì, noi siamo condannati alla storia perfino al di là della morte, in questo e negli altri pianeti, una storia dove non appaiono dei e la pace invocata è un compenso futile. Eppure siamo in qualche maniera già oltre, e la morte ha pur sempre un brivido d’avventura. Forse è l’unico indizio di un ritrovamento felice, di un abbraccio dell’assoluto. Storia o assoluto? Ciò che li separa è solo un respiro.
Si deus est deus
...Ogni concezione religiosa anzi ogni filosofia – per quanto possa riflettere una sindrome religiosa – manifesta la duplicità di un cammino che ci porta a dio: identificando il primo come fede o estatica elevazione, il secondo come ricerca di una verità che il lavoro e la tenacia dell’uomo potrà alla fine raggiungere. A una sintesi e quasi un sovrapporsi dei due processi si può attribuire l’oscillazione – nascosta o visibile – dell’intelligenza e moralità dei popoli, e le grandi opposizioni della cultura: in ultima analisi l’idealismo e il positivismo. Ma a queste scelte corrispondono due errori religiosi: idolatria e superstizione, se ancora adesso tutto si gioca entro la religione e si palesa come una devota empietà.
A quale cammino mi affiderò? a quale stordimento o fervore? a un’idolatria o a una superstizione? E’ possibile superare l’alternativa infelice? avere un dio puro, non un simulacro o quel raptus divoratore?
Si è affermato che un dio dovrebbe preferire di non esistere piuttosto che di essere il signore di questo mondo: neppure una pazzia metafisica può giustificare l’atto creatore. Ma noi possiamo tentare di modificarlo, svergognarlo e perfino distruggerlo con uno slancio che attraversa tutto. Dunque il nostro cammino è segnato: dobbiamo inventare dio, colui che possiamo credere dio. La storia è questo irriducibile inseguimento, questa supposizione grandiosa, questa ingenua passione che rende fatua la contrapposizione che ho posto all’inizio e ne apre un’altra assai più radicale e stringente per noi: dio è o non è l’assoluto? L’alternativa sembra porsi fra questi ultimi verbi, ove dio sembra perdere la partita. Si può infatti concepire la sconfitta di dio non quella dell’assoluto, che rende assoluto sé stesso, che vince anche se è solo un delirio, anche se non è – il suo non essere sarebbe infatti assoluto. “Si deus est deus, deus est” pensa il religioso. Ma se trasformiamo l’inferenza in quest’altra: se l’assoluto è assoluto, l’assoluto diventa incontrovertibile: l’argomento ontologico puro, valido per tutti i luoghi ed i tempi e che anche negandosi si dimostra esatto. Ma perché cederlo a dio? perché denominarlo dio? Per pigrizia fiabesca, per metafora, per ostinazione umanistica, per la nostra arroganza, debolezza o bontà? Lasciate quel nome e l’ultimo ostacolo è tolto, e insieme è riscattata la religione purché rimanga il tema puro di dio, la sua qualità essenziale, senza lineamenti e senza perdoni. Solo se dio è l’assoluto egli è dio, se è tutto e dunque è perduto. Sì, dio non ha bisogno di esistere per essere dio. E siamo già oltre quella misera ombra.
Alle volte mi pare che sia questo il futuro della religione, questo abbandonare ogni mito, sacramento e preghiera, mentre soltanto così potrà ancora sussistere, cioè come vocazione superflua ed inesistente ricchezza, perché, dopo tutto, sarebbe questa una religione vera, se l’umanità lasciata a sé stessa si comportasse come di fronte a dio, se la storia per sé cercasse la redenzione in un cammino interminabile e senza gloria, privo di idoli e illuminazioni. Universo libero, volto a un fine che non si identifica e non l’arresta, e che è vita e morte, maledizione e profluvio d’amore. Tutte le forme e le voci sono ammissibili in questo caotico ardore, se attraverso di esse l’universo si apre: a che cosa? a sé stesso? all’assoluto del suo proprio essere? alla sua negazione? a un nuovo universo? a quell’attimo in cui si potrà credere ancora? Lasciami per ora a questo disordine: c’è chi ha detto che il vero amico di dio è lo spirito libero – anche se questo comporta una più atroce crocifissione. Dio inventato, dio irriso, dio sepolto e mai nato. Ma permettimi di usare ancora quella parola, se dio non è più dio, non è corpo e neppure spirito, se è travolto irreparabilmente: solo allora il cerchio sarà perfetto e il dio rinnegato ridiventa il dio vincitore. Superstizione? atavismo? Un gemito nell’infinito.
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