Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
Pensieri e cultura
di Marco Calzoli - Febbraio 2020
La parola è la dimensione fondamentale del nostro esistere relazionale (nell’esprimere informazioni, gerarchia, distanza, potere). La stessa psiche concettuale lavora linguisticamente, mentre per Lacan lo stesso inconscio è strutturato come un linguaggio. Dal punto di vista sociologico e antropologico, la nostra società si basa sempre sulla parola: dal comizio politico al verbale di una riunione, dalla legge scritta all’esame universitario, dalla dichiarazione d’amore alla dichiarazione di guerra. Anche se è vero che non ogni messaggio è verbale, infatti esiste anche la cosiddetta comunicazione non verbale, in ogni contesto comunicativo più idonea a esprimere contenuti emotivi.
Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (I. 3. 2) rivela che “tale è il male: quando si pronuncia l’improprio, quello è il male”, sa pāpmā yadevadamapratirūpam vadati sa eva sa pāpmā. Per la tradizione indiana, una parola costituisce l’essenza di tutto ciò che esiste: la sillaba sacra AUM (o OM). Secondo la Māṇḍūkya Upaniṣad, la A indica il piano fisico, la U indica quello sottile, la M indica quello stato dell’essere in cui vi è unità (i tre piani della manifestazione formano il Brahman saguṇa, qualificato); invece la sillaba sacra AUM nella sua interezza indica il Brahman nirguṇa, non qualificato, l’essenza assoluta di tutte le cose della quale però non si può dire alcunché tanto è misteriosa.
Per la riflessione indiana il Brahman nirguṇa sta prima di tutto. La sua prima manifestazione è la Parola (vāc). Dopo vengono gli dei creatori. Per la scuola filosofica-interpretativa detta Pūrvamīmāṃsā la Parola assoluta sta nei Veda. Essa è uno dei sei strumenti di conoscenza (pramāṇa):
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Ratyakṣa: percezione;
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Anumāna: inferenza;
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Śabda: Parola vedica;
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Upamāna: analogia;
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Arthāpatti: presunzione;
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Abhāva: assenza.
Il testo fondatore della Pūrvamīmāṃsā è il Mīmāṃsāsūtra di Jaimini. Questo autorevole scritto ha ricevuto molti commenti, tra cui il Śābharabhāṣya, nel quale si discute se gli dei siano la causa del sacrificio. Secondo tale commento, gli dei non lo sono, in quanto il sacrificio origina dalla Parola vedica, gli dei sono qualcosa di secondario, secondo Tucci meri strumenti in quanto presenti nei testi in dativo. Il commento dice in sanscrito: api vā śabdapūrvatvād jaiñakarma pradhānaṃ syād guṇatve devatāśrutiḥ, “o piuttosto l’atto del sacrificio è il momento principale, perché è preceduto dalla Parola vedica; la divinità è enunciata nel testo vedico come secondaria”(1).
Giovanni nel Prologo al suo Vangelo definisce lo stesso Dio quale Logos: Parola o Pensiero(2). “In principio era il Logos”, che in greco suona: en archēi ēn o Logos. Probabilmente il verbo greco “era” è la traduzione di un perfetto aramaico, che come tale indica il compimento perfetto di una azione, ragion per cui questo Logos non è situato nel passato ma eternamente permane. Nel Faust (1224-1237) Goethe dà quattro possibili traduzioni della parola greca Logos che i filologi non sanno come rendere adeguatamente nelle lingue moderne:
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Parola, das Wort;
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Pensiero, der Sinn;
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Potenza, die Kraft;
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Azione, die Tat.
L’interpretazione può sussistere almeno in questi livelli:
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Disciplina esegetica (filologica) che vuole capire da un testo l’esatta intenzione dell’autore;
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Studio della esatta filosofia, o comunque pensiero, di un autore;
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Studio del significato di certi dati (interpretazione dell’elettrocardiogramma, del segnale, e così via);
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Acquisizione di significato sulla vita in generale (concezione del mondo) o di quella di una persona (psicologia);
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Metafisica del reale (l’interpretazione risponde alla domanda su cosa sia il mondo, da dove veniamo e dove andiamo: è simile alla concezione del mondo, ma questa è più intuitiva, mentre la metafisica del reale riguarda più un processo di filosofia).
Schleiermacher in un Discorso pronunciato il 12 agosto 1829 diceva che le attività della vita umana si distinguono in tre livelli:
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Uno quasi privo di spirito e del tutto meccanico (come quando l’uomo della strada interloquisce con altre persone e loro si scambiano battute di immediata comprensione);
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Uno che si basa su una dovizia di esperienze e di osservazioni (testi universitari di filologia come si trovano ancora oggi);
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Uno adeguato all’arte (esercitato dai veri maestri di una disciplina come la filologia)(3).
In sanscrito “interpretazione” può essere indicata da vyākaraṇa, formata dalla radice “fare” (kṛ-) e dal preverbo vi-, “divisione”: quindi vyākaraṇa significa propriamente “analisi”. Un’altra parola sanscrita è darśana, etimologicamente “punto di vista” (che indica, tra le molteplici cose, le sei scuole filosofiche-interpretative ortodosse dell’induismo). In greco antico l’interpretazione è detta ermēneutikē technē, dal dio Ermes, messaggero degli dei, per cui l’interpretazione avrebbe come contenuto noetico quello di qualcosa di sacro che si rivela. In latino interpres era il “mediatore”, quindi l’interpretazione media tra il testo e il lettore. Nelle lingue semitiche abbiamo una radice che deriva dall’accadico pasaru, verbo che significa di base “dissodare il terreno, liberare, riscattare, spiegare, sciogliere” per poi acquisire il significato derivato di “interpretare” (pasaru sutta, “interpretare i sogni”).
