Riflessioni dal Carcere
Detenzione e percezione della pena.
Indagine sociologica sugli effetti del trattamento penitenziario
Di Fabrizio Dentini Dicembre 2008
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- Introduzione
- 1 Perdita della libertà, relazioni affettive e produzione sociale di stigma.
- 2 Perdita della libertà, perdita di beni e servizi e solidarietà.
- 3 Perdita di libertà e sicurezza personale.
- 4 Perdita della libertà ed autonomia individuale.
- 5 Perdita della libertà e trattamento penitenziario come meccanismo di potere.
- 6 Perdita della libertà e ipotesi di reinserimento.
- Conclusioni e Bibliografia
5 Perdita della libertà e trattamento penitenziario come meccanismo di potere.
Principalmente gli istituti di pena devono assolvere due obbiettivi istituzionali: la reclusione dei detenuti implementata attraverso l’utilizzo del corpo di custodia e la rieducazione degli individui reclusi, implementata attraverso il servizio degli addetti all’area così detta “trattamentale”, intesa comunemente come l’insieme delle attività formative e ricreative fornite da una determinata Amministrazione in un determinato istituto di pena; la quantità e qualità di queste attività differisce da istituto a istituto, in ogni prigione l'area trattamentale è declinata in base alle strutture disponibili, alla popolazione detenuta e alle risorse previste per lo svolgimento di questi servizi suppletivi rispetto ai servizi di sicurezza e custodia.
Il trattamento è pertanto finalizzato a formare/consolidare nell'individuo le attitudini sociali e civili che in un certo grado si suppone egli non possegga o abbia perduto; esso, agendo sotto un profilo finalizzato alla risocializzazione, punta ad integrare la formazione personale del detenuto: attraverso i corsi professionali, l’insegnamento di mestieri e competenze che egli potrà sfruttare a suo favore al momento della riammissione a pieno titolo nella società, e cercando di stimolare attraverso l'attività scolastica e lavorativa le attitudini a rispettare le norme civili di convivenza, (vedi Sykes, 1958, p. 34).
Queste attività si inseriscono necessariamente nel contesto istituzionale della prigione, gli addetti all'area del trattamento sono sottoposti alle priorità e vincolati dalle esigenze stabilite dalla Direzione, ed è proprio sotto l'ottica di questa relazione che l’indagine sottolinea alcuni aspetti in merito a ciò che è comunemente designato come trattamento penitenziario. Il trattamento penitenziario risulta essere l'azione che l'istituzione ha sul detenuto sia dal punto di vista custodialistico che dal punto di vista trattamentale, gli effetti che questo trattamento ha sull'individuo devono essere esaminati nella loro totalità, come una somma di fattori e non come due fattori separati; questa somma, nella quale la sudditanza strutturale dell'area del trattamento alle necessità di custodia rappresenta un fenomeno che caratterizza l'economia interna dei poteri istituzionali, è necessaria ai fini di comprendere complessivamente gli effetti reali che questo trattamento può raggiungere sugli individui ai quali si applica.
Un individuo detenuto all’interno di un’istituzione totale come il carcere si confronta quotidianamente con i meccanismi e le strutture amministrative e di controllo che regolano lo svolgimento delle attività trattamentali; tale azione ha effetto su due livelli distinti, il grado nel quale i primi permettono le seconde determina gli effetti che l’istituzione penitenziaria ottiene sull’individuo (vedi Sykes, 1958, p. 36).
In base dunque alla reazione che l’individuo sviluppa nei confronti dell’ambiente oppressivo che lo circonda si possono definire gli effetti che la detenzione produce sulla sua concezione del sé, le attività trattamentali influenzano l’evoluzione del percorso detentivo inserendosi nella cornice offerta dall’istituzione e ciò che ogni detenuto trae dal rapporto con questa duplice relazione costituisce in sostanza l’effetto che l’azione istituzionale raggiunge su ogni individuo recluso al suo interno.
Durante lo svolgimento delle interviste si è delineata con chiarezza la posizione che i detenuti hanno sviluppato rispetto ai meccanismi entro i quali si realizza l’azione trattamentale: più della metà degli intervistati, dodici persone su venti, ha tenuto a precisare come all’interno dell’istituto sia attribuita fondamentale centralità alle logiche di sorveglianza e di custodia, gli effetti dunque che le disposizioni in merito hanno sul benessere e l’integrità di ogni individuo vengono identificati come il tratto costitutivo dell’azione istituzionale, la rieducazione e le attività ad essa connesse svolgono una funzione integrativa inserita nel contesto privativo che regola la vita all’interno di un istituto di pena; per quanto riguarda dunque l’azione risocializzante perseguita dagli addetti al trattamento nei confronti della popolazione detenuta si può affermare che essa non ottenga la totalità dei risultati che auspica in quanto il forte contesto restrittivo presente inficia strutturalmente la possibilità che i detenuti percepiscano le attività formative/ ricreative come vettori di un reale cambiamento e non come alternative da sfruttare per alleviare il peso della detenzione.
