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Riflessioni in forma di conversazioni

Riflessioni in forma di conversazioni

di Doriano Fasoli

Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice


Il fauno di Mallarmé

Conversazione con Stefano Agosti
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it

- luglio 2005

L'obiettivo del libro di Stefano Agosti (Ordinario di lingua e letteratura francese all'Università di Venezia), Lecture de "Prose pour des Esseintes" et de quelques autres poèmes de Mallarmé, redatto direttamente in francese e uscito presso le edizioni Comp'Act di Chambéry in occasione del primo centenario della morte di Stéphane Mallarmé, è stato quello di sciogliere quell'enigma degli enigmi che è appunto "Prose pour des Esseintes", e la cui chiave sta nel titolo e sottotitolo (o dedica) del poema. "Trovata la chiave" - spiega Agosti, (nato nel 1930 a Caprino Veronese - Verona) - "il testo ha rivelato tutta la sua stupefacente, inaudita organizzazione formale, la quale si pone, a sua volta, come il contenuto del poema e come il presupposto della sua superba autosufficienza".

Professor Agosti, quando cominciò a dedicare un'attenzione particolare all'opera di Stéphane Mallarmé?
Il mio primo libro, Il cigno di Mallarmé, pubblicato nel 1969 e ristampato da Pratiche nel 1994, era, come vede, già dedicato a Mallarmé. Non solo, ma aveva alle spalle vari anni di riflessioni su questo autore, parzialmente già confluite in lavori apparsi in rivista. Ho continuato poi a occuparmi di Mallarmé per periodi più o meno lunghi, i cui risultati figurano sia nel Testo poetico (Rizzoli, 1972) sia in Critica della testualità (Il Mulino, 1994). Il lavoro più ampio e più impegnativo dopo Il Cigno resta comunque Il Fauno di Mallarmé, uscito nel 1991 presso Feltrinelli. In questo libro ho presentato uno spaccato del linguaggio mallarméano, relativamente ai dieci anni che intercorrono fra la prima redazione del Fauno (il Monologue) e l'ultima (L' Après-midi). Ho potuto così mettere in luce le progressive acquisizioni di Mallarmé in vista di una lingua che, al posto del suo ufficio ordinario di riproduzione, di mimesi delle cose, tendesse a riformularle e, insomma, a crearle ex novo. Per Mallarmé si trattava infatti di restituire al linguaggio la sua primitiva funzione di ordinamento simbolico del mondo. Per queste ragioni, ho sempre considerato e considero tuttora Mallarmé come il punto più alto - almeno per la letteratura a me nota - raggiunto dalla speculazione umana attorno al linguaggio: ove il linguaggio viene inteso come struttura di fondamento del Soggetto e, perciò stesso, come una sorta di matrice suscettibile di liberare processi di produzione infinita. È questo potere originario che la poesia di Mallarmé mira a ripristinare, e di cui credo dia atto, appunto, l'ultimo libro Lecture de "Prose pour des Esseintes".

Maurice Blanchot, Roland Barthes, Michel Foucault, Gilles Deleuze, Jacques Derrida... Ha seguito via via con attenzione le proposte teoriche di questi "Maîtres à penser"? E tra di essi, in chi ha trovato una profonda intesa culturale?
Gli autori che lei cita hanno segnato tutti, sia pure in maniere diverse e a diversi livelli di profondità, il mio percorso intellettuale. Due di essi soprattutto: e cioè
Blanchot, che ritengo uno dei massimi autori contemporanei, e Jacques Derrida, cui sono stato anche legato affettivamente, e il cui "stile" di pensiero e di scrittura sembra scavalcare i confini entro i quali si è di norma esercitata, per secoli, la speculazione filosofica occidentale.