Un tipico conflitto di interpretazione è questo. Agli inizi del Novecento (1924) un noto ittitologo, Forrer, interpretò un nome sconosciuto presente in alcuni testi ittiti, Ahhiya(wa), come Achei, sostenendo anche che tali testi parlassero di quanto cantato nell’epos omerico, tra cui della città di Ilio e della Troade. Pochi anni dopo (1932) un altro famoso ittitologo, Sommer, confutò, filologicamente e nel merito, tutte le tesi di Forrer in un lavoro magistrale, che contribuì alla estromissione di Forrer dalla comunità scientifica. Tra gli anni Cinquanta e Settanta le scuole francese e inglese rimangono grossomodo orientate lungo le linee tracciate da Forrer, mentre la scuola tedesca non dà peso a Forrer già dagli anni Quaranta. Tra gli anni Ottanta e Novanta alcuni ittitologi (tra i quali Güterbock, Heinhold-Krahmer, Singer), pur non collegando Ahhiya(wa) con l’epos omerico, accettano alcune tesi di Forrer, tra cui quella che tale misteriosa città sarebbe localizzata nell’Anatolia occidentale. Oggi gli studiosi si dividono in due gruppi: chi accetta le tesi di Forrer e chi le nega del tutto. Stando ad oggi, sono 10 i testi ittiti che parlano di questa famosa città, poi ci sono alcuni testi non ittiti (da Ugarit e neo-assiri). In buona sostanza, non si sa con certezza cosa quel nome indichi (se è una città o un popolo), non si sa la collocazione geografica, non conosciamo l’etimologia (forse collegata con il latino aqua, “acqua”). Ancora non ci sono dati sufficienti per esprimere un giudizio definitivo sulla questione(4).
Dal punto di vista della datazione, tutta la storia degli ittiti è un conflitto di interpretazione, per la semplice ragione che i sovrani ittiti non usavano datare i documenti. Allora le date degli avvenimenti sono ricavate dagli studiosi in base al confronto con documenti dei popoli vicini aventi la cronologia che raccontavano lo stesso evento. Se, per esempio, un sovrano egiziano scriveva a un re ittita, sappiamo per larga approssimazione i termini storici del regno di quel sovrano ittita. Ma le interpretazioni divergenti sono giocoforza presenti e di solito numerose. Pensiamo alla battaglia di Qadesh, il primo maxi-conflitto internazionale che la storia ricordi, combattuto tra egiziani e ittiti in Siria, ove vi erano piccoli stati cuscinetto che delimitavano i confini delle due superpotenze del tempo. Ora, i dati epigrafici offrono una cronologia alta, invece i dati archeologici offrono una cronologia bassa. Allora gli storici, per una questione di comodo, datano di solito la battaglia di Qadesh attorno al 1200 a. C.: si tratta di una cronologia intermedia che media fittiziamente tra dati contrastanti. Di solito i vari trattati che abbiamo avevano un prologo storico, nel quale si ricapitolava l’antecedente. Ma la storia non era come quella di adesso, molte informazioni erano solo propagandistiche, quindi è possibile trovare in una tavoletta egiziana (queste tavolette in possesso degli studiosi provengono quasi sempre da El Amarna) dati che si contrappongono a quelli presenti in una tavoletta ittita (per esempio, dagli archivi di Hattusa, capitale degli ittiti). Se, da una parte, i prologhi storici di questi trattati tra le superpotenze e i piccoli stati vassalli sono preziosi per i filologi e gli storici, dall’altra, sono fonte continua di divergenze interpretative. Secondo una interpretazione del materiale, dapprima il faraone egiziano Amenofi III perse lo stato vassallo siriano di Amurru perché Aziru, il re di quest’ultimo, si alleò con il re ittita Suppuliuliuma I. Poi il sovrano egiziano successivo, Seti I, infastidito della cosa, sconfisse gli ittiti e poco dopo le due superpotenze fecero un patto di non belligeranza, che poi però venne infranto da Suppuliuliuma I, quindi egiziani e ittiti cominciarono a combattere fino a che, dopo qualche anno, si giunse alla battaglia epocale di Qadesh.
La fase più arcaica del greco antico la abbiamo con il miceneo, un greco arcaico vicino all’arcadio-cipriota. Segue il greco omerico, una lingua arcaica e ibrida, cioè mai parlata, che fonde artificialmente diversi dialetti greci (una base ionica con elementi eolici e tardi atticismi). La bibliografia sulla lingua omerica e sulla questione omerica è di inusitata vastità: gli studiosi si sono cimentati con dovizia di discussioni anche sulle questioni più minute (per esempio, persino su una particella, il cosiddetto te epico). Il fondamentale dominio cognitivo dello spazio viene codificato in modi differenti dalle diverse lingue del mondo, e le strategie di codifica degli eventi di moto costituiscono un parametro su cui la Tipologia ha negli ultimi decenni concentrato il suo interesse, pervenendo all’individuazione di tipi linguistici sulla base della strategia con cui ciascuna lingua tende a codificare tale tipo di eventi. Sulla scorta del concetto di “uniformitarianismo linguistico”, la natura delle lingue del passato non è sostanzialmente diversa da quella delle lingue del presente (e del futuro). Ciò comporta che le generalizzazioni tipologiche in chiave universalista sono valide, in linea di principio, non solo per le lingue attestate, ma anche per quelle antiche ormai estinte, come il greco arcaico. Applicando la teoria tipologico-cognitiva dei lexicalization patterns al greco omerico, attraverso l’analisi testuale dei contesti d’uso di un significativo gruppo di verbi di moto all’interno dei poemi omerici, gli studiosi oggi approfondiscono la tipologia di tale stadio del greco arcaico, mettendo in luce, in particolare, un aspetto finora poco esaminato, quale il ruolo dell’azionalità (aspetto lessicale, Aktionsart) inerente alla radice verbale. Dall’analisi testuale risulta che il tratto semantico-azionale della telicità, intesa come caratteristica inerente alla radice del verbo, svolge un ruolo particolarmente significativo nella codifica degli eventi di moto nello stadio omerico della lingua greca(5).
La fase finale del greco antico la abbiamo con la cosiddetta koiné, una lingua sovradialettale usata nell’età ellenistica (periodo alessandrino e periodo imperiale). Lingua usata anche da Plutarco, nella variante colta. Una variante popolare è quasi tutto il “greco biblico” (comprendente i libri greci dell’Antico Testamento, le traduzioni greche dell’Antico Testamento, il Nuovo Testamento). Pochi libri biblici sono scritti nella variante colta, per esempio le opere di Luca. In ogni modo il greco biblico si caratterizza, all’interno della koiné, per l’abbondante uso di semitismi (espressioni semitiche presenti nel dettato greco: lessico, semantica, sintassi, idiomatismi), tanto che Norden proponeva l’esistenza di un dialetto giudaico. Le principali traduzioni greche dell’Antico Testamento sono la LXX, quella di Aquila, quella di Simmaco, quella di Teodozione. Gli studiosi, per cercare di decifrare le questioni letterarie, linguistiche, filologiche, paleografiche, papirologiche, inerenti l’ambito del greco biblico hanno prodotto autentici mari di carta, e non è ancora finita, pensiamo solo alla questione sinottica e alla questione giovannea. La letteratura critica sulla LXX è oltremodo ricca. La LXX, essendo una traduzione greca alquanto libera in moltissimi passi, si presta particolarmente ad analisi e ipotesi molto numerose e divergenti tra loro. Notevoli sono i neologismi che la LXX fa passare nella lingua greca e da lì anche nella cultura cristiana. Per fare un solo esempio, pensiamo a pastophorion, vocabolo che deriva dall’egiziano (si riferiva a una classe dei sacerdoti egiziani) e andrà ad indicare una funzione nelle chiese cristiane orientali(6).
