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Archetipo
L'ARCHETIPO: FORMA SENZA CONTENUTO
Qui di seguito alcuni passi inerenti al pensiero junghiano tratti dal libro di M. Mencarini e G. Moretti.
"I contenuti dell'inconscio collettivo si riallacciano al patrimonio storico-culturale dell'intera umanità.
Scrive Jung:
La mia tesi, dunque, è la seguente: oltre alla nostra coscienza immediata, che è di natura del tutto personale e che riteniamo essere l'unica psiche empirica (anche se vi aggiungiamo come appendice l'inconscio personale), esiste un secondo sistema psichico di natura collettiva, universale e impersonale, che è identico in tutti gli individui.
Quest'inconscio collettivo non si sviluppa individualmente ma è ereditato.
Esso consiste in forme preesistenti, gli archetipi, che possono diventare coscienti solo in un secondo momento e danno una forma determinata a certi contenuti psichici.
Se definire il concetto d'inconscio collettivo è per Jung relativamente facile non altrettanto si può dire riguardo al concetto di archetipo.
Archetipo è un termine già usato presso gli antichi (Filone di Alessandria, Ireneo, Dionigi l'Areopagita) che Jung riprende e trasforma gradualmente.
In un primo tempo l'archetipo è visto come contenuto dell'inconscio collettivo, frutto della sedimentazione delle esperienze ripetute dall'umanità nel corso dei millenni, immagini primigenie simili alle idee eterne platoniche.
Esse sono da Jung fatte risalire ad un periodo in cui la coscienza ancora non pensava ma percepiva: forme eterne e trascendenti.
In un secondo momento Jung sottolinea maggiormente gli aspetti formali e strutturali dell'archetipo a scapito di quelli contenutistici.
L'archetipo non è più visto come un contenuto dell'inconscio collettivo bensì una forma senza contenuto. Non un comportamento ma un modello di comportamento.
Scrive Jung:
Non si tratta dunque tanto di "rappresentazioni" ereditate quanto di possibilità ereditate di rappresentazioni. Fra l'altro non dobbiamo dimenticare che essendo l`archetipo una manifestazione dell'inconscio (collettivo), la coscienza ne può avere soltanto una conoscenza indiretta.
Anzi, l'atto conoscitivo stesso modifica l'archetipo.
Scrive Jung al proposito:
L'archetipo rappresenta in sostanza un contenuto inconscio che viene modificato attraverso la presa di coscienza e per il fatto di essere recepito, e ciò a seconda della consapevolezza individuale nella quale si manifesta.
Dice Jung:
Nessun archetipo è riducibile a semplici formule. L'archetipo è come un vaso che non si può svuotare né riempire mai completamente.
In sé, esiste solo in potenza, e quando prende forma in una determinata materia, non è più lo stesso di prima.
Esso persiste attraverso i millenni ed esige tuttavia sempre nuove interpretazioni.
Gli archetipi sono elementi incrollabili dell'inconscio, ma cambiano forma continuamente. In gran parte delle sue opere Jung si addentra nello studio e nella descrizione di svariati temi archetipici che ricorrono nelle diverse culture dell'umanità come nei prodotti onirici dei singoli individui. Prendono forma le varie immagini che compongono l'universo archetipico dell'umanità e che sono il frutto del sedimentarsi delle esperienze conoscitive nel corso del tempo: il Fanciullo Divino, il Vecchio Saggio, la Grande Madre, l'Eroe, il Briccone Divino etc.
Questi ultimi equivalgono quindi alla fissazione, nel corso del tempo, di modelli di comportamento inconsci differenziati che tendono inerzialmente a ripetersi e, perciò stesso, a consolidarsi aumentando il loro potere coattivo nei confronti dell'individuo.
L'inconscio collettivo da cui emerge la coscienza individuale è quindi al tempo stesso anche il limite all'evoluzione della stessa coscienza individuale, qualora il singolo non sappia liberarsi dal potere che l'archetipo inconscio ha su di lui.
L'uomo si trova in tal modo ad essere attraversato da un'altra contraddizione: in lui si manifesta la tendenza a ripetere comportamenti ed atteggiamenti collettivi che oltretutto appartengono al passato dell'umanità e, al tempo stesso, egli sperimenta il desiderio di salvaguardare la propria libertà dando risposte originali a nuove situazioni ambientali.
La presa di coscienza individuale, che è poi il processo di individuazione, consiste allora nell'integrare l'archetipo alla coscienza liberando così l'uomo dall'oscuro dominio del pregiudizio.
Ecco che allora la dinamica archetipica, in quanto disposizione alla rappresentazione finalizzata alla conoscenza, acquista il significato di attitudine riflessiva. Attitudine attraverso il cui esercizio procede l'evoluzione della conoscenza nella dialettica coscienza/inconscio.
Tale attitudine, che possiamo anche chiamare potenzialità alla riflessione, diventa atto conoscitivo, cioè atto riflessivo, attraverso la propria oggettivazione nel contenuto rappresentato:
l'immagine primigenia. Quest'ultima arriva quindi a coincidere con il simbolo.
Una volta che il simbolo è portato alla coscienza si depotenzia, si trasforma in segno e cessa di agire inconsciamente sul comportamento dell'uomo. In tal modo però si rende possibile l'affiorare di nuovi contenuti simbolici che contengono le nuove risposte alle nuove esigenze che il mondo pone all'individuo.
Come però abbiamo visto il discorso di Jung circa l'archetipo si muove tortuosamente attraverso continui sforzi di ridefinizione.
L'ansia di voler continuamente ridefinire, l'allargamento analitico nello studio di una impressionante mole di simboli, questo aspetto di Jung che ci è oramai diventato familiare, è dettato dal timore più volte espresso di cadere nella univocità della definizione esaustiva. Jung sembra non avere fiducia nel linguaggio: infatti esso è totalmente improntato alle esigenze espressive della coscienza antinomica e quindi di una parte del tutto altro dal tutto.
Il linguaggio è infatti strutturato sulla separazione del soggetto dall'oggetto, sulla "consecutio temporum", sul principio di non-contraddizione.
L'archetipo, in definitiva, è una pura dinamica che via via si oggettiva per poi nuovamente dinamizzarsi, e così via.
E' il soggetto riflessivo che si dà nell'esperienza conoscitiva e quindi torna a distanziarsi per rifletterla, per poi tornare a darsi in una nuova esperienza portando con sé tutta la conoscenza fatta precedentemente.
Per descrivere una dinamica dialettica occorre che il linguaggio stesso si faccia consapevolmente dialettico.
Che saltino la "consecutio temporum" ed il principio di non-contraddizione, che il soggetto e l'oggetto si riconoscano entrambi come simili nel loro reciproco riconoscersi nel verbo.
Il pensiero e la materia allora si rivelano essere i due momenti della stessa dinamica conoscitiva e tutto prende consapevolezza di sé in quanto Tutto."
Tratto da: Giorgia Moretti e Mario Mencarini "Alle soglie dell'infinito" (pag. 148 e seg.). E.i.p.
fonte: www.geagea.com
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