Dal copioso materiale acquisito in merito a questo aspetto della detenzione emergono con efficacia le parole di Gianfranco “la galera non ti porta a dire che hai sbagliato, questo lo sai già da solo. La legge non è uguale per tutti. La punizione dovrebbe insegnarti a vivere nella maniera giusta dandoti un buon esempio, non dovrebbe essere solo sofferenza”; attraverso queste parole G. comunica di condividere in linea generale la funzione rieducativa attribuita alla punizione, egli aggiunge però una nota di critica al modo in cui l’istituzione persegue nel detenuto lo sviluppo di attitudini finalizzate alla riammissione nella società, la prigione dovrebbe produrre infatti dei meccanismi relazionali il più possibile adeguati ai valori che intende inculcare, tramite l’esempio fornito potrebbe richiedere un adeguamento dei detenuti ai canoni relazionali proposti e dimostrare che nonostante l’intercessione della sanzione detentiva l’individuo punito è ancora ritenuto degno di attenzione e rispetto. In contrasto con questa constatazione, l’esempio quotidiano fornito dall’istituzione ai detenuti è descritto in termini di sofferenza, dal momento dunque che l’elemento principale della realtà penitenziaria risulta essere una condizione estremamente distante dalla normalità della vita sociale, egli ritiene quantomeno improbabile che possa avvenire un cambiamento positivo nei comportamenti dell’individuo detenuto.
Sia Shola che Fabian esprimono lo stesso parere in merito al senso di frustrazione vissuto: se Shola racconta “Lì dentro non c’è nessuna rieducazione, la loro rieducazione è vedere la paura di rispondere, non sapere se dire A o B non sapendo quale risposta loro si aspettano da te. L’educazione si basa su chi ha potere e chi no, su chi è una persona e chi no”, Fabian conferma “La parola riabilitazione non ha senso riferita al carcere dove qualsiasi rapporto è basato sulla paura, se sbagli con una guardia sei punito, l’unica educazione è la paura, nemmeno con i cani ci si comporta così”. Le gerarchie di potere all’interno del carcere concorrono a definire il metodo attraverso il quale l’istituzione si rapporta al detenuto, secondo le posizioni espresse da queste parole la netta prevalenza dei meccanismi degradanti rispetto agli effetti dei meccanismi socializzanti costituisce la totalità della dimensione penitenziaria.
Le relazioni sono esplicitamente basate sulla demarcazione fra i detentori del potere e la popolazione detenuta; l’istituto si mostra al detenuto principalmente attraverso le pratiche autoritarie che ne circoscrivono le attività ed il corpo di sorveglianza durante l’interazione con i detenuti basa la sua autorità e giustifica le sue azioni tramite il riferimento alla differenza di status che separa gli amministratori dagli amministrati. Questa normalità definita in termini di continua relazione allo stigma sociale che sottende alla punizione porta l’individuo detenuto ad esacerbare la propria prospettiva di analisi; recluso e continuamente in contatto con il disavanzo di potere che ne specifica la condizione il detenuto legge nella sua condizione solo gli aspetti mortificanti del regime carcerario, all’interno della sua ottica non trova spazio significativo nessun altra dimensione.
La detenzione spinge l’individuo verso i momenti più bassi della sua esistenza, il trattamento penitenziario declinato in questi termini spinge il/la detenuto/a ad assumere un atteggiamento di difesa e distacco nei confronti dell’istituzione, le prevaricazioni imposte e prodotte dal regime detentivo bloccano gli sforzi tentati in direzione rieducativa e conducono l’individuo ad accentuare il risentimento nei confronti dell’autorità punitiva ed in senso lato della società intera che ne avvalla le pratiche e le tattiche repressive a scapito delle mire risocializzanti; sono di questo avviso sia Clod che afferma: “Sotto l’aspetto educativo mi ha fatto diventare carogna verso certe persone e più buono verso altre; ha accentuato le mie caratteristiche nel bene e nel male” sia Luis che sancisce laconicamente: “ esci dal carcere con meno sentimenti, perché sei abbandonato a te stesso e diventi più cattivo”.
In base ai risultati ottenuti nelle interviste è possibile affermare che l’individuo uscito dal carcere e reinserito nella vita sociale porta con se le esperienze collezionate durante il regime di detenzione: queste esperienze lungi dall’aver prodotto un riadattamento ai modelli relativi alla vita in libertà hanno spesso ottenuto - a giudicare dalle parole degli intervistati - gli effetti diametralmente opposti ed hanno condotto l’ex detenuto/a ad un atteggiamento nei confronti della società più ostile di quanto fosse al momento dell’ingresso; questa situazione si è detta discendere dall’atteggiamento istituzionale nei confronti della popolazione detenuta: nonostante quindi all’interno del sistema penitenziario siano implementate attività finalizzate al recupero, il loro valore effettivo viene ad essere neutralizzato dalla concomitanza delle azioni tese esplicitamente alla mortificazione del detenuto, ed implicitamente dai meccanismi atti a colpevolizzare e definire l’individuo punito esclusivamente in termini stigmatizzanti:
“se il regime carcerario fosse [...] equamente amministrato, capace di prendersi cura degli altri e umano, ci sarebbe la possibilità per i detenuti di essere, almeno in parte, educati alla legalità [...] Più spesso, però, il regime istituzionale [...] in nome di un’efficiente gestione amministrativa, lascia un certo spazio a forme di ingiustizia, arbitrarietà, indifferenza o brutalità che portano inevitabilmente a sentimenti di risentimento e opposizione da parte dei reclusi” (Garland, 1990, p. 304).
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