Il ritrovamento a partire dal 1947 dei manoscritti di Qumran pone notevoli problemi agli studiosi, i quali ancora offrono interpretazioni assai divergenti: da quelli più macroscopici (chi erano in realtà i qumraniani, perché nascosero quei rotoli nelle grotte, e così via) a quelli più minuti (pensiamo a forme linguistiche che si ritrovano solo a Qumran, ma anche al fatto che gli studiosi non sanno cosa significhi la parola scritta in ebraico ‘wṭ e in aramaico ‘ṭ: mezzi? Stile di vita? Segreto?).
Ogni traduzione è una interpretazione. Solo una certa visione vuole vedere nella parola araba Islam il concetto di “sottomissione” (dalla quarta forma del radicale), in quanto la radice SLM indica molte altre cose: pace, armonia, salute, benessere, sicurezza, governatore, e così via. La religione islamica è fonte continua di interpretazioni diverse e fuorviati in Occidente, e non solo. Innanzitutto non esiste solo un Islam (come un solo ebraismo o un solo induismo). Poi non è detto che l’Islam è solo violento o solo repressivo, i paesi islamici intendono molto diversamente il Corano (come nella più libera Siria), il quale poi contiene paradossalmente sia sure violente sia sure pacifiche, questione oggetto di lunghe dissertazioni accademiche da parte degli specialisti del diritto islamico. Il Corano è ritenuto sia il testo sacro di confessioni specifiche, sia uno dei tanti testi sacri di una religione universale, i cui semi sarebbero in ogni culto della terra. Infatti, c’è chi pensa che ogni religione sia rivelata da un solo dio, ma anche chi pensa che sia sempre lo stesso dio o gli stessi dei, che direbbero la stessa cosa in forme diverse. Il Dio unico opererebbe unendo simbolicamente luce, conoscenza e leggi: la sapienza è un attributo di ogni divinità, e spesso è vista nelle religioni come luce, che rischiara l’ignoranza e il male degli uomini. Hammurabi ricevette le leggi dal dio sole, Shamash, lo stesso dio che è raffigurato altrove in atteggiamento positivo verso gli uomini che scrivono in cuneiforme. Oltretutto esistono molti metodi per lo studio del Corano, da quelli più filologici a quelli più esoterici (la basmala, “Nel nome di Dio clemente e misericordioso”, ha in arabo 19 lettere e compare all’inizio di ogni sura tranne la nona: il ripetersi del numero 9 viene interpretato dalle correnti mistiche).
La mente umana è continuamente oggetto della interpretazione degli studiosi ma anche delle persone comuni che si relazionano tra di loro. Non è facile capire gli altri, questo provoca molti problemi relazionali. Se ci è spesso difficile capire gli altri che rientrano nella “norma”, è più difficile capire le altre nazionalità (si dice che nessun occidentale può mai immaginare cosa passi nella testa di un cinese), e ancor più ostico penetrare nella incomunicabilità di uno schizofrenico o nel fatto che questi non cambia ma rimane ancorato a ogni difficoltà senza mai superarla; nell’atteggiamento della madre isterica che ama ma anche odia il figlio; in quello dello psicopatico che può pensare di mozzare la testa alla vittima solo per giocare; in quello di certi maniacali che credono che ogni evento dipenda da loro; in quello del serial killer che vive l’omicidio come sostituto dell’atto sessuale (anche se ci sono precise patologie psichiatriche ricorrenti nell’omicida seriale, la definizione di serial killer non è psicopatologica ma relativa al modo di uccidere: freddare due o più vittime con un intervallo emotivo tra di esse). L’ossessivo vive in un mondo a parte: la persona normale sostiene le incertezze, invece l’ossessivo ne viene devastato. Per Straus questo determina l’impossibilità per l’ossessivo di agire nel mondo: da un lato, se agisse adeguatamente, farebbe una azione perfetta, ma lo dilanierebbe l’incertezza che dell’azione non più perfezionabile, quindi si blocca e non agisce; dall’altro, ha una incertezza devastante di compiere azioni perfette e anche questo lo paralizza nell’agire.
Il fenomeno della magia e della religione, presente in tutti i popoli(7), viene interpretato in maniera diversissima: o una forma deviata della mente umana (non per nulla alcuni antropologi collegano il pensiero magico al pensiero patologico) o una forma eccelsa dello spirito umano.
L’attività mentale viene ricondotta al funzionamento del cervello. Il nostro cervello si è formato lungo una scala evolutiva molto estesa nel tempo. Quindi presenta dei funzionamenti più arcaici accanto a funzionamenti più evoluti. Se ci pensiamo bene, è bizzarro che la nostra vita mentale possa andare indietro nel tempo o fare un salto in avanti. Facciamo questi esempi. È esperienza comune che quando ci arriva una email con contenuti aggressivi, abbiamo la reazione di rispondere a tono, magari con un insulto. Se lo facciamo, abbiamo sì un breve sollievo ma poi restiamo sospesi nell’incertezza di capire la reazione altrui. Se invece non rispondiamo, continuiamo a pensare a cosa dovevamo fare. In entrambi i casi si tratta di un comportamento disfunzionale. Nella preistoria non vi erano i PC, quindi il nemico era reale e ci stava di fronte, pertanto noi sin da tempi remotissimi abbiamo imparato a fronteggiarlo leggendone le intenzioni e rispondendo in maniera sincrona. I PC o i cellulari hanno ritardato la percezione che noi possiamo avere del nemico, determinando in noi comportamenti disfunzionali. Oppure pensiamo a quando stiamo guidando e un volatile sbatte contro il parabrezza. La nostra prima reazione è chiudere gli occhi e voltare la faccia, anche se sappiamo benissimo che il parabrezza è più resistente di un volatile. La prima reazione è arcaica, invece la consapevolezza del parabrezza infrangibile dipende da un funzionamento più evoluto, non più emotivo ma logico. È un po’ il discorso che faceva un filosofo medioplatonico, Calvenio Tauro, secondo la testimonianza di Aulo Gellio (Noctes atticae XII, 5, 1-5): la natura universale che ci ha generati, sin dal momento della nostra nascita, ci ha trasmesso l’amore e la cura verso noi stessi, di modo che noi godessimo dei vantaggi del proprio corpo e odiassimo tutto ciò che gli reca danno. Solo in seguito, con il subentrare della ragione, abbiamo pensato alle norme morali, quindi a rifuggire il vizio e anche a pensare agli altri. Certamente l’amore verso noi stessi è un arcaico sistema di sopravvivenza, invece la legge morale nasce da strutture cerebrali più evolute.
