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Riflessioni in forma di conversazioni

Riflessioni in forma di conversazioni

di Doriano Fasoli

Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice


Un tempo per il dolore

Conversazione con Tonia Cancrini
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it

- maggio 2005
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Quali sono le opere letterarie o filosofiche che secondo lei hanno saputo parlare magistralmente del dolore?
Fra le opere che più ho amato sul dolore citerei senz'altro i tragici greci: Eschilo innanzi tutto e poi Sofocle e Euripide. E poi i poeti hanno una grande sensibilità per il dolore: dai lirici greci a Keats, a
Rilke. Ricorderei infine in particolare Leopardi, il poeta che ho più amato nella mia giovinezza.
Fra i filosofi penso meriti un posto particolare
Schopenhauer.

Temprarsi nel dolore, temperare il dolore. La medietà è una categoria dominante del pensiero e della cultura dei greci. Quali erano le modalità fondamentali secondo cui l’uomo greco viveva il dolore?
Nel mondo greco c'è una ricerca del giusto mezzo. Ma forse proprio perché è anche molto viva per i Greci l'esperienza di un dolore invivibile, insostenibile legato alle vicende più terribili della vita. E anche le passioni più possenti spaventavano molto con la loro forza. E c'era allora il bisogno di contenere, di trovare un equilibrio. Una funzione fondamentale in questo senso viene svolta nel mondo greco dal
mito dove trovano espressione le passioni più forti e violente e le conflittualità più intense. Nella narrazione mitica vediamo espressa la forza dell'amore e la violenza dell'odio, sentimenti e conflitti mediati dal racconto. Pensiamo a Medea che accecata dall'amore e dalla gelosia uccide i figli, pensiamo al folle amore di Fedra per Ippolito e pensiamo soprattutto alle fantasie edipiche narrate nelle loro complesse e varie vicissitudini. Il mito di Edipo è per i Greci coincidente con il mito stesso delle origini. La nascita, la morte, la procreazione e subito l'Edipo. Il padre ha paura dei figli, teme che prendano il suo posto e allora li uccide. Uno dei figli aiutato dalla madre si salva e uccide il padre. Così in Esiodo (Teogonia), come nelle versioni successive fino a Sofocle (L'Edipo re). Gli aspetti più primitivi delle fantasie edipiche sono colti molto bene da Eschilo nell'Orestea, dove viene privilegiato il rapporto precoce con la madre e con il seno. Già da queste poche considerazioni appare come nella narrazione mitica trovano una possibilità rappresentativa le emozioni più forti e incontenibili e le conflittualità più violente. In questo intreccio di emozioni c'è anche il dolore che come altre emozioni viene vissuto, ma temuto nella sua intensità è mediato nella rappresentazione mitica. Pensiamo anche alla espressione del dolore per la morte di Patroclo che Omero ci racconta nel pianto dei cavalli immortali di Achille.
E il timore che suscitano le emozioni troppo intense ce lo mostra anche
Platone nel primo libro della Repubblica dove ricorda come Sofocle lodava la vecchiaia come quel momento in cui si attutisce la forza delle passioni, "perché nella vecchiaia simili istinti s'acquietano del tutto in una grande pace e libertà: quando le passioni cessano d'essere ardenti e si allentano, s'avvera integralmente il detto di Sofocle, è una liberazione da molti e pazzi padroni" (329 c-d). E questo ovviamente tempera il dolore, rendendolo meno lancinante, più sopportabile.

