Riflessioni Antropologiche
di Andrea Bocchi Modrone
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Santisima Muerte
settembre 2009
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Mi chiamo Andrea. Ma da quando mi sono trasferito a Milano la A finale è sparita e sono diventato Andre. Non suona nemmeno male. All’inizio non mi ci trovavo, ma si sa, l’uomo è un animale estremamente adattabile, si costruisce una corazza, cambia di abito, di provincia, di partito e gli sembra di avere il mondo ai suoi piedi… finché non scivola e cadendo ci sbatte contro, al mondo.
Non potrei mai descrivervi paesaggi che non ho visitato. La fantasia da sola non basta. Può aiutare, certamente, ma non sarebbe comunque sufficiente a farvi percepire la sensazione che si prova camminando scalzi sul tetto del mondo, a Machu Picchu mentre il sole si tuffa nell’abisso e la terra restituisce il calore del giorno con la dolcezza di una madre che nutre suo figlio. In quel momento la vostra fede ancestrale vacillerà e potrete percepire il canto degli Apu, gli dei delle montagne, e la presenza viva della Pacha Mama, l’antica e grande dea delle Ande, la signora della terra. Vi sembrerà naturale, allora, accarezzare il suolo ed in esso cercare di fondervi, sarà la cosa più naturale che potrete fare.. ed il mondo in cui siete cresciuti non sarà che un confuso ricordo.
Ci sono cose che sfuggono anche alla fantasia. Piccoli particolari magari, ma fondamentali per chi li ha vissuti veramente.
Sono un antropologo, meglio, mi definiscono così, ma preferisco vedermi come un curioso del mondo, goloso di scoprire le sue infinite sfaccettature. Uno dei paradossi dell’antropologia è quella di essere diventata uno studio sistematico e sistemico. Vi risparmio le divagazioni filosofiche su questi termini. La riduco all’osso: ci sono delle teorie e le si applicano. Ma non funziona così. Non esiste una sola cultura, esistono invece molti modi di percepire l’essere. E tutti sono validi. Se volete conoscere una cultura.. vivetela. Tuffatevi in essa. Mangiate il suo cibo, bevete la sua acqua, respirate la sua aria. Guardatela da dentro, non da fuori. Bruciate ogni pregiudizio ed ignorate la paura. Non vi potrà succedere nulla di male.
Spesso si studiano le culture dall’esterno e se ne traccia un quadro completo, se ne descrivono le dinamiche sociali, religiose, si frantuma una società millenaria e la si analizza con categorie che non le appartengono, magari lontane anni luce per storia, spazio e tempo. Ne esce una descrizione perfetta, per un libro. Ma arida, morta, senz’anima. Quel libro venderà molte copie, probabilmente, ma una volta letto lo riporrete in bella vista su una mensola e lo dimenticherete. L’approccio etico, così si chiama questo tipo di osservazione, potrà darvi l’impressione di conoscere un popolo, ma è mera illusione. Occorre sbarazzarsi di tutte le conoscenze che si hanno e rinascere in quel popolo, mettendo da parte tutto ciò che si ha studiato prima e lasciandosi trasportare dal ritmo della vita e dei cuori di quel popolo. Entrerete in una sorta di trance. Vi accorgerete allora che tutto quello che vi avevano detto su quel popolo assume una dimensione differente ed imparerete a conoscere oltre che una cultura.. voi stessi. Questo è l’approccio emico.
Aldilà dell’antropologia, di cui non mi considero né sacerdote né mecenate, l’emicità è la vera chiave dell’essere, l’unica possibilità che ha l’uomo di vivere e conoscere la realtà che lo circonda. Vivere la vita da dentro.
Nell’epoca dei calcolatori elettronici, dei pc e degli esseemmeesse, la comunicazione e l’approccio con il reale seguono il trend delle abbreviazioni sui cellulari e corre alla velocità della luce. Si vive la vita come se si ascoltasse un’opera di Verdi a settantotto giri. Così facendo si memorizzerà qualche romanza… ma non si comprenderà nulla della storia e delle dinamiche dell’opera stessa. Radamés e la Celeste Aida, forma divina, diventeranno macchiette buone solo per la pubblicità di un detersivo. Si vive senza vivere. Correndo, rimandando tutto, passando oltre. In una cultura e fuori dalla stessa contemporaneamente.
Quando il divino poeta suggeriva a Dante di non curarsi ma guardare e passare non si riferiva certamente a questo modo di affrontare l’esistenza. Il modello dantesco è piuttosto il folle volo di Ulisse che voleva “divenir del mondo esperto” perché non siamo stati creati per vivere come “bruti ma per servire virtute e canoscenza”, e poco importa se si commettono degli errori, questi restano e resteranno sempre i più grandi degli insegnamenti.