La mente umana ha delle leggi che può capire solo chi la ha studiata a fondo, non solo sui libri ma anche nella comune esperienza. Spesso chi è aggressivo non riconosce di esserlo e questo provoca innumerevoli problemi in ambito relazionale: l’aggressività tende ad essere egosintonica, cioè viene considerata un normale atteggiamento. È difficile capire anche perché ogni madre rifiuti inconsciamente il figlio. Per Lacan il linguaggio opera interamente nell'ambiguità, e la maggior parte del tempo le persone non sanno assolutamente nulla di ciò che dicono. Oppure tutti noi impariamo sin da bambini degli schemi mentali e comportamentali con i quali ci difendiamo dal mondo: il problema è che crescendo la realtà varia e noi dobbiamo cambiarli per adattarci ad essa, ma non lo facciamo perché tali difese si sono irrigidite nella nostra mente. Per esempio, chi ha imparato a reagire ai bulli diventando sadico, crescendo, per diventare una persona in grado di amare in una realtà che non è più così ostile, dovrà mutare atteggiamento, pena l’impossibilità di inserirsi adeguatamente nel mondo sociale. Ma Rogers riconosceva che ogni persona è in grado di autodeterminarsi e possiede una spinta costante verso l’autorealizzazione: quando le persone si sentono accettate e valorizzate, sviluppano un atteggiamento di cura verso sé stesse e diventano esse stesse autrici della propria crescita, diventano persone vere, totali.
Schopenhauer osservava come le persone, benché non sono felici, tendono a ostentare una felicità apparente per far credere agli altri di esserlo, rinforzando proprio quegli elementi nella loro vita che non soddisfano. Qualcosa di estremamente singolare è rappresentato anche da un’altra legge, che ha osservato la psicologia analitica: per realizzare veramente noi stessi dobbiamo amare una persona, paradossalmente la nostra individualità può svilupparsi appieno solamente in coppia. Per molti psicologi e pensatori, come Jung, il più grande mistero della mente umana è l’amore, del quale moltissimi hanno cercato di trovare spiegazioni convincenti. Se Freud ammetteva di non aver mai capito le donne e Jung sosteneva che nell’amore l’uomo sta inspiegabilmente al suo meglio e al suo peggio, la psicologia insegna che nondimeno l’amore è un elemento imprescindibile della nostra esistenza. Bowlby osservava addirittura che la nostra individualità inizia a costituirsi da piccoli nella interazione con le figure di accudimento. Per Minuchin la matrice dell’identità è la famiglia. Non solo, ma la psicoanalisi ha elaborato il concetto di “pelle psichica”, quella barriera che ci separa dagli altri: il bambino tramite essa separa distintamente la sua mente dal mondo, invece l’adulto sa che tale barriera è permeabile, cioè che gli altri lo influenzano in continuazione senza che questi possa fare molto per impedirlo. A questo punto il tanto famigerato Io sarebbe solamente una illusione, al massimo come voleva Freud la struttura delle difese, ma che non rappresenta la nostra vera individualità.
Poi, Jung nei suoi scritti poneva spesso l’accento su un’altra bizzarria degli esseri umani: quasi sempre non confessano i loro veri desideri, ma li coprono con quelli che attribuisce loro la società, ci si immedesimano talmente tanto dal finire con il crederci. La psicologia analitica centra la sua riflessione sul dolore, paradossalmente elemento inscindibile del nostro sviluppo psichico: Jung scriveva che per operare il processo di individuazione bisogna essere crocifissi. E Hillman osservava come la violenza di Ade sull’anima innocente è una necessità centrale per la trasformazione psichica. Continuava Hillman, fino a che Persefone non è stata rapita e stuprata, non ci siamo ancora risvegliati dalla morte: cosicché rifiutiamo quella che è la metafora prima dell’esistenza umana, cioè che noi non siamo reali. Molti psicologi si sono confrontati sul tema della genitorialità. È una esperienza fondamentale dell’essere umano ma una delle più tragiche e dolorose, in quanto comporta un totale riassetto della mente e del proprio ruolo in famiglia e nella società. Winnicott diceva che diventare genitori è una catastrofe, ma sarebbe una catastrofe peggiore non esserlo. È straordinario e paradossale constatare come da una crisi generale della propria vita, accompagnata da inevitabili angosce, difese e quindi dolore psicologico, si generi il senso della nostra esistenza. Lo stesso discorso si può fare con l’amore. L’amore è forse l’esperienza più toccante e destabilizzante che possa capitare ad una persona. Ma senza amore non si raggiunge l’androgino, secondo il mito platonico, cioè la nostra realizzazione più profonda. Secondo la psicologia moderna, pare che il trauma della genitorialità possa essere mitigato curiosamente proprio dall’amore: solo se il genitore ama profondamente il partner e il figlio, può sostenere adeguatamente, vale a dire senza conflittualità nevrotiche, la nuova situazione interna e esterna.