Con i suoi amici del nuovo comitato esecutivo della rivista di letteratura "Il Verri" (fondata a Milano, nel 1956, da Luciano Anceschi), lei sta cercando di promuovere, o di ripristinare, l'interesse verso il fondamento teorico dei vari problemi culturali...
Che è, oggi, purtroppo caduto in disuso. Abbiamo così allestito una serie di numeri tematici sulla critica, sulla poesia, sul racconto, sullo stereotipo, nonché un numero monografico su Emilio Villa (curato da Aldo Tagliaferri), numeri in cui l'esigenza d'una messa a fuoco d'ordine teorico è sempre presente. Uno dei prossimi numeri sarà dedicato all' "esercizio della lettura": titolazione, come vede, di pretta marca continiana.

Nell'ambito dell'interesse per la linguistica e per la psicoanalisi, considerata in rapporto all'opera letteraria, lei - ricordiamo - ha pubblicato, tra l'altro: "Il testo poetico. Teoria e pratiche d'analisi" (1972), "Cinque analisi. Il testo della poesia" (1982), "Modelli psicanalitici e teoria del testo" (1984). Qual è attualmente la sua posizione nei confronti della psicoanalisi?
Quella di sempre: e cioè l'attenzione - promossa dalla
psicoanalisi - verso il Soggetto nel suo rapporto al linguaggio che lo costituisce e lo fonda: rapporto che è soprattutto evidente - e in forme preclare - nell'opera letteraria, ove il Soggetto non fa che misurarsi (anche se non lo sa) con la sua lingua, vale a dire con la sua propria dotazione di linguaggio.

Verso quale direzione muove ora la sua ricerca?
Anche qui, non si tratta di direzioni nuove, dato che la ricerca si esercita sempre nell'ambito di quella che io chiamo (ma forse l'ha già detto Contini) l'auscultazione del testo, naturalmente coadiuvata da una strumentazione principalmente dedotta dalla linguistica, dalla semiologia e dalla psicoanalisi. Se vuole, posso precisare che, attualmente, l'atteggiamento dell'auscultazione fa centro sulla lettura, sulla lettura in opposizione all'interpretazione.

Che cosa pensa dell'attuale civiltà (o cultura) dell'immagine?
Beh, se si riferisce all'immagine televisiva, questa mi pare aberrante: è la conferma dei limiti del sapere dello spettatore, limiti che non devono essere valicati, in nessun modo. Lo spettatore (il tele-utente!) vede e ascolta quello che sa già e che attende di essere confermato. Anche le notizie dei disastri e delle guerre funzionano, nella televisione, come adeguamento ai clichés di massa. La televisione rappresenta, insomma, la cultura dello stereotipo (del luogo comune), calcolata al millimetro.
Se invece, per cultura dell'immagine, si intende quella del cinema, il discorso è del tutto diverso...

In positivo?
Naturalmente. Però si tratta di un discorso troppo complesso, e impossibile da affrontare in questa sede. Dirò solo che il cinema, grazie alle sequenze per immagini, ha imposto una articolazione e una concettualizzazione narrative della realtà quasi incompatibili con quelle della narrativa vera e propria, sia orale sia scritta. Nel cinema, il "racconto della realtà" non è omologabile al "racconto della realtà" quale si effettua nel romanzo o nel racconto vero e proprio: e dico questo malgrado la presenza della sceneggiatura e delle riduzioni dei romanzi a films. Basti pensare che il tempo della sequenza per immagini può anche coincidere col tempo reale, configurarsi come un suo doppio (una sua possibilità speculare), senza tuttavia essere mai il tempo reale. Per cui si può dire che, col cinema, si assiste di fatto alla messa in scena dell'ordine dell'immaginario, entro il quale il Soggetto (lo spettatore) si trova immerso, sperimentando una sorta di dilatazione euforica di sé. Mentre per quanto riguarda il racconto scritto della realtà (o il racconto raccontato), ciò che viene ad articolarsi è soprattutto l'ordine simbolico, il quale fa capo al linguaggio e domina il Soggetto con la sua legge.

Doriano Fasoli

 

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