All’età di due anni, nonostante tutti mi avessero messo in guardia dalla pericolosità del fuoco, mi rovesciai addosso una scodella di brodo bollente. Per un miracolo non mi feci nulla, ma appresi sulla mia pelle (l’avambraccio sinistro ancora ne riporta i segni) che il fuoco può essere pericoloso, oltre che bello. Mia nonna era convinta che mi avesse salvato san Giovannino, che di fuochi se ne intende, e nella sua cultura di strolga padana recitò per una notte intera le litanie di questo santo popolare, snocciolando il suo rosario di legno scuro e bruciando fiori di iperico nella stufa di ghisa, per ringraziare san Giovanni, il bambino, perché quando è adulto, a suo dire, col fuoco non ha più nulla a che fare.
Ogni vita è arte e l’arte non può seguire delle regole fisse, nasce libera per natura, come un sentimento. Ogni cultura, anche la più semplice è dunque un capolavoro disegnato dalla mano di tanti artisti, una sinfonia di suoni, un banchetto di colori, emozioni a cui occorre partecipare per poterlo descrivere e, soprattutto… mai giudicarlo.
Ho conosciuto gente che per celebrare la vita venerano la morte, le dedicano altari, le offrono doni e ad essa confidano pene, aspirazioni, sogni. Succede in Messico, a Vera Cruz, dove la Santisima Muerte, così viene chiamata, è al ballottaggio con la Vergine di Guadalupe per detenere il primato della spiritualità. La Santisima Muerte, o la Niña Blanca (bambina bianca) come la chiamano affettuosamente i suoi devoti, viene dalla cultura atzeca. Gli antichi la chiamavano Mictlantecuhtli.
In Messico il culto della Santa Muerte prende consistenza e si diffonde ogni giorno di più. Questa tradizione coniuga pratiche cattoliche con antiche credenze funerarie del popolo Azteco, in una forma unica di sincretismo dove religione, spiritualità, fede e brujerìa (stregoneria) diventano un tutt’uno inscindibile in un crogiuolo mistico di grandissima portata emotiva.
Inoltre, come altri fenomeni religiosi sincretici di confine (quali ad esempio la santeria cubana negli Stati Uniti, o il culto quimbanda delle metropoli brasiliane), si esprime come simbolo di potere e di rivalsa delle classi subalterne contro le classi bianche dominanti. La sua natura religiosa trascende dunque la mera spiritualità, assumendo una portata sociologica grandissima. La Santa Morte è la santa dei disperati, di chi aspira ad un mondo migliore varcando un confine proibito, di chi si guadagna il pane vendendo il proprio corpo o di chi si dedica ad attività criminose. I cieli del Messico hanno un santo per tutti ed a tutti si possono aprire le porte del paradiso. Non importa come.
Alcune persone credono che fare richieste alla Santisima Muerte comporti un prezzo molto alto, quello della vita di una persona cara, pertanto aborriscono solo nominarla e ne temono il potere che qualificano, inesorabilmente, come tenebroso nel senso deleterio del termine. Questa idea è completamente aliena alla reale natura devozionale della Santa Muerte: la Santa Muerte non si porta via la vita di nessuno (a meno che non sia giunta la sua ora e questa decisione non è pertinenza sua), nè tantomeno quella di un suo fedele devoto.
La nascita di questa idea è da rintracciare, probabilmente, nel fatto che alcune persone - per ignoranza o stupidità - in passato come ai giorni nostri, giurano sulla vita di un proprio famigliare o lo pongono come garanzia della parola data. La chiamano Santa, Santissima… ma nell’agiografia cattolica non esiste nessun santo che corrisponda a questa figura eppure, nell’iconografia come nelle orazioni, le citazioni alla Morte sono numerosissime. Ora viene vista come sorella, ora come liberatrice dagli affanni, ora come porta del Cielo, ora come angelo ora come estrema giustiziera, in quanto deputata alla consegna delle anime a Dio Padre. È il popolo che l’ha santificata, perché i suoi miracoli sono lontani dalle prediche dei pulpiti di una Chiesa che difende solo i ricchi ed invita ad accettare la sofferenza in ragione di chissà quale premio oltremondano.
Gli abitanti del Messico preispanico percepivano tutti gli elementi della natura come divinità, che dovevano essere onorate tramite differenti tipi di sacrificio.
Ai dignitari del culto spettava l’onere di vegliare che tutti i rituali necessari fossero portati a termine per far sì che il sole sorgesse ogni mattina, che le stagioni si succedessero in modo regolare, che la terra desse i propri frutti, che la pioggia fertilizzasse i loro campi e tutto quanto seguisse il giusto corso con equilibrio.
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