Il trauma psicologico è un vissuto che altera l’assegno cognitivo ed emotivo di una persona. Un fatto negativo è tale solo se vissuto negativamente dalla persona, in questo caso diventa un trauma psicologico. Se ci è impossibile controllare i fatti che accadono nella realtà esterna, possiamo tuttavia incidere in qualche modo sugli eventi mentali, cioè possiamo lavorare per disattivare il trauma (quando non possiamo addirittura avere un pensiero funzionale e positivo tale da farci superare i fatti negativi senza che essi ci traumatizzino). Quasi sempre il trauma psicologico sorge quando il fatto non viene compreso, accettato e elaborato dalla mente perché essa non ravvisa in questo un senso. A questo punto il ricordo del fatto negativo continua ad avere una carica emotiva tale da destrutturare l’assetto mentale. Pare che nell’elaborazione dei ricordi negativi, che così non danno luogo a traumi psicologici, siano coinvolte le cellule della microglia, particolari cellule gliali del cervello che hanno il compito anche di disconnettere le sinapsi tra i neuroni che mantengono i ricordi (engrammi), di modo che il ricordo diventi più labile o si cancelli. Ma il trauma, una volta sorto, non gioca sempre un ruolo negativo. A parte il fatto che i traumi possono essere di diverso tipo. Alcuni di essi, privandoci di un assetto mentale vecchio e non più adatto alla nuova realtà esterna, possono spingerci al cambiamento come nuova funzionalità mentale. È questo il paradosso di molti traumi. Come la fenice, anche le persone possono rinascere dalla loro cenere. Solo dopo la distruzione dei valori che ritenevamo importanti, possiamo riacquisire senso e valori più autentici. Esistono falsi valori, sui quali l’ego poggia ma poggiando su di essi non realizza sé stesso: successo, apparire, denaro, e così via. Sono valori che non danno la vera gioia. La funzione del trauma è quella di allontanarci da essi e di aprirci la mente verso qualcosa di più vero. Sono in sostanza i valori delineati da Frankl: valori creativi (quando diamo un contributo al mondo, con il lavoro, con l’attività artistica); valori di esperienza (quando traiamo gioia dal mondo, appagandoci della sua bellezza, della natura); valori di atteggiamento (quando ci confrontiamo con la tragicità della sofferenza, della colpa o della morte si scatenano quelle forze vitali che ci spingono al nuovo: non siamo destabilizzati dal fatto tragico in sé ma, cambiando atteggiamento verso di esso, lo superiamo).
In fondo l’essenza del freudismo è che la società è tale se reprime l’individuo e l’individuo è tale se rimuove sé stesso: il senso dell’essere uomo starebbe nella rimozione della vera natura e quindi in una nevrosi, cioè in una malattia mentale. In questo senso il trauma psicologico non fa altro che corrodere la scorza patologica con la quale l’uomo struttura sé stesso. il trauma destruttura false convinzioni, falsi valori, l’aspetto sociale e identitario fittizio, individuale e sociale. Per questo molte persone, dopo una grave crisi personale, iniziano ad essere veramente sé stesse, quindi profondamente appagate. Stein osservava che oggi viviamo in tempi difficili: la confusione dilagante in ogni settore della cultura spinge le persone a non avere un senso chiaro e definito, insomma a perdere l’anima, come scriveva Jung. Ma questo stato continuo di arretratezza dei valori, continuava Stein, può spingere all’opposto, cioè far desiderare alle persone di avere un senso e di lottare per scoprirlo.
Per spiegare i comportamenti strani delle persone, è nata addirittura una nuova disciplina: la quirkologia. La mente umana ha bisogno spesso di elementi opposti, come il noto dualismo legge/libertà, ordine/caos. Sin da piccoli l’autorità genitoriale conferisce un senso di sicurezza in cui crescere serenamente, tutti gli stati hanno norme giuridiche e tutte le persone osservano norme non giuridiche in ogni ambito relazionale, tuttavia nell’uomo è insita una tensione continua a sabotare ciò che lo rende più sicuro: dalla scappatella clandestina al vero e proprio adulterio fino al sabbatianismo, il quale contemplava l’immoralità, anche religiosa (infatti il fondatore ebreo, Shabbetaj Zevi, si convertì all’Islam). Winnicott osservava che “l’obbedienza comporta un senso di inutilità per l’individuo ed è associata all’idea che nulla abbia importanza e che la vita non meriti di essere vissuta”. Un altro dualismo è quello tra Io/Altro. Tutta la nostra vita si gioca su una continua dialettica tra egoismo e altruismo, narcisismo e altruismo. La nostra spinta libidica gioca a ping pong, rimbalzando ora su di noi ora sugli altri. Recalcati: “Il desiderio non rafforza la credenza dell’Io ma la sfilaccia, la spiazza, la ridimensiona; è un’esperienza di indebolimento della credenza narcisistica dell’Io come identità chiusa e autosufficiente che afferma sé stessa”.
Chi studia il crimine rimane allibito dalla estrema ferocia di persone fino ad allora normalissime suscitata da fattori insignificanti: chi per una delusione amorosa diventa preda di un raptus e uccide selvaggiamente la compagna, chi per un insuccesso scolastico diventa un mass murder, secondo la nota definizione del FBI (entra in una scuola armato di fucile e fa una strage), e così via. Le due caratteristiche preminenti della criminologia è che è uno studio multidisciplinare (psicologia, sociologia, neuroscienze) e una scienza non esatta. Insomma, non ci sono spiegazioni né unitarie né definitive del crimine, dall’omicidio al terrorismo, dai reati razziali allo stupro. Spesso il crimine sembra non avere una spiegazione generale, ma varia da criminale a criminale. E questa malleabilità delle ragioni che spingono una persona per esempio a uccidere un proprio simile, non rientra sempre nella patologia psichiatrica: disturbi qualitativi (schizofrenia) e quantitativi (psicopatia). Solo il 5% delle SS naziste era affetto da malattie mentali. A volte il male sembra talmente banale (Arendt) da confondersi con atteggiamenti normali che le circostanze possono esasperare all’improvviso senza spiegazioni particolari.