Il cristianesimo conosce solo una vena disperata? O, al contrario, all’interno della storia cristiana esiste una grande vena quietista che ha caratterizzato larga parte della “devotio moderna” e ha avuto uno sterminato potere edificante?
Certamente ci sono nel
cristianesimo, in una storia che copre ormai due millenni, diversi modi di accostarsi al dolore, dalla vena più disperata alla rassegnazione. Ma io credo che fondamentalmente il cristianesimo riesce a mitigare il dolore e a fornire una consolazione rispetto alle esperienze più devastanti della vita con la certezza della presenza di Dio e della ricompensa nell'altra vita. "Beati coloro che piangono perché saranno consolati".
Il limite del cristianesimo da un punto di vista laico è l'accentuazione del senso di colpa e il fatto che toglie valore al
piacere della vita. Il dolore è concepito come espiazione rispetto a una colpa e viene comunque considerato un merito acquisito per la vita futura. E poiché il dolore, come tutto il resto, viene da Dio deve essere accettato e deve avere un senso nella vita spirituale dell'individuo. Nel mondo laico invece il dolore può essere accolto soltanto in quanto fa parte della vita stessa e perché è così strettamente legato alla ricchezza delle emozioni.

Perché nel cristianesimo l’amore è un dovere, un comandamento universale, mai una passione particolare?
L'amore è certamente anche una passione. Penso a come ne parla
Sant'Agostino nelle Confessioni. Ma da passione si trasforma poi in qualcosa di più universale e spirituale che deve allora riguardare tutti. Ed è in quest'ottica che può allora diventare dovere e acquisire così quel carattere non spontaneo che sembra allontanare la religione dalla vera umanità.

Un greco sarebbe stato capace di amare il dolore?
No, io credo che nessuno possa amare il dolore di per sé e certamente questo non poteva avvenire nel mondo greco classico dove regna l'armonia e la bellezza. Ma certamente i greci amavano l'espressione del dolore nelle sue forme più estreme, come ben vediamo nei tragici. Perché il dolore è comunque vita e per vivere pienamente non si possono non attraversare i sentieri della sofferenza.

Quanto alla cultura dei moderni, essa si adatta alla sofferenza poiché ha interiorizzato la pena?
La cultura moderna sembra avere compiuto un processo di interiorizzazione che ha sviluppato nell'uomo uno spazio interno per le emozioni e gli affetti. Non credo che questo comporti un adattamento al dolore, ma forse soltanto un modo diverso di fare esperienza.

Il soffrire come tonalità media dell’esistere è prioritariamente moderno ed in questo senso solo i moderni sono capaci in senso stretto di melanconia?
La melanconia è certamente uno stato dell'animo. Anche gli antichi conoscevano la melancholia, quell'atra bilis che offusca e attanaglia il cuore e spegne ogni spinta vitale. Ne parla
Ippocrate e ce n'è notizia nel Corpus aristotelicum (Problemata 30, 1).
Nei moderni il tema della melanconia e del mal di vivere è vieppiù presente. Mi vengono in mente dei versi di
Eugenio Montale:

 

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato...
(Ossi di seppia)

 

La psicoanalisi ha indagato sul senso e le origini della melanconia fin dagli inizi, da Freud ad Abraham a Melanie Klein, sottolineando in particolare gli aspetti negativi e distruttivi della depressione melanconica e il suo legame con il sentimento di colpa.

Leopardi che si intendeva di sofferenza quanto di modernità scrive su questo punto: “lo sviluppo del sentimento e della melanconia è venuto soprattutto dal progresso della filosofia, e della cognizione dell’uomo, e del mondo, e della vanità delle cose, e della infelicità umana, cognizione che produce appunto questa infelicità, che in natura non dovevamo mai conoscere”. Come si possono “giudicare” queste parole?
Penso che
Leopardi abbia ragione nel collegare la sofferenza alla conoscenza. Più siamo consapevoli del nostro mondo interiore, del valore della vita e insieme della sua "vanità" o "caducità" come direbbe Freud, e più possiamo essere infelici, tristi per quel che perdiamo, per quel che non riusciremo mai a raggiungere, per quello che desideriamo e non abbiamo.
Non credo però che la contrapposizione sia fra la natura e la conoscenza, non essendoci infelicità in natura, ma soltanto nella cognizione. Se non nel senso in cui dicevo prima per cui una vita mentale più sviluppata e consapevole aumenta le nostre potenzialità e con ciò la nostra vulnerabilità alla sofferenza.

Doriano Fasoli

 


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