Si dice spesso che la realtà esterna non esiste. Questa affermazione può essere intesa in modi assai diversi tra loro. Dal punto di vista metafisico, la realtà non ha consistenza in sé, è una illusione, come vogliono le filosofie orientali. Dal punto di vista sociologico, non esiste un evento in sé senza l’attribuzione di un significato sociale (la partita di calcio ha valore solo nella interazione delle persone che la vivono). Dal punto di vista psicologico, ogni realtà è espressione della psiche che la determina. Ogni cosa è un mezzo utilizzato dalle menti per affermarsi nel mondo. Anche lo spazio virtuale risente delle pulsioni più profonde che animano le menti delle persone. La psicoanalisi le identifica nella libido (sessualità) e nella destrudo (aggressività). Quindi il web si carica non solo di significati ma anche di attività, peraltro a volte giuridicamente rilevanti: dall’illecito civile al reato fino al più grave crimine, le quali sono lo specchio della mente delle persone. Dall’adescamento di minori (anche con tecniche raffinate di manipolazione psicologica che i criminologi chiamano groming) al vasto ventaglio dei crimini informatici. Per queste ragioni le indagini digitali sono una colonna portante delle attività attuali della polizia giudiziaria e di altri organi preposti alla sicurezza dei cittadini, le cui metodiche e i cui strumenti sono in continuo aggiornamento, di pari passo all’evolversi dei crimini specifici. Parliamo di sopralluogo informatico, identicità della prova, hash e collisione, digital profiling, open source, commerciale, GNU/Linux, e così via.
La vittimologia studia il comportamento e la mente della vittima del crimine. Chiunque di noi, leso drammaticamente nei propri diritti soggettivi (rights), che sono quasi sempre tutelati dal diritto oggettivo (law), fugge dalla situazione e chiede aiuto. Ma è stato rilevato che chi è vittima di una grave violenza, quasi sempre entro le mura domestiche, spesso le donne e i bambini, tende ad adottare un comportamento bizzarro: anziché fare la cosa più normale, cioè difendersi, mette in campo potenti strategie di adattamento (meccanismi di difesa) per assicurarsi la sopravvivenza senza però allontanarsi dalla realtà criminosa e chiedere aiuto. Il più diffuso è la regressione: di fronte al violento la donna ritorna bambina e inizia a provare affetto, cerca di legarsi sentimentalmente in modo più intenso per assicurarsi cura e protezione. Oppure pensiamo all’identificazione con l’aggressore: chi è vittima di violenza diventa a sua volta violento per cercare di esorcizzare il trauma, è stata vista come una sorta di controllo onnipotente della situazione, per cui identificandosi con l’aggressore la persona, specie la donna, riesce a controllare paura e angoscia. Ci sono molti studi che spiegano perché le donne vittime di violenza entro le mura domestiche non parlano, un autore è Truninger. Al primo posto vi sono questi motivi: negativo concetto di sé, fiducia nel cambiamento del marito, assenza di sostegni economici che garantiscano l’autosufficienza.
L’anima è qualche cosa di complesso e meraviglioso al tempo stesso. Nell’anima si condensa la divinità, per questo il suo studio è un atto quasi sacrale. Secondo certe correnti spirituali, il Tempio è l’Uomo stesso. Dio non sta nell’alto dei cieli, ma risiede in mezzo a noi, nei nostri simili. Secondo una certa interpretazione, la storia di Cristo altro non sarebbe che il simbolo della discesa dell’anima umana divina nella dimensione materiale. Strumenti di ricerca come la fisiologia, la psicologia e la filosofia sono ponti che ci permettono di penetrare sempre di più nel mistero dell’uomo, ben sapendo che l’uomo, essendo dotato di anima divina, non potrà mai essere inteso fino alla fine, mediante la razionalità discorsiva. L’uomo resterà sempre un mistero. Pertanto chi studia l’uomo si deve confrontare con la dimensione del relativismo: ci sono innumerevoli interpretazioni del fenomeno uomo, dei suoi pensieri e comportamenti. Si tratta di un florilegio di interpretazioni diverse che si rinnova periodicamente.
Nella letteratura ittita si incontra un proverbio: lalaš GISarmizzi, “la parola è un ponte”. La razionalità discorsiva, pur con tutti i suoi limiti, permette di avvicinare realtà disparate e complesse, di avvicinare la ragione delle cose: la parola razionale, sebbene non squarci il velo dell’apparenza e non faccia quindi penetrare del tutto nell’essenza delle cose, comunque permette di accostarsi ad essa. La Realtà Vera, come sosteneva Dnyaneshwar, è prima di ogni concetto razionale: quindi non si può conoscere compiutamente con la parola, ma si mostra da sé alla coscienza assoluta dell’uomo. Pareyson riconosceva che “l’importante non è la ragione per sé stessa ma la verità: il valore della ragione dipende dalla sua vincolazione alla verità e dalla sua radicazione ontologica”. Florenskij nelle sue opere demoliva la ragione discorsiva (un po’ come faceva Nietzsche, ma in modo differente), applicando alla filosofia teoretica anche il concetto matematico di discontinuo: la realtà non è definibile in maniera certa, quindi anche la mente razionale, che cerca di descriverla, non può non incorrere in errori anche grossolani. Sloterdijk introduce il concetto di noggetto (Nobjekt), mutuandolo dal filosofo della cultura Macho. Il noggetto è qualcosa che non è possibile definire in maniera esatta, secondo i criteri consueti della cultura di riferimento. Il noggetto è un oggetto non ancora dato compiutamente. Un noggetto è per esempio il feto, il quale non è pienamente un soggetto ma non è nemmeno un oggetto.
L’uomo unisce misteriosamente l’anima divina e un corpo materiale che asseconda istinti materiali. L’uomo è sia Luce sia Tenebra. Mentre un animale sembra avere solo istinti bassi, un essere umano, accanto ad essi, coltiva valori spirituali come l’amore, la conoscenza, l’altruismo, il sacrificio di sé. Amore romantico e amicizia sono due capisaldi che nutrono l’umanità di energie positive. È la divinità insita nell’uomo che questi è chiamato a seguire. In India (e in molti paesi dell’Asia) un saluto caratteristico è “namasté”, che indica l’atteggiamento di chi si inchina di fronte alla divinità rappresentata dall’altro. Presso i maori ci si saluta toccandosi reciprocamente testa e naso così da condividere il respiro vitale, l’anima. Tutti gli esseri umani sono divinità compiutamente perfette. Però è come se ci dimentichiamo la nostra vera natura. Secondo la tradizione Bönpo tibetana, gli esseri hanno un rigpa basilare, una consapevolezza divina pura, che non necessita di avanzamento, tuttavia nell’esistenza mondana siamo frustrati nella nostra vera natura, quella superiore, e dobbiamo risvegliarci.
Detto in altri termini, come fanno le varie tradizioni spirituali, l’uomo ha sia una natura inferiore sia una natura superiore(8). Quest’ultima è la parte divina insita in tutti che guida ogni uomo lungo il sentiero della realizzazione. Corbin cerca di precisare meglio le funzioni di questo essere di luce che apparirebbe visibilmente al mistico per diventare “immagine e specchio in cui si arriva a contemplare la teofania nella forma corrispondente al suo essere”. Vale a dire che “portare a compimento il viaggio mistico significa uscire verso sé stessi: è questo l’esodo, il viaggio verso l’Oriente-origine che è il polo celeste, l’ascensione dell’anima fuori dal pozzo, allorché all’orifizio del pozzo sorge la visio smaragdina”(9).
Anche il corpo farebbe parte in qualche maniera dell’anima divina. Ogni essere vivente è un tipo di anima, cioè una particolare vibrazione spirituale. Alcuni vibrano più lentamente, come gli animali, altri più velocemente, come gli esseri umani, che quindi hanno una parte spirituale più sviluppata. Il corpo sarebbe una emanazione vibratoria più lenta: nello stesso essere umano c’è una vibrazione molto spirituale (anima) che poi rallenta formando il corpo. Platone (in un celebre episodio del Carmide, 155B-157C) scriveva: “Il nostro Zalmosside, che è un dio, vuole che come non si deve tener conto del capo, né il capo senza il corpo, così neppure si deve cominciare a sanare il corpo senza tener conto dell’anima, anzi questa sarebbe proprio la ragione per cui tante malattie la fan franca ai medici greci, perché essi trascurano il tutto di cui invece dovrebbero prendersi cura, quel tutto che è malato e dunque non può guarire in una parte”.
Per questo, secondo la dottrina rosacrociana, il corpo e ogni elemento materiale non vanno eliminati, ma trasfigurati. La massima realizzazione dell’uomo è espressa nel simbolo della Stella di Davide, formata dall’unione di un triangolo con la punta verso l’alto (spirito) e di uno con la punta verso il basso (materia): la loro congiunzione sta a significare la compenetrazione delle due dimensioni. È il risveglio delle tradizioni orientali, che sta a significare la riunione tra natura inferiore e natura superiore. Nell’antico Egitto tale mistero era rappresentato dall’anello shen: il cerchio indica la perfezione della creazione, cioè dell’umanità, che l’iniziato conquista mediante il potere magico di questo anello. Tutte le persone provano desideri verso cose materiali: di un partner, del cibo, di una casa, e così via. È tanto vero questo desiderio quanto il fatto che esso non viene appagato completamente dalla cosa in questione. Allora la cosa materiale non è da scartare ma da superare in vista di una forma spirituale che quella cosa comunica senza esaurirla pienamente.
L’umanità è raffigurata dall’induismo come un grande Albero. Questo Albero ha due parti: le radici e i rami. Le prime sono simbolo della materia, i secondi dello spirito. È questo il significato più recondito del Loto. È un po’ come il Caduceo Ermetico: una croce avvolta da due serpenti. La croce indica l’essere umano, un serpente è la natura inferiore (materia), l’altro serpente è la natura superiore (spirito). L’essere umano (microcosmo) è un crogiolo alchemico nel quale si fondono perfettamente tutte le energie del macrocosmo (universo), sia la materia sia lo spirito. Secondo antiche mitologie, nella mente dell’uomo risiede la capacità di costruire “ponti”. Quando l’uomo inferiore si unisce all’uomo superiore nasce una terza coscienza detta Antahkarana o Principio Cristico, emblema dell’unione tra materia e spirito, tra uomini e dei, nonché tra tutti gli uomini nel loro insieme. Le varie spiritualità del mondo parlano di questi uomini straordinari, che sono diventati come divinità. Per indicarli usano espressioni quali Grandi Iniziati, Figli di Set, Marut, Pitri, Nirmanakaya, Liberati, Illuminati, e così via. Pensiamo a Ermete Trismegisto, Buddha, Cristo, Rosenkreuz, Patanjali, Mahavira. Altri sono i Superiori Sconosciuti, di cui nessuno sa nulla, in quanto non rivelerebbero mai il loro volto e la loro missione. Tutti questi grandi uomini sarebbero i veri abitanti di mondi superiori evocati con nomi simbolici quali Sambhala, Atlantide, Agharta, Eldorado.
L’individualità riguarda la natura inferiore. Quando essa si congiunge alla natura superiore, l’individualità cessa e comincia ad esistere il Sé. Il Sé opera secondo il principio cinese del wu wei, “azione della non azione”, che non significa non far nulla, ma agire in piena sintonia con le leggi della natura. L’individualità (io, ego, mente razionale) ci separa dalla Realtà Vera. Negli antichi racconti la decapitazione dell’eroe lo liberava dal male. Quando Soma è sacrificato, egli continua a vivere in qualche modo, mentre ne è ucciso solo il suo male. Vritra è immortale, quindi non chiede a Indra di non ucciderlo, ma di tagliarlo in due (vy eva ma kuru): cioè di separare il bene dal male. Nel sacrificio induista la vera vittima è il sacrificante: lo scopo ultimo è di uccidere il suo ego vecchio e di sostituirlo con il Sé rinnovato. Questo tema si ritrova simbolicamente anche nel “furto degli abiti” (vastra-harana): quando il dio Krisna rubò le vesti alle gopi.
Se vogliamo, simile è la concezione dell’anima di Giamblico (De Anima, fr. tramandato da Prisciano Lido): l’anima umana partecipa della natura sia delle intelligenze immutabili sia delle essenze sensibili che cambiano. “Non solo permane ma anche cambia, vivendo tali vite particolari”.
In qualche modo anche Aristotele: anima vegetativa (che l’uomo condivide con piante e animali), anima sensitiva (che condivide con gli animali) e anima intellettiva (che solo l’uomo possiede). Secondo gli stoici, esiste l’anima vegetativa (piante, animali, uomini), poi gli animali e gli uomini hanno anche la rappresentazione e l’impulso, solo l’uomo ha la capacità razionale, probabilmente comune alle nature più divine.
Proclo (De Providentia et Fato I. 3) sosteneva che l’uomo ha sia un’anima immortale, separabile dal corpo, proveniente cioè dal mondo degli dei, e un’anima collegata al corpo. La prima dipende dalla Provvidenza (che è la causa di quanto si verifica secondo necessità), la seconda dal Fato o Destino (che consiste nella connessione di tutto ciò che accade).
Secondo Gregorio di Nissa (Sull’anima e la resurrezione 28), la natura dell’anima è immateriale, anche se “non si identifica certamente con Dio in un modo tale che, se si ammettesse che l’uno è, si dovrebbe assolutamente ammettere al contempo anche l’altro elemento che rimane”.
Per Fozio (Mistagogia del Santo Spirito 11), lo Spirito non procede dal Figlio e il Figlio dal Padre, di modo che in Dio Trinità ci siano due cause. “Se si ammettono due cause nella divina e sovraessenziale Trinità, cosa ne è della unicità della causa, principio tanto decantato come proprio di Dio?”. Invece lo Spirito procede sia dal Padre sia dal Figlio in quanto in Dio esiste una sola causa e una sola azione. Anche se ciò avviene in maniera misteriosa. Dio è sempre unico ma al contempo è sempre trino. Questo mistero starebbe anche nell’anima umana, per Agostino (De Trinitate), che è una ma partecipa della natura trinitaria di Dio.
Possiamo fare un parallelo tra l’origine del tutto e l’anima umana. Nei miti cosmogonici vicino-orientali il tutto trae origine da una entità divina evocata come oceano oppure fiume. La stessa cosa avviene nei Veda. In un famoso passo cosmogonico di questa letteratura indiana (Ṛg-Veda X, 129, 3), il poeta vedico così scriveva:
tama āsīttamasā guḷhamagre ‘praketaṃ salilaṃ sarvam ā idam –
tucchyenābhvapihitaṃ yadāsīt tapasastanmahinājāyataikam,
“In principio vi era solo tenebra nascosta nella tenebra.
Acqua indistinta era tutto questo universo.
Il germe dell’esistenza, che era avvolto dal nulla,
grazie al potere del suo ardore interiore, nacque come l’Uno”.
Dalle Acque nacque l’Uno e da esso ogni altra cosa. Ora, la psicoanalisi conferma che i sogni e le immagini poetiche relativi all’acqua in tutte le sue forme, richiamino l’inconscio, cioè la mente umana. È come se questi miti cosmogonici tributassero all’anima umana una dignità e una funzione divine. Per la scuola orientale Shangqing gli elementi primordiali dell’universo sono Cielo, Terra e Acqua, i quali si riflettono nel microcosmo (uomo): testa, cuore e addome. Ma questi Tre elementi altro non sono che la manifestazione di un solo Uno, al quale il saggio deve guardare per uniformarsi e fondersi completamente.
Marco Calzoli
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha dato alle stampe 29 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane. Ha pubblicato anche molti articoli.
NOTE
1) Per approfondire tutta la questione: S. Corno, La teoria delle divinità nell’esegesi indiana, in academia.edu.
2) Giovanni scriveva: kai theòs ēn o Logos. Sono possibili due traduzioni. Quella accettata dalla CEI: “Il Logos era Dio”. Quella accettata in altre confessioni religiose: “Il Logos era divino”, cioè appartenente all’ambito della divinità ma in subordine rispetto al Padre (Dio vero e proprio). All’inizio della cristianità vi erano spesso eresie del genere, pensiamo all’arianesimo. I primi Padri greci avevano ancora una terminologia poco adeguata che sembrava tradire tesi subordinazioniste. Il Padre è Dio e Cristo è il Logos da lui emanato: prima della creazione il Logos era ancora racchiuso all’interno del Padre (Logos endiathetos), dopo la creazione viene proferito fuori dal Padre (Logos proforikòs). Questa distinzione fu introdotta da Teofilo di Antiochia.
3) F. D. E. Schleiermacher, Ermeneutica, Milano 2015.
4) Per approfondire: G. H. Beckman, T. R. Bryce, E. H. Cline, The Ahhiyawa Texts, Atlanta 2011. E. Forrer, Vorhomerische Griechen in der Keilschrifttexten von Boghazköi, in Mitteilungen der Deutschen Orientgesellschaft 63 (1924) pp. 1–21. F. Sommer, Die Ahhijava-Urkunden, München 1932.
5) Per approfondire: C. Nigrelli, Strategie di codifica linguistica degli eventi di movimento nel greco omerico, Palermo 2019. La azionalità è una delle caratteristiche del verbo (accanto a modo, tempo, aspetto) e si riferisce a come questo considera la nozione di tempo. In base ad essa i verbi si dividono in telici (hanno uno scopo, una fine) e in atelici (non hanno una fine, come i verbi di stato).
6) A. P. Dell’Acqua, Ricerche sulla versione dei LXX e i papiri, in Aegyptus Anno 61, No. 1/2 (Gennaio-Dicembre 1981) pp. 171-211. Per approfondire la storia e le caratteristiche del greco della LXX: M. Cimosa, Guida allo studio della Bibbia greca (LXX), Roma 1995.
7) Studi fondamentali della magia all’interno delle principali aree di insediamento umano del passato: J. F. Borghouts, Ancient Egyptian Magical Texts, Leiden 1978; J. Bottero, Mythes and rites de Babylone, Genève-Paris 1985; W. Burkert, The Orientalizing Revolution. Near Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Age, Cambridge 1992; F. H. Cryer, Divination in Ancient Israel and its Near Eastern Environment, Sheffield 1994; C. Fossey, La magie assyrienne, Paris 1902; F. Graf, La magie dans l’Antiquité gréco-romaine, Paris 1994; C. D. Isbell, Corpus of the Aramaic Incantations Bowls, Missoula 1975;R. C. Thompson, Semitic Magic. Its Origins and Development, New York 1971.
8) Jung distingueva nell’uomo un aspetto sociale-pubblico (Persona) e la vera identità inconscia (Ombra). Ogni uomo sta in bilico tra maschera e identità. Non per nulla, la parola “persona” sembra derivare dall’etrusco con il significato di “maschera”. Presso gli etruschi Phersu era un demone mascherato. Secondo una interpretazione, l’Ombra di cui parlava Jung, essendo collegata con il mondo inconscio e quindi numinoso, dovrebbe avere a che fare con la natura superiore presente in ogni uomo, il Sé superiore. Secondo un’altra etimologia, “persona” derivererebbe dal latino pars, “parte”: allora la nostra maschera sociale sarebbe solo una parte di noi stessi.
9) H. Corbin, L’uomo di luce nel sufismo iraniano, Roma 